[RIFORMANDO:579] Unita' d'Italia e paura del cambiamento
Mobiglia  Mercoledi`, 28 Giugno 2000

Non e' vero che "per il federalismo parlano solo Francesco e qualche volta
il
Lusiani. Il resto è un coro di dinieghi e di grande paura", come scrive
Giovanni Baruzzi.
Forse la lista Riformando dorme un po', pero' mi sembra che i favorevoli al
federalismo siano in maggioranza, magari con sfumature diverse.

La paura del "polismo" e' fondata, ma va assolutamente e ragionevolmente
scissa da qualsiasi giudizio sul federalismo.
Oggi abbiamo delle regioni (piu' forti) in mano al polo, e il potere
centrale (un po' meno centrale) in mano a "Ulivo - Insieme per Mastella
:-)"; domani si potrebbe verificare la situazione opposta, con un governo
centrale di destra e molte piu' regioni in mano al "Nuovo Ulivo" a
bilanciarne il potere.

Oggi vediamo un vanesio Formigoni giurare fedelta' al popolo lombardo (quale
sarebbe poi questo popolo lombardo?) e Albertini, il sindaco-centrocampista,
che fa giurare i vigili in piazza Duomo sotto i piccioni... domani vedremo
se le promesse saranno mantenute (e il burosauro delle regioni verra'
smontato, per ottenere le province-cantone) o se semplicemente queste timide
prove generali di federalismo hanno spostato un centro, che era a Roma, in
tanti centri spendaccioni e poco efficienti, che sarebbero i capoluoghi di
regione...

L'Unita' d'Italia fu fatta nell'unico modo possibile, credo. 
Molto cuore e genio, poca organizzazione, un manipolo di idealisti d'assalto
e tante promesse non mantenute, specie per il sud.
Io non ci sputerei sopra; in fondo l'alternativa era la conservazione
dell'esistente, e delle divisioni. Ricordiamo che le classi abbienti del
Nord non furono particolarmente entusiaste dell'Unita'... per fortuna
Vittorio Emanuele II non si sottrasse alla storia (come i suoi successori
codardi) e non si fece condizionare dai conservatori. 
Come accade spesso, quello che doveva essere il "la" ad un processo di
responsabilizzazione e modernizzazione e' invece stato seguito da continue
resistenze; progressi e regressioni si sono alternate in un clima sempre
piu' violento.
Lo spirito e il genio di Garibaldi, Vittorio Emanuele II e Cavour purtroppo
non durarono abbastanza, e si arrivo' alle repressioni dei governi di
destra, alla follia colonialista, alla prima guerra mondiale, alla crisi
economica e al fascismo tra contrasti crescenti e rivendicazioni sociali che
provocavano un clima di instabilita' e paura. Anche dopo la seconda guerra
mondiale la paura l'ha fatta da padrona, con il terrore del "salto nel
buio"... povero paese!
L'Unita' d'Italia e' arrivata tardi, e si e' trovata ad affrontare degli
scontri sociali tremendi per una giovane nazione.
E' anche per questo che nell'inconscio italiano persiste una forte paura e
resistenza al cambiamento.

fm

***
da http://www.unifi.it/centri/sise/o_visto.htm

Guido Pescosolido, Unità nazionale e sviluppo economico 1750-1913,
Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 360, Lit. 38.000, ISBN 88-420-5484-4. 

L'Autore prende le mosse dalle argomentazioni e dalle matrici economiche che
stanno alla base delle critiche antimeridionaliste e antiunitarie, che,
seppure con sfumature diverse, hanno trovato spazio in questi ultimi anni.
Si è infatti parlato di un preteso sfruttamento economico del Nord
perpetrato dallo stato centralista e di un massiccio trasferimento di
risorse al Mezzogiorno quali cause del dissesto della finanza pubblica,
oltre che di uno sviluppo economico distorto. Senza soffermarsi su quelle
correnti storiografiche che hanno "processato" il Risorgimento, Pescosolido
concentra la propria attenzione sugli aspetti economici della nostra storia
nazionale, con il proposito di esaminare, da un lato, l'entità e la natura
dei processi di trasformazione avvenuti nel secolo scorso e, dall'altro, il
contributo dello Stato unitario a questi, e, in particolare, al processo di
industrializzazione. Pur non entrando nello specifico degli odierni
trasferimenti di ricchezza tra le diverse regioni del paese e della loro
direzione, egli intende verificare 'se per la sezione settentrionale
dell'economia nazionale l'unificazione politica della penisola sia poi stata
effettivamente quel "pessimo affare" da più parti lamentato'. 

