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Mentre l'antitrust, tardivamente introdotta in Italia grazie alla pressione dell'UE, inizia a farsi sentire multando l'oligopolio petrolifero, l'autority per le comunicazioni alza bandiera bianca davanti ad una situazione palesemente illegale e duopolistica. Dove sei, Sinistra? f m BERLUSCONI, LA SINISTRA E IL POTERE TV Sorelle siamesi Sconti dell'80 per cento sugli spot. Premi agli inserzionisti. Frequenze occupate insieme. E anche il famigerato canone è compensato. Tra Mediaset e Rai trionfa il trust. Ma per l'Authority è tutto naturale di Francesco Bonazzi Rai e Mediaset assolte per "espansione naturale". Esplose come il cervello di un dobermann in una scatola cranica troppo piccola. Anche se, trattandosi delle due maggiori aziende "culturali" del paese, viene in mente piÙ che altro l'allargarsi del buco nell'ozono. Trasformare il duopolio in biopolio poteva riuscire solo a quell'organismo transgenico che è la sedicente Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. Un'entità che, a dispetto del nome roboante, è composta da otto commissari e un presidente, il giurista Enzo Cheli, che si atteggiano a sceriffi dell'etere, ma sono lottizzati come un consiglio d'amministrazione di stampo ferroviario. E a causa di un destino cinico e bassolino che ha voluto la sede geografica a Napoli e quella politica a Roma, sono pure costretti a viaggiare tra le metropoli. Certo anche per colpa dell'inadeguatezza del nostro sistema di trasporti, i temibili commissari hanno impiegato un anno per stabilire se nel lontano 1997 (tre anni, nel mondo delle telecomunicazioni, valgono un ventennio) Rai e Mediaset abbiano o no varcato il fatidico limite del 30 per cento di raccolta pubblicitaria previsto dalla legge. Prima di arrivare alla sentenza del 13 giugno, approvata con la sola astensione di un isolatissimo Vincenzo Monaci, i nostri eroi si sono dottamente intrattenuti sul dilemma se a denominatore andassero messi soltanto il canone Rai e il fatturato delle concessionarie come Sipra e Publitalia, oppure anche i costi di agenzia (circa 700 miliardi). L'aspetto più imbarazzante è che in entrambi i casi la legge risultava ampiamente violata. Alla fine, con il metodo più prudente e in base ai dati di AC Nielsen, è venuto fuori che nel 1997 la Rai aveva succhiato il 48 per cento delle risorse economiche del settore (pubblicità più canone) e la Mediaset il 36 per cento. Con tanti saluti ai quei poveretti di Telemontecarlo e delle tv locali. Ma anziché applicare le sanzioni richieste dalla legge, che potevano portare anche a smembramenti societari forzosi, l'Authority ha rilevato che tale superamento non è derivato da intese o concentrazioni, ma da "espansione naturale" delle imprese. Dal che si ricava che prima di parlare di "duopolio" Rai e Mediaset, nonostante una sentenza della Corte Costituzionale del 1994 e una legge del 1997, per Cheli e colleghi bisogna forse arrivare all'eliminazione fisica degli uomini della Cecchi Gori. Non che alcuni commissari di area diessina non siano stati sfiorati da un certo senso del ridicolo mentre vergavano la memorabile locuzione "espansione naturale". Ma alla fine è prevalsa la paura di dare al solito Berlusconi un'altra scusa per fare la campagna elettorale contro il regime liberticida dei comunisti. Come se il centro sinistra avesse perso le elezioni per colpa della par condicio. Mentre il governo regolamenta le vendite sotto costo e quasi criminalizza i "tre per due" nei supermercati, un viaggio nel mondo della raccolta pubblicitaria televisiva spiega perché è impossibile un'indagine antitrust. Qui il mercato, semplicemente, non c'è. Nel 1998 sono piovuti sulle tv ben 6.313 miliardi di lire di pubblicità (dati AC Nielsen Media International) così ripartiti: 2.169 miliardi alla Rai; 3.989 a Mediaset e 155 a Tmc. Ma se si volesse indagare sul meccanismo di formazione dei prezzi si rischierebbe la pazzia. I listini ufficiali escono ogni trimestre con i palinsesti, ma se fossero applicati con un minimo di rigore, Sipra e Publitalia fatturerebbero oltre il doppio. L'inserzionista deve invece rigirarsi in una selva intricatissima di sconti e promozioni che a volte possono arrivare a un taglio delle tariffe pari all'80 per cento del prezzo tabellare. Per altri meno fortunati, invece, ci si ferma al 10 per cento. Una leva di prezzo così smisurata, oltre che sterminare