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Non e' vero che "per il federalismo parlano solo Francesco e qualche volta il Lusiani. Il resto è un coro di dinieghi e di grande paura", come scrive Giovanni Baruzzi. Forse la lista Riformando dorme un po', pero' mi sembra che i favorevoli al federalismo siano in maggioranza, magari con sfumature diverse. La paura del "polismo" e' fondata, ma va assolutamente e ragionevolmente scissa da qualsiasi giudizio sul federalismo. Oggi abbiamo delle regioni (piu' forti) in mano al polo, e il potere centrale (un po' meno centrale) in mano a "Ulivo - Insieme per Mastella :-)"; domani si potrebbe verificare la situazione opposta, con un governo centrale di destra e molte piu' regioni in mano al "Nuovo Ulivo" a bilanciarne il potere. Oggi vediamo un vanesio Formigoni giurare fedelta' al popolo lombardo (quale sarebbe poi questo popolo lombardo?) e Albertini, il sindaco-centrocampista, che fa giurare i vigili in piazza Duomo sotto i piccioni... domani vedremo se le promesse saranno mantenute (e il burosauro delle regioni verra' smontato, per ottenere le province-cantone) o se semplicemente queste timide prove generali di federalismo hanno spostato un centro, che era a Roma, in tanti centri spendaccioni e poco efficienti, che sarebbero i capoluoghi di regione... L'Unita' d'Italia fu fatta nell'unico modo possibile, credo. Molto cuore e genio, poca organizzazione, un manipolo di idealisti d'assalto e tante promesse non mantenute, specie per il sud. Io non ci sputerei sopra; in fondo l'alternativa era la conservazione dell'esistente, e delle divisioni. Ricordiamo che le classi abbienti del Nord non furono particolarmente entusiaste dell'Unita'... per fortuna Vittorio Emanuele II non si sottrasse alla storia (come i suoi successori codardi) e non si fece condizionare dai conservatori. Come accade spesso, quello che doveva essere il "la" ad un processo di responsabilizzazione e modernizzazione e' invece stato seguito da continue resistenze; progressi e regressioni si sono alternate in un clima sempre piu' violento. Lo spirito e il genio di Garibaldi, Vittorio Emanuele II e Cavour purtroppo non durarono abbastanza, e si arrivo' alle repressioni dei governi di destra, alla follia colonialista, alla prima guerra mondiale, alla crisi economica e al fascismo tra contrasti crescenti e rivendicazioni sociali che provocavano un clima di instabilita' e paura. Anche dopo la seconda guerra mondiale la paura l'ha fatta da padrona, con il terrore del "salto nel buio"... povero paese! L'Unita' d'Italia e' arrivata tardi, e si e' trovata ad affrontare degli scontri sociali tremendi per una giovane nazione. E' anche per questo che nell'inconscio italiano persiste una forte paura e resistenza al cambiamento. fm *** da http://www.unifi.it/centri/sise/o_visto.htm Guido Pescosolido, Unità nazionale e sviluppo economico 1750-1913, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 360, Lit. 38.000, ISBN 88-420-5484-4. L'Autore prende le mosse dalle argomentazioni e dalle matrici economiche che stanno alla base delle critiche antimeridionaliste e antiunitarie, che, seppure con sfumature diverse, hanno trovato spazio in questi ultimi anni. Si è infatti parlato di un preteso sfruttamento economico del Nord perpetrato dallo stato centralista e di un massiccio trasferimento di risorse al Mezzogiorno quali cause del dissesto della finanza pubblica, oltre che di uno sviluppo economico distorto. Senza soffermarsi su quelle correnti storiografiche che hanno "processato" il Risorgimento, Pescosolido concentra la propria attenzione sugli aspetti economici della nostra storia nazionale, con il proposito di esaminare, da un lato, l'entità e la natura dei processi di trasformazione avvenuti nel secolo scorso e, dall'altro, il contributo dello Stato unitario a questi, e, in particolare, al processo di industrializzazione. Pur non entrando nello specifico degli odierni trasferimenti di ricchezza tra le diverse regioni del paese e della loro direzione, egli intende verificare 'se per la sezione settentrionale dell'economia nazionale l'unificazione politica della penisola sia poi stata effettivamente quel "pessimo affare" da più parti lamentato'. Secondo Pescosolido la trasformazione economica e sociale che ha fatto dell'Italia un paese sviluppato e moderno iniziò nella seconda metà del Settecento con la ripresa economica