Secondo Pescosolido la trasformazione economica e sociale che ha fatto
dell'Italia un paese sviluppato e moderno iniziò nella seconda metà del
Settecento con la ripresa economica internazionale, ma una svolta
significativa rispetto al passato si ebbe soltanto con la nascita dello
Stato unitario. Prima di allora nessuna area del Paese fu in grado di
esercitare un'azione di stimolo sull'intera economia nazionale, dato che
tanto il Nord quanto il Sud non erano altro che òdei piccoli paesi
subordinati politicamente e emarginati economicamente". 

La formazione dello stato nazionale fu dunque fondamentale per avviare quel
processo di industrializzazione auto propulsivo che ha rivoluzionato il modo
e i livelli di vita dell'intera collettività e i cui fattori decisivi, nei
quali convogliarono anche gli effetti di quelli secondari, furono il mercato
e, dopo l'unità, soprattutto il ruolo assunto dallo Stato. 

Fra l'area settentrionale e quella meridionale del paese esisteva già un
divario, specie in termini di rapporti sociali, alfabetizzazione e sviluppo
dei trasporti, ma un'economia davvero dualista si determinò dopo il 1861 e,
in particolare, fra la fine degli anni Ottanta e lo scoppio del primo
conflitto mondiale. La politica economica della Destra si rivelò pesante per
il Mezzogiorno, ma ancora di più lo fu la scelta protezionista del 1887, i
cui vantaggi immediati andarono tutti a favore del Nord. Ne consegue che, se
dovessimo tracciare un bilancio fra le due parti del Paese in termini di
dare e avere economico e finanziario tra il 1860 e il 1914, il saldo sarebbe
decisamente a favore del Settentrione.  