la concorrenza, fa dubitare dell'esistenza di un qualche mercato. La differenza tra chi ottiene il mega sconto e chi paga quasi il prezzo pieno è, manco a dirlo, nei rapporti di forza. Inserzionisti come Barilla e Ferrero possono fare la voce grossa, ma quelli che hanno budget da pochi miliardi subiscono e basta. Anche se una seria campagna tv sui campioni nazionali costa 500 miliardi, calcolati su un prezzo di 5-6 lire per 10 milioni di spettatori a spot, c'è comunque il modo di tirare giù il prezzo. Basta applicare "coefficienti di frazionamento del target" (tra i più elementari, calcolare solo i bambini) sempre più sofisticati e la spesa finale si riduce. È tutto perfettamente legale. Altri sistemi più ingegnosi, anche se meno eleganti, sono quelli dei "premietti" alle centrali media che comprano materialmente gli spot. Un centro media che si presenti da una concessionaria con i suoi mille miliardi di budget può ottenere uno sconto del 15 per cento se ne spende 300 e arrivare al 20 se ne consegna 800. Come non bastasse, per far scattare "l'aliquota" premio, si finisce per andare a caccia anche del piccolo cliente da 500 milioni, che altrimenti si sarebbe rivolto ad altri canali pubblicitari. La fantasia delle concessionarie ha partorito pure il contratto quadro esclusivo. Per ipotesi, se accetti di fare pubblicità solo sulle reti Mediaset, ti viene fatto uno sconto aggiuntivo del 5 per cento. Alla fine di questo tourbillon di listini e sconti fantasma, Sipra e Publitalia riescono comunque a ritoccare i prezzi veri ogni anno in misura ben superiore alla crescita dei consumi. Nell'ottobre del 1998 se ne lamentò Vittorio Ravà, all'epoca responsabile della pubblicità di Fiat Auto, che si dichiarò indisponibile a subire nuovi aumenti di prezzo sugli spot. Indimenticabile la risposta di Giulio Malgara, amico fraterno di Berlusconi e presidente di quell'Upa che dovrebbe tutelare gli interessi degli inserzionisti pubblicitari: «Noi siamo in qualche modo fondatori del mercato della pubblicità e non possiamo lamentarcene. E poi ricordo che il mercato fa convergere naturalmente i nostri interessi con quelli delle aziende-media ed è nelle mani di chi ha la merce più rara, ovvero dei venditori». Ad essere difesi da un tipo del genere c'è di che avere paura. Ma la (in)decisione dell'Authority diventa oltremodo ridicola quando si esce dal campo pubblicitario e si guarda, a caso, negli altri presunti terreni di scontro tra Rai e Mediaset. Sul canone Rai, Mediaset non ha nulla da eccepire e il Polo delle Libertà, a dispetto del suo stesso nome, non combatte alcuna battaglia. La sua esistenza, oltre a colpevolizzare il carrozzone di Viale Mazzini con le solite prediche sul servizio pubblico, consente a Mediaset di rastrellare un sacco di pubblicità in più a titolo risarcimento. Sulle pur limitate frequenze tv, c'È chi è pronto a giurare che in alcune zone d'Italia Mediaset e Rai ne occupino anche un paio a testa, a danno di altre emittenti che aspirano a una vera copertura nazionale. Ma il duopolio comincia dal telecomando. E il fatto che a un certo numero corrisponda un certo canale è una rendita di posizione fantastica, in un paese di pigraccioni da sofà. Sui diritti tv, basta il caso dello sport. A dicembre del 1998, l'Antitrust condannò Rai e Mediaset per essersi spartite la torta sportiva a danno di Tmc, ma il Tar del Lazio annullò prontamente. Chi avesse voglia di rileggersi quelle carte (sul sito "www.agcm.it") capirebbe perché la maggioranza del fu Ulivo meriti di andare a casa e di consegnare la Rai al saggio e disinteressato governo di Re Silvio II. Sul campo delle stelle tv che vagano tra Rai e Mediaset a colpi di contratti miliardari, è appena il caso di dire che nei contratti di due giornalisti come Alessandro Cecchi Paone e Lamberto Sposini, un paio di andate e ritorno a testa, mancano le penali in caso di nuovi tradimenti. Non resta così che affidarsi alle tristi parole dell'ultimo direttore di Tg1 silurato, Giulio Borrelli. Che in un'intervista al "Corriere della Sera" del 18 giugno, sul sorpasso di Canale 5, ha dichiarato: «Lo andavo dicendo da tempo, mi davano dell'allarmista, giuravano che mai Mediaset avrebbe messo in discussione il primato di Raiuno perché sarebbe crollato l'equilibrio del duopolio». Equilibrio del duopolio? Ma quale duopolio? (29.06.2000) http://www.espressoedit.kataweb.it/cgi-bin/spd-gettext.sh?ft_cid=41578 ![]() |