[RIFORMANDO:548] De Rita: "Vi racconto l'Italia che vuole cambiare"
Francesco Paolo Forti  Lunedi`, 19 Giugno 2000

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De Rita: "Vi racconto  l'Italia che vuole cambiare" 
Dopo undici anni al Cnel il professore
ritorna al suo Censis. "Non farò il ministro"

             di SEBASTIANO MESSINA 

ROMA - Più che lo studio di un sociologo, l'ufficio di
Giuseppe De Rita sembra la cella di un monaco.
Disordine, zero. Su una scrivania poco più grande di un
inginocchiatoio i suoi oggetti sono allineati con
simmetria maniacale. Un orologio. Un blocco di carta.
Una pipa. Una bottiglia. Un bicchiere. Di carte, dossier,
fascicoli e ricerche non c'è alcuna traccia. I libri, certo,
ci sono. Incasellati nella libreria dietro di lui, o livellati in
sei pile sotto un ritratto di Giovanni Vettori, gentiluomo
bolognese del '700, dipinto con uno di quei colletti che
sembrano torte alla panna. "La sorprende quest'ordine?
La verità è che io sono un grande decentratore", spiega
De Rita, sorridendo con i suoi occhi di lince. 
Il professore, l'uomo che per 30 anni ci ha raccontato
con i suoi rapporti come cambiava l'Italia, dalla
scoperta dell'"economia sommersa" all'avvistamento
della crescita "a pelle di leopardo", ha dato l'addio alle
istituzioni. Dopo undici anni alla presidenza del Cnel, il
Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro, è
appena tornato al Censis, l'istituto che fondò nel 1964.
Ha lasciato un ufficio con vista su villa Borghese ma si
consola in una palazzina deliziosa, di fronte a villa Ada:
"Una volta - racconta - questa era la casa di Elia
Federici, il ricco concessionario della nettezza urbana

del ventennio fascista. Ogni tanto ci veniva a pranzo
Mussolini: ho trovato il pennone che serviva solo per
issare il gagliardetto del Duce. Naturalmente l'ho fatto
togliere: mica posso far issare il gagliardetto di De
Rita...".
Professore, dopo undici anni passati dietro il
cannocchiale del Cnel, che idea s'è fatta di questa Italia
del 2000? Dopo il boom dell'astensionismo, dovremmo
concludere che gli italiani si sono ormai rassegnati a
vivere senza una vera classe politica. E' così?
"Forse sì. La gente si è convinta che le istituzioni,
soprattutto quelle centrali, appartengano ormai alla
classe politica. Che siano diventate Cosa Loro". 
Mussolini diceva che governare gli italiani non è
impossibile, è inutile. Aveva ragione?
"E invece bisogna governarli. Vede, io mi sono
definitivamente convinto che la società italiana è così
vitale, così frammentata, così decentrata, così
molecolare che è difficile sovrapporle qualcosa, si
chiami programmazione, si chiami volontà politica, si
chiami istituzioni. Oggi la programmazione non c'è più.
Ma le istituzioni e la volontà politica non possono che
accompagnare la società. Se cercano di metterci sopra
il cappello, la società poi si squaglia. Osservando l'Italia
di questi anni, ho capito che questo è un Paese che
non si governa comandando ma accompagnando".
Qual è il problema numero uno della politica italiana,
secondo lei?
"Che non c'è più un pizzico, un grammo, un
decigrammo, un microgrammo di intenzionalità. Io ho
fatto, al Cnel, undici anni di intenzionalità feroce. Volevo
fare questo, volevo fare quello. Oggi le istituzioni italiane
non sono intenzionali. Persino l' uomo che una volta era
il più intenzionale di tutti, il miglior presidente del
Consiglio degli ultimi dieci anni, Giuliano Amato, oggi
non riesce a essere intenzionale. E questo è grave.
Perchè senza intenzione ogni istituzione è vuota. C'è
bisogno di quello che nella psicanalisi si chiama uno
psicopompo". 
Scusi?
"Sì, uno psicopompo. Una figura che infonda a tutti una
forte energia psichica. Le faccio un esempio, anzi
l'esempio numero uno. La Chiesa. Io sono molto
cattolico, ma la Chiesa ha tutti i vizi delle istituzioni: il
rito, la scenografia, l'autoreferenzialità. Però ha una
persona, il Papa, che ha una forte intenzione. Sa quello
che vuole e trasmette la sua energia. Se togliamo il
Papa, che fa da psicopompo alla Chiesa, resta una
burocrazia ecclesiale".
E nella politica italiana chi ha le doti dello psicopompo?
Berlusconi, l'uomo di successo che si è fatto dal nulla?

