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http://www.repubblica.it/quotidiano/repubblica/20000619/interni/25derit.html De Rita: "Vi racconto l'Italia che vuole cambiare" Dopo undici anni al Cnel il professore ritorna al suo Censis. "Non farò il ministro" di SEBASTIANO MESSINA ROMA - Più che lo studio di un sociologo, l'ufficio di Giuseppe De Rita sembra la cella di un monaco. Disordine, zero. Su una scrivania poco più grande di un inginocchiatoio i suoi oggetti sono allineati con simmetria maniacale. Un orologio. Un blocco di carta. Una pipa. Una bottiglia. Un bicchiere. Di carte, dossier, fascicoli e ricerche non c'è alcuna traccia. I libri, certo, ci sono. Incasellati nella libreria dietro di lui, o livellati in sei pile sotto un ritratto di Giovanni Vettori, gentiluomo bolognese del '700, dipinto con uno di quei colletti che sembrano torte alla panna. "La sorprende quest'ordine? La verità è che io sono un grande decentratore", spiega De Rita, sorridendo con i suoi occhi di lince. Il professore, l'uomo che per 30 anni ci ha raccontato con i suoi rapporti come cambiava l'Italia, dalla scoperta dell'"economia sommersa" all'avvistamento della crescita "a pelle di leopardo", ha dato l'addio alle istituzioni. Dopo undici anni alla presidenza del Cnel, il Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro, è appena tornato al Censis, l'istituto che fondò nel 1964. Ha lasciato un ufficio con vista su villa Borghese ma si consola in una palazzina deliziosa, di fronte a villa Ada: "Una volta - racconta - questa era la casa di Elia Federici, il ricco concessionario della nettezza urbana del ventennio fascista. Ogni tanto ci veniva a pranzo Mussolini: ho trovato il pennone che serviva solo per issare il gagliardetto del Duce. Naturalmente l'ho fatto togliere: mica posso far issare il gagliardetto di De Rita...". Professore, dopo undici anni passati dietro il cannocchiale del Cnel, che idea s'è fatta di questa Italia del 2000? Dopo il boom dell'astensionismo, dovremmo concludere che gli italiani si sono ormai rassegnati a vivere senza una vera classe politica. E' così? "Forse sì. La gente si è convinta che le istituzioni, soprattutto quelle centrali, appartengano ormai alla classe politica. Che siano diventate Cosa Loro". Mussolini diceva che governare gli italiani non è impossibile, è inutile. Aveva ragione? "E invece bisogna governarli. Vede, io mi sono definitivamente convinto che la società italiana è così vitale, così frammentata, così decentrata, così molecolare che è difficile sovrapporle qualcosa, si chiami programmazione, si chiami volontà politica, si chiami istituzioni. Oggi la programmazione non c'è più. Ma le istituzioni e la volontà politica non possono che accompagnare la società. Se cercano di metterci sopra il cappello, la società poi si squaglia. Osservando l'Italia di questi anni, ho capito che questo è un Paese che non si governa comandando ma accompagnando". Qual è il problema numero uno della politica italiana, secondo lei? "Che non c'è più un pizzico, un grammo, un decigrammo, un microgrammo di intenzionalità. Io ho fatto, al Cnel, undici anni di intenzionalità feroce. Volevo fare questo, volevo fare quello. Oggi le istituzioni italiane non sono intenzionali. Persino l' uomo che una volta era il più intenzionale di tutti, il miglior presidente del Consiglio degli ultimi dieci anni, Giuliano Amato, oggi non riesce a essere intenzionale. E questo è grave. Perchè senza intenzione ogni istituzione è vuota. C'è bisogno di quello che nella psicanalisi si chiama uno psicopompo". Scusi? "Sì, uno psicopompo. Una figura che infonda a tutti una forte energia psichica. Le faccio un esempio, anzi l'esempio numero uno. La Chiesa. Io sono molto cattolico, ma la Chiesa ha tutti i vizi delle istituzioni: il rito, la scenografia, l'autoreferenzialità. Però ha una persona, il Papa, che ha una forte intenzione. Sa quello che vuole e trasmette la sua energia. Se togliamo il Papa, che fa da psicopompo alla Chiesa, resta una burocrazia ecclesiale". E nella politica italiana chi ha le doti dello psicopompo? Berlusconi, l'uomo di successo che si è fatto dal nulla? "Sì, Berlusconi ha la tecnica. Ha la capacità. Il problema è se poi lui riesce a stabilire un'intenzionalità concreta. Non basta dirlo, bisogna farlo. Deve indicare degli obiettivi e lavorare per raggiungerli. Fare l' intenzionale dall'opposizione è facile. Chi governa viene smangiato, nella sua intenzionalità. E a poco a poco la perde. Del resto, perchè nelle istituzioni italiane sono entrati tanti esterni? Perché si pensava che venendo da fuori riuscissero a portare una carica di intenzionalità. Ciampi veniva da fuori. Amato veniva da fuori. Prodi veniva da fuori. Rodotà, Spaventa, Giugni, Ruffolo venivano da fuori. Io stesso venivo da fuori. Abbiamo portato nelle istituzioni quel po' di intenzionalità che avevamo nello zaino". E quale lezione ha imparato, dopo undici anni vissuti in un'istituzione? "Che l'istituzione oggi deve essere relazionale, non più autoreferenziale. E infatti la mia