***
da http://web.tiscalinet.it/storia/arret/num39/artic3.htm (sull'identita'
nazionale, Franco Gianola)

[..] Ernesto Galli della Loggia (università di Perugia) considerava ancora
accettabili i punti stabiliti oltre un secolo fa dal politico e giurista
Pasquale Stanislao Mancini: "E' costituita da una società naturale di
uomini, da unità di territorio, di origini, di costume e di lingua,
conformata a comunanza di vita e coscienza sociale. Se mai c'è stato un
serio e reale tentativo di cominciare a modellare, alla fine delle guerre
risorgimentali, la nazione Italia, è vero che un ventennio di dittatura
fascista ha bloccato la maturazione di una società già di per se complessa
per la profonda diversità culturale delle sue componenti. Tuttavia il trauma
che blocca drammaticamente la crescita psicologica del Paese è rappresentato
dal trattato, imposto dagli Alleati (Francia, Stati Uniti e Inghilterra) con
il quale viene conclusa l'assurda guerra che Mussolini ha combattuto accanto
alla Germania nazista. Della Loggia lo mette in evidenza all'inizio della
sua relazione: Il trattato di pace è la ratifica, insieme concreta e
simbolica, della gravissima perdita di sovranità che l'Italia subisce in
conseguenza della guerra voluta e perduta dal fascismo. Dirà Alcide De
Gasperi - e le sue parole sono tanto più significative perché dette a porte
chiuse - davanti ad alcuni collaboratori: 'Si tratta di un vero e proprio
diktat, nella sostanza l'Italia torna alle condizione di prima del
Risorgimento: le sue frontiere restano completamente aperte; i suoi
territori nazionali le vengono strappati, le clausole economiche sono
gravissime'. Nel trattato di pace del 1947 - continuava della Loggia - si
ratifica che l'Italia è divenuta ormai e definitivamente un piccolo Paese
(sia pur con una importante posizione geografica). Veniva cioè colpita al
cuore l'immagine dello Stato e della nazione italiani che le classi
dirigenti avevano sempre avuto dal Risorgimento in poi: un Paese,
un'identità dal grande passato storico che doveva mirare a un non meno
grande avvenire.... 
Ha certo valore puramente aneddotico, ma comunque assai significativo della
riduzione della sfera della sovranità nazionale italiana il fatto che nel
1944 nei palazzi apostolici cominci a circolare un progetto di estensione
territoriale dello Stato della Città del Vaticano; che si parli di un
allargamento alla vicina Villa Pamphili, di uno sbocco al mare a
Civitavecchia. Il momento storico è pesantissimo. Gli italiani sono dominati
da sentimenti contrastanti che vanno dal qualunquismo (ed è a quell'epoca
che nel cielo della politica passa come una meteora il Puq, partito
dell'uomo qualunque) alla speranza, alla convinzione di poter ricominciare
un secondo risorgimento. Inizia una faticosa marcia verso il futuro, nel
tentativo di mettersi all'altezza degli altri Paesi, di diventare nazione
come la Francia, la Germania, l'Inghilterra, gli Stati Uniti e altri. Non
sono pochi gli italiani che sperano nella realizzazione dei presupposti che
hanno dato forza vincente alla guerra di Liberazione. Ma è una speranza
travolta da una situazione internazionale (la divisione del mondo in due
blocchi, quello comunista che fa capo all'Urss e quello democratico guidato
dagli Usa) che coinvolge un'Italia ancora sconvolta dalla dittatura e dalla
guerra e perciò ancor più terrorizzata dal clima di tensione esistente sul
pianeta. Nella lotta di resistenza e liberazione - ricordava Francesco
Barbagallo (università di Napoli) - le diverse forze sociali e politiche
antifasciste rilanceranno i concetti e i valori della patria e della
nazione, coniugandoli strettamente con la democrazia e con le trasformazioni
sociali; e anche con la necessità di una ridefinizione della collettività
nazionale intorno al principio di responsabilità individuale e collettiva.
Ma contrasti, fratture e limiti insuperati hanno impedito che si
consolidasse lo spessore unitario della struttura nazionale italiana. La
nostra storia nazionale resta fragile e segnata da rotture di difficile
ricomposizione: Stato/Chiesa, Nord/Sud, elites/masse, particolarismo
individualistico/civismo solidaristico, fascismo/antifascismo,
comunismo/anticomunismo". Sono dicotomie che mosaicizzano l'Italia, ne fanno
un caleidoscopio che si alterna tra continue fratture e ricomposizioni,
favoriscono una classe politica che governa autocraticamente in nome di un
popolo indottrinato con il famoso metodo del "visto da destra, visto da
sinistra". Gli italiani infatti, non ancora capaci di giudizio autonomo e
sicuro, vengono catturati dai partiti di massa e vi si identificano: nasceva
così l'italiano-democratico cristiano, l'italiano-socialista,
l'italiano-comunista. Simona Colarizi (università La Sapienza di Roma)
definiva il fenomeno usando la formula democrazia dei partiti e ricordava
che, già dal primo dopoguerra, le organizzazione ideologiche mettono sotto
tutela i cittadini. L'identità si sviluppa dunque dentro il partito che fa
da ponte con le istituzioni: la carta d'identità di italiano non si ritira
allo sportello dello Stato ma a quello del partito. 
Nel discorso sull'identità s'innestava anche Silvio Lanaro (università di
Padova) rammentando che lo sviluppo della democrazia viene frenato anche da
un sistema scolastico che non istruisce modernamente il cittadino e da un
localismo esasperato e corruttore. Dalla data del convegno che abbiano
ricordato in sintesi sono passati circa tre anni. Siamo ormai nel Duemila,
l'elettorato, ossia il cittadino italiano, è ancora diviso in gruppi,
sottogruppi, movimenti, ridicoli rimasugli di partiti a caccia di cariche
che hanno come motore l'obiettivo del potere fine a se stesso ma non il
recupero del Paese ad un'amministrazione funzionale, intelligente,
realistica, attenta all'interesse delle famiglie Rossi ed Esposito, alla
sicurezza del loro futuro e del futuro dei loro figli. Per la verità
l'elettorato tenta di reagire a questo stato di cose ma viene regolarmente
respinto con perdite dalla classe politica che arriva addirittura a
capovolgere il voto espresso dalla popolazione quando chiede una chiara
legge bipolarista e una funzionale organizzazione federalista dello Stato
(pur senza pretendere insensate separazioni fra Nord e Sud). Dopo queste
sconfitte l'elettore, lo abbiamo visto, è salito sul'Aventino, indignato e
amareggiato, sentendosi schernito, amareggiato, schiacciato dalla dittatura
di un sistema, di un costume sorretto, in un modo o nell'altro, dalla quasi
totalità dei partiti e dei movimenti. Ma serve salire sull'Aventino? Abbiamo
visto che è un atteggiamento ad alto rischio. L'ultima salita è costata
all'Italia vent'anni di fascismo e quel che ne è seguito. Non è credibile
che l'evento di allora possa ripetersi con le stesse modalità. Ma è certo
che se gli italiani non si affrettano a maturare e conseguentemente ad
imparare ad usare la scheda elettorale non votando di pancia ma di cervello,
sulla strada della nascente e gracile liberal-democrazia italiana si
potrebbe verificare una "caduta massi". Che potrebbe ritardare notevolmente
l'evoluzione del Paese e il suo inserimento definitivo nella cultura
politica e sociale europea.
***
Per i diritti umani http://www.amnesty.it
Contro la fame nel mondo http://www.thehungersite.com/index.html
Per le vittime di guerra http://www.emergency.it




[Date Prev] [ ">Back ] [Date Next]