"Sì, Berlusconi ha la tecnica. Ha la capacità. Il problema
è se poi lui riesce a stabilire un'intenzionalità concreta.
Non basta dirlo, bisogna farlo. Deve indicare degli
obiettivi e lavorare per raggiungerli. Fare l' intenzionale
dall'opposizione è facile. Chi governa viene smangiato,
nella sua intenzionalità. E a poco a poco la perde. Del
resto, perchè nelle istituzioni italiane sono entrati tanti
esterni? Perché si pensava che venendo da fuori
riuscissero a portare una carica di intenzionalità.
Ciampi veniva da fuori. Amato veniva da fuori. Prodi
veniva da fuori. Rodotà, Spaventa, Giugni, Ruffolo
venivano da fuori. Io stesso venivo da fuori. Abbiamo
portato nelle istituzioni quel po' di intenzionalità che
avevamo nello zaino". 
E quale lezione ha imparato, dopo undici anni vissuti in
un'istituzione?
"Che l'istituzione oggi deve essere relazionale, non più
autoreferenziale. E infatti la mia esperienza di questi
undici anni è stata spietatamente relazionale. Ho
cercato di stare dappertutto. Ho cercato di fare gli stati
generali del Piemonte o del Friuli Venezia Giulia e i patti
territoriali nel Mezzogiorno. Ho lavorato per 83 delle 103
province italiane, con tutte le comunità montane... Ho
creato relazioni, ed era questo che volevo. Se non si
segue questa strada le istituzioni sono condannate a
chiudersi nella propria autoreferenzialità".
Ha trovato ascolto, nelle istituzioni?
"Devo dire con grande immodestia che ho avuto
dappertutto un successo enorme, sul piano
istituzionale. Dappertutto, tranne che a Roma. Perché
lo Stato è centralistico, è piramidale, è autoreferenziale.
E nessuno a Roma aveva voglia di mettersi a limare le
colonnine del tempio greco". 
Quale tempio greco? 
"Feliciano Benvenuti faceva un esempio splendido.
Diceva che per capire cosa viene dopo lo Stato
piramidale bisogna chiedersi quale monumento è
venuto dopo la piramide. E' venuto il tempio greco.
Cento colonne che sostenevano il frontone. Ecco, oggi
l'Italia deve diventare un tempio greco, con tante
colonne che sostengono lo stesso Stato. Bisogna
distribuire il potere con intelligenza invece di
comandarlo a suon di editti. Ma negli ultimi dieci anni il
Paese ha subìto una spinta per verticalizzare il potere,
non per redistribuirlo: il maggioritario, la premiership, la
personalizzazione dei leader, hanno accentuato il ruolo
della punta della piramide. O meglio, del faraone".
Ma il faraone non è forse quello che gli italiani
desiderano, in fondo? Cos'altro c' è, dietro la marea
crescente di consenso che ottengono i sindaci e i
presidenti delle Regioni, se non la voglia di un leader
forte e autorevole?
"Eppure la voglia del faraone è accompagnata dalla
voglia di appenderlo per i piedi due mesi dopo. Si cerca
insieme un capo e un capro espiatorio. Il re, nei popoli
primitivi, sapeva che sarebbe stato ucciso. Non lo
uccideva nessuno, lo uccidevano tutti insieme: lo
spingevano verso la rupe, senza mai toccarlo, finchè lui
cadeva giù. Lo espungevano". 
E' una chiave interessante per leggere le storie del
governo Berlusconi, del governo Prodi, del governo
D'Alema...
"Ecco perché io, che mi considero più furbo degli altri,
non accetterei mai di fare il capo. Perchè nel momento
stesso in cui ti danno il potere, scatta il meccanismo
della legittimazione. Cominciano a dire: non è così forte
come pensavamo. Che è un modo per dire: non sono
io che ho sbagliato a scegliere te, sei tu che mi hai
deluso. Il risultato è che ci stiamo bruciando i migliori.
La mia generazione riconosceva una superiorità di
Prodi, di D'Alema e di Amato. Nello spazio di un paio
d'anni ce li siamo giocati tutti e tre".
Berlusconi però è resuscitato. E ora viene portato sugli
scudi dagli stessi uomini che lo pugnalarono nel '94. E'
un'eccezione che conferma la regola?
"Non è detto. Sentivo alla radio che Cossiga, il grande
stregone della politica italiana, comincia a delegittimarlo
prima ancora che abbia vinto".
Negli anni Ottanta lei è stato il "consigliere del principe"
di Ciriaco De Mita. Se n'è pentito?

"Pentito no. Ma quell'esperienza mi è servita per capire
che era finita l'epoca del tecnico politico. Una figura
straordinaria, impersonata di volta in volta da Saraceno,
da Amato, da Sylos Labini, da Ruffolo, da Pirani.
Quando è toccato a me, con De Mita, mi sono accorto
che quel ruolo non esisteva più".
Perché?
"Perché la società di massa aveva ridotto lo spazio alle
elites. I leader avevano capito che non dovevano più
guidare la società, ma assomigliarle. De Mita ne
soffriva, perché non riusciva ad assomigliare alla
società, se non quella irpina. E noi tutti capimmo che
bisognava stare di più nella società, anzichè studiare i
sistemi per guidarla".
Lei è rimasto undici anni dal Cnel. Dica la verità: ci
sarebbe rimasto volentieri per altri cinque anni?
"Io mi sono divertito molto, in questi undici anni. E
siccome qualcuno mi chiedeva di rimanere, io ne ho
parlato, come sempre, con mia moglie. Siamo arrivati a
una conclusione semplice. Io ho 67 anni. Se facevo altri
cinque anni di Cnel uscivo a 72. E a quel punto andavo
ai giardinetti. Così invece ho davanti a me altri dieci anni
di vita autodiretta. Questa era la motivazione personale.
Alla quale si aggiungeva la motivazione politica: anche il
più grande psicopompo è giusto che a un certo punto
esca di scena. L'errore di una intera generazione
politica è stato purtroppo quello di nidificare nello Stato.
Invece quando entri in un'istituzione devi saperne anche
uscire al momento giusto". 
E ora? Non farà il ministro?
"Sono qui al Censis, come vede. Se avessi voluto fare il
ministro, avrei già avuto tre occasioni. Goria mi voleva
ministro per il Mezzogiorno. Amato, nel '92, mi offrì
Mezzogiorno, Bilancio e Partecipazioni statali unificati in
un solo ministero. Berlusconi invece voleva nominarmi
al Lavoro. A tutti e tre io ho risposto no, grazie". 
Ma se oggi...
"Oggi è tardi. Non si entra in politica a settant'anni. Mi
creda, io sono davvero uscito di scena". 



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