internazionale, ma una svolta significativa rispetto al passato si ebbe soltanto con la nascita dello Stato unitario. Prima di allora nessuna area del Paese fu in grado di esercitare un'azione di stimolo sull'intera economia nazionale, dato che tanto il Nord quanto il Sud non erano altro che òdei piccoli paesi subordinati politicamente e emarginati economicamente". La formazione dello stato nazionale fu dunque fondamentale per avviare quel processo di industrializzazione auto propulsivo che ha rivoluzionato il modo e i livelli di vita dell'intera collettività e i cui fattori decisivi, nei quali convogliarono anche gli effetti di quelli secondari, furono il mercato e, dopo l'unità, soprattutto il ruolo assunto dallo Stato. Fra l'area settentrionale e quella meridionale del paese esisteva già un divario, specie in termini di rapporti sociali, alfabetizzazione e sviluppo dei trasporti, ma un'economia davvero dualista si determinò dopo il 1861 e, in particolare, fra la fine degli anni Ottanta e lo scoppio del primo conflitto mondiale. La politica economica della Destra si rivelò pesante per il Mezzogiorno, ma ancora di più lo fu la scelta protezionista del 1887, i cui vantaggi immediati andarono tutti a favore del Nord. Ne consegue che, se dovessimo tracciare un bilancio fra le due parti del Paese in termini di dare e avere economico e finanziario tra il 1860 e il 1914, il saldo sarebbe decisamente a favore del Settentrione. *** da http://web.tiscalinet.it/storia/arret/num39/artic3.htm (sull'identita' nazionale, Franco Gianola) [..] Ernesto Galli della Loggia (università di Perugia) considerava ancora accettabili i punti stabiliti oltre un secolo fa dal politico e giurista Pasquale Stanislao Mancini: "E' costituita da una società naturale di uomini, da unità di territorio, di origini, di costume e di lingua, conformata a comunanza di vita e coscienza sociale. Se mai c'è stato un serio e reale tentativo di cominciare a modellare, alla fine delle guerre risorgimentali, la nazione Italia, è vero che un ventennio di dittatura fascista ha bloccato la maturazione di una società già di per se complessa per la profonda diversità culturale delle sue componenti. Tuttavia il trauma che blocca drammaticamente la crescita psicologica del Paese è rappresentato dal trattato, imposto dagli Alleati (Francia, Stati Uniti e Inghilterra) con il quale viene conclusa l'assurda guerra che Mussolini ha combattuto accanto alla Germania nazista. Della Loggia lo mette in evidenza all'inizio della sua relazione: Il trattato di pace è la ratifica, insieme concreta e simbolica, della gravissima perdita di sovranità che l'Italia subisce in conseguenza della guerra voluta e perduta dal fascismo. Dirà Alcide De Gasperi - e le sue parole sono tanto più significative perché dette a porte chiuse - davanti ad alcuni collaboratori: 'Si tratta di un vero e proprio diktat, nella sostanza l'Italia torna alle condizione di prima del Risorgimento: le sue frontiere restano completamente aperte; i suoi territori nazionali le vengono strappati, le clausole economiche sono gravissime'. Nel trattato di pace del 1947 - continuava della Loggia - si ratifica che l'Italia è divenuta ormai e definitivamente un piccolo Paese (sia pur con una importante posizione geografica). Veniva cioè colpita al cuore l'immagine dello Stato e della nazione italiani che le classi dirigenti avevano sempre avuto dal Risorgimento in poi: un Paese, un'identità dal grande passato storico che doveva mirare a un non meno grande avvenire.... Ha certo valore puramente aneddotico, ma comunque assai significativo della riduzione della sfera della sovranità nazionale italiana il fatto che nel 1944 nei palazzi apostolici cominci a circolare un progetto di estensione territoriale dello Stato della Città del Vaticano; che si parli di un allargamento alla vicina Villa Pamphili, di uno sbocco al mare a Civitavecchia. Il momento storico è pesantissimo. Gli italiani sono dominati da sentimenti contrastanti che vanno dal qualunquismo (ed è a quell'epoca che nel cielo della politica passa come una meteora il Puq, partito dell'uomo qualunque) alla speranza, alla convinzione di poter ricominciare un secondo risorgimento. Inizia una faticosa marcia verso il futuro, nel tentativo di mettersi all'altezza degli altri Paesi, di diventare nazione come la Francia, la Germania, l'Inghilterra, gli Stati Uniti e altri. Non