esperienza di questi undici anni è stata spietatamente relazionale. Ho cercato di stare dappertutto. Ho cercato di fare gli stati generali del Piemonte o del Friuli Venezia Giulia e i patti territoriali nel Mezzogiorno. Ho lavorato per 83 delle 103 province italiane, con tutte le comunità montane... Ho creato relazioni, ed era questo che volevo. Se non si segue questa strada le istituzioni sono condannate a chiudersi nella propria autoreferenzialità". Ha trovato ascolto, nelle istituzioni? "Devo dire con grande immodestia che ho avuto dappertutto un successo enorme, sul piano istituzionale. Dappertutto, tranne che a Roma. Perché lo Stato è centralistico, è piramidale, è autoreferenziale. E nessuno a Roma aveva voglia di mettersi a limare le colonnine del tempio greco". Quale tempio greco? "Feliciano Benvenuti faceva un esempio splendido. Diceva che per capire cosa viene dopo lo Stato piramidale bisogna chiedersi quale monumento è venuto dopo la piramide. E' venuto il tempio greco. Cento colonne che sostenevano il frontone. Ecco, oggi l'Italia deve diventare un tempio greco, con tante colonne che sostengono lo stesso Stato. Bisogna distribuire il potere con intelligenza invece di comandarlo a suon di editti. Ma negli ultimi dieci anni il Paese ha subìto una spinta per verticalizzare il potere, non per redistribuirlo: il maggioritario, la premiership, la personalizzazione dei leader, hanno accentuato il ruolo della punta della piramide. O meglio, del faraone". Ma il faraone non è forse quello che gli italiani desiderano, in fondo? Cos'altro c' è, dietro la marea crescente di consenso che ottengono i sindaci e i presidenti delle Regioni, se non la voglia di un leader forte e autorevole? "Eppure la voglia del faraone è accompagnata dalla voglia di appenderlo per i piedi due mesi dopo. Si cerca insieme un capo e un capro espiatorio. Il re, nei popoli primitivi, sapeva che sarebbe stato ucciso. Non lo uccideva nessuno, lo uccidevano tutti insieme: lo spingevano verso la rupe, senza mai toccarlo, finchè lui cadeva giù. Lo espungevano". E' una chiave interessante per leggere le storie del governo Berlusconi, del governo Prodi, del governo D'Alema... "Ecco perché io, che mi considero più furbo degli altri, non accetterei mai di fare il capo. Perchè nel momento stesso in cui ti danno il potere, scatta il meccanismo della legittimazione. Cominciano a dire: non è così forte come pensavamo. Che è un modo per dire: non sono io che ho sbagliato a scegliere te, sei tu che mi hai deluso. Il risultato è che ci stiamo bruciando i migliori. La mia generazione riconosceva una superiorità di Prodi, di D'Alema e di Amato. Nello spazio di un paio d'anni ce li siamo giocati tutti e tre". Berlusconi però è resuscitato. E ora viene portato sugli scudi dagli stessi uomini che lo pugnalarono nel '94. E' un'eccezione che conferma la regola? "Non è detto. Sentivo alla radio che Cossiga, il grande stregone della politica italiana, comincia a delegittimarlo prima ancora che abbia vinto". Negli anni Ottanta lei è stato il "consigliere del principe" di Ciriaco De Mita. Se n'è pentito? "Pentito no. Ma quell'esperienza mi è servita per capire che era finita l'epoca del tecnico politico. Una figura straordinaria, impersonata di volta in volta da Saraceno, da Amato, da Sylos Labini, da Ruffolo, da Pirani. Quando è toccato a me, con De Mita, mi sono accorto che quel ruolo non esisteva più". Perché? "Perché la società di massa aveva ridotto lo spazio alle elites. I leader avevano capito che non dovevano più guidare la società, ma assomigliarle. De Mita ne soffriva, perché non riusciva ad assomigliare alla società, se non quella irpina. E noi tutti capimmo che bisognava stare di più nella società, anzichè studiare i sistemi per guidarla". Lei è rimasto undici anni dal Cnel. Dica la verità: ci sarebbe rimasto volentieri per altri cinque anni? "Io mi sono divertito molto, in questi undici anni. E siccome qualcuno mi chiedeva di rimanere, io ne ho parlato, come sempre, con mia moglie. Siamo arrivati a una conclusione semplice. Io ho 67 anni. Se facevo altri cinque anni di Cnel uscivo a 72. E a quel punto andavo ai giardinetti. Così invece ho davanti a me altri dieci anni di vita autodiretta. Questa era la motivazione personale. Alla quale si aggiungeva la motivazione politica: anche il più grande psicopompo è giusto che a un certo punto esca di scena. L'errore di una intera generazione politica è stato purtroppo quello di nidificare nello Stato. Invece quando entri in un'istituzione devi saperne anche uscire al momento giusto". E ora? Non farà il ministro? "Sono qui al Censis, come vede. Se avessi voluto fare il ministro, avrei già avuto tre occasioni. Goria mi voleva ministro per il Mezzogiorno. Amato, nel '92, mi offrì Mezzogiorno, Bilancio e Partecipazioni statali unificati in un solo ministero. Berlusconi invece voleva nominarmi al Lavoro. A tutti e tre io ho risposto no, grazie". Ma se oggi... "Oggi è tardi. Non si entra in politica a settant'anni. Mi creda, io sono davvero uscito di scena". ![]() |