sono pochi gli italiani che sperano nella realizzazione dei presupposti che hanno dato forza vincente alla guerra di Liberazione. Ma è una speranza travolta da una situazione internazionale (la divisione del mondo in due blocchi, quello comunista che fa capo all'Urss e quello democratico guidato dagli Usa) che coinvolge un'Italia ancora sconvolta dalla dittatura e dalla guerra e perciò ancor più terrorizzata dal clima di tensione esistente sul pianeta. Nella lotta di resistenza e liberazione - ricordava Francesco Barbagallo (università di Napoli) - le diverse forze sociali e politiche antifasciste rilanceranno i concetti e i valori della patria e della nazione, coniugandoli strettamente con la democrazia e con le trasformazioni sociali; e anche con la necessità di una ridefinizione della collettività nazionale intorno al principio di responsabilità individuale e collettiva. Ma contrasti, fratture e limiti insuperati hanno impedito che si consolidasse lo spessore unitario della struttura nazionale italiana. La nostra storia nazionale resta fragile e segnata da rotture di difficile ricomposizione: Stato/Chiesa, Nord/Sud, elites/masse, particolarismo individualistico/civismo solidaristico, fascismo/antifascismo, comunismo/anticomunismo". Sono dicotomie che mosaicizzano l'Italia, ne fanno un caleidoscopio che si alterna tra continue fratture e ricomposizioni, favoriscono una classe politica che governa autocraticamente in nome di un popolo indottrinato con il famoso metodo del "visto da destra, visto da sinistra". Gli italiani infatti, non ancora capaci di giudizio autonomo e sicuro, vengono catturati dai partiti di massa e vi si identificano: nasceva così l'italiano-democratico cristiano, l'italiano-socialista, l'italiano-comunista. Simona Colarizi (università La Sapienza di Roma) definiva il fenomeno usando la formula democrazia dei partiti e ricordava che, già dal primo dopoguerra, le organizzazione ideologiche mettono sotto tutela i cittadini. L'identità si sviluppa dunque dentro il partito che fa da ponte con le istituzioni: la carta d'identità di italiano non si ritira allo sportello dello Stato ma a quello del partito. Nel discorso sull'identità s'innestava anche Silvio Lanaro (università di Padova) rammentando che lo sviluppo della democrazia viene frenato anche da un sistema scolastico che non istruisce modernamente il cittadino e da un localismo esasperato e corruttore. Dalla data del convegno che abbiano ricordato in sintesi sono passati circa tre anni. Siamo ormai nel Duemila, l'elettorato, ossia il cittadino italiano, è ancora diviso in gruppi, sottogruppi, movimenti, ridicoli rimasugli di partiti a caccia di cariche che hanno come motore l'obiettivo del potere fine a se stesso ma non il recupero del Paese ad un'amministrazione funzionale, intelligente, realistica, attenta all'interesse delle famiglie Rossi ed Esposito, alla sicurezza del loro futuro e del futuro dei loro figli. Per la verità l'elettorato tenta di reagire a questo stato di cose ma viene regolarmente respinto con perdite dalla classe politica che arriva addirittura a capovolgere il voto espresso dalla popolazione quando chiede una chiara legge bipolarista e una funzionale organizzazione federalista dello Stato (pur senza pretendere insensate separazioni fra Nord e Sud). Dopo queste sconfitte l'elettore, lo abbiamo visto, è salito sul'Aventino, indignato e amareggiato, sentendosi schernito, amareggiato, schiacciato dalla dittatura di un sistema, di un costume sorretto, in un modo o nell'altro, dalla quasi totalità dei partiti e dei movimenti. Ma serve salire sull'Aventino? Abbiamo visto che è un atteggiamento ad alto rischio. L'ultima salita è costata all'Italia vent'anni di fascismo e quel che ne è seguito. Non è credibile che l'evento di allora possa ripetersi con le stesse modalità. Ma è certo che se gli italiani non si affrettano a maturare e conseguentemente ad imparare ad usare la scheda elettorale non votando di pancia ma di cervello, sulla strada della nascente e gracile liberal-democrazia italiana si potrebbe verificare una "caduta massi". Che potrebbe ritardare notevolmente l'evoluzione del Paese e il suo inserimento definitivo nella cultura politica e sociale europea. *** Per i diritti umani http://www.amnesty.it Contro la fame nel mondo http://www.thehungersite.com/index.html Per le vittime di guerra http://www.emergency.it ![]() |