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-----Messaggio originale----- Da: Francesco Paolo Forti <francesco.forti@easyclub.ch> A: Multiple recipients of list RIFORMANDO <riformando@perlulivo.it> Data: domenica 7 maggio 2000 20.47 Oggetto: [RIFORMANDO:485] Einaudi ed il federalismo >Einaudi ha fatto un periodo come esule in Svizzera, durante >l'ultima guerra, imparando a conoscere il modello politico >e sociale del federalismo elvetico. Mettendolo in confronto >con quello italiano, ne capi' difetti e cause di quest'ultimo. >Una cosa che capita a chi vive ed osserva le _due_ realta'. >C'e' un solo problema. E' difficile farlo capire a chi ne vede >e conosce una sola. Buona lettura, Francesco Forti >__________________________________________________ >Via il Prefetto! > di Luigi Einaudi > >Proporre, in Italia ed in qualche altro paese di Europa, di abolire il >"prefetto" sembra stravaganza degna di manicomio. Istituzione >veneranda, venuta a noi dalla notte dei tempi, il prefetto è quasi >sinonimo di governo e, lui scomparso, sembra non esistere più nulla. >Chi comanda e chi esegue fuor dalla capitale? Come opera >l'amministrazione pubblica? In verità, il prefetto è una lue che fu >inoculata nel corpo politico italiano da Napoleone. Gli antichi governi >erano, prima della rivoluzione francese, assoluti solo di nome, e di >fatto vincolati d'ogni parte, dai senati e dalle camere dei conti o >magistrati camerali, gelosissimi del loro potere di rifiutare la >registrazione degli editti regii, che, se non registrati, non contavano >nulla, dai corpi locali privilegiati, auto-eletti per cooptazione dei >membri in carica, dai patti antichi di infeudazione, di dedizione e di >annessione, dalle consuetudini immemorabili. Gli stati italiani >governavano entro i limiti posti dalle "libertà" locali, territoriali e >professionali. Spesso "le libertà" municipali e regionali erano "privilegi" >di ceti, di nobili, di corporazioni artigiane ed erano dannose >all'universale Nella furia di strappare i privilegi, la rivoluzione francese >distrusse, continuando l'opera iniziata dai Borboni, le libertà locali; e >Napoleone, dittatore all'interno, amante dell'ordine, sospettoso, come >tutti i tiranni, di ogni forza indipendente, spirituale o temporale, >perfeziono l'opera. I governi restaurati trovarono comodo di non >restaurare, se non di nome, gli antichi corpi limitatori e conservarono il > >prefetto napoleonico. L'Italia nuova, preoccupata di rinsaldare le >membra disiecta degli antichi ex-stati in un corpo unico, immagino che >il federalismo fosse il nemico ed estese il sistema prefettizio anche a >quelle parti d'Italia, come le province ex-austriache, nelle quali la lue >erasi infiltrata con manifestazioni attenuate. Si credette di instaurare >libertà e democrazia e si foggiò lo strumento della dittatura. > >Democrazia e prefetto repugnano profondamente l'una all'altro. Né in >Italia, né in Francia, né in Spagna, né in Prussia si ebbe mai e non si >avrà mai democrazia, finche esisterà il tipo di governo accentrato, del >quale è simbolo il prefetto. Coloro i quali parlano di democrazia e di >costituente e di volontà popolare e di autodecisione e non si accorgono >del prefetto, non sanno quel che si dicono. Elezioni, libertà di scelta dei >rappresentanti, camere, parlamenti, costituenti, ministri responsabili >sono una lugubre farsa nei paesi a governo accentrato del tipo >napoleonico. Gli uomini di stato anglo-sassoni, i quali invitano i popoli > >europei a scegliersi la forma di governo da essi preferita, trasportano >inconsciamente parole e pensieri propri dei loro paesi a paesi nei quali >le medesime parole hanno un significato del tutto diverso. Forse i soli >europei del continente, i quali sentendo quelle parole le intendono nel >loro significato vero sono, insieme con gli scandinavi, gli svizzeri; e >questi non hanno nulla da imparare, perché quelle parole sentono >profondamente da sette secoli. Essi sanno che la democrazia comincia >dal comune, che e cosa dei cittadini, i quali non solo eleggono i loro >consiglieri e sindaci o presidenti o borgomastri, ma da se, senza >intervento e tutela e comando di gente posta fuori del comune od a >questo sovrapposta, se lo amministrano, se lo mandano in malora o lo >fanno prosperare. L'auto-governo continua nel cantone, il quale e un >vero stato, il quale da se si fa le sue leggi, se le vota nel suo >parlamento e le applica. Il governo federale, a sua volta, per le cose di >sua competenza, ha un parlamento per deliberare le leggi sue proprie >ed un consiglio federale per applicarle ed amministrarle. E tutti questi >consessi ed i 25 cantoni e mezzi cantoni e la confederazione hanno >così numerosissimi legislatori e centinaia di ministri, grossi e piccoli, >tutti eletti, ognuno dei quali attende alle cose proprie, senza vedersi >mai tra i piedi il prefetto, ossia la longa manus del ministro o governo >piu grosso, il quale insegni od ordini il modo di sbrigare le faccende >proprie dei ministri più piccoli. Cosi pure si usa governare in >Inghilterra, con altre formule di parrocchie, borghi, città, contee, regni >e principati; cosi si fa negli Stati Uniti, nelle federazioni canadese, >sudafricana, australiana e nella Nuova Zelanda. Nei paesi dove la >democrazia non è una vana parola, la gente sbriga da se le proprie >faccende locali (che negli Stati Uniti si dicono anche statali), senza >attendere il la od il permesso dal governo centrale. Cosi si forma una >classe politica numerosa, scelta per via di vagli ripetuti. Non è certo >che il vaglio funzioni sempre a perfezione; ma prima di arrivare ad > >essere consigliere federale o nazionale in Svizzera, o di essere >senatore o rappresentante nel congresso nord americano, bisogna >essersi fatto conoscere per cariche coperte nei cantoni o negli stati; ed >essersi guadagnato una qualche fama di esperto ed onesto >amministratore. La classe politica non si forma da sé, ne è creata dal >fiat di una elezione generale. Ma si costituisce lentamente dal basso; >per scelta fatta da gente che conosce personalmente le persone alle >quali delega la amministrazione delle cose locali piccole; e poi via via >quelle delle cose nazionali od inter-statali più grosse. > >La classe politica non si forma tuttavia se l'eletto ad amministrare le >cose municipali o provinciali o regionali non è pienamente responsabile >per l'opera propria. Se qualcuno ha il potere di dare a lui ordini o di >annullare il suo operato, l'eletto non è responsabile e non impara ad >amministrare. Impara ad ubbidire, ad intrigare, a raccomandare, a >cercare appoggio. Dove non esiste il governo di se stessi e delle cose >proprie, in che consiste la democrazia? > > >Finche esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e l'attuazione non >spetteranno al consiglio municipale ed al sindaco, al consiglio >provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al governo >centrale, a Roma; o, per parlar più concretamente, al ministro >dell'interno. Costui è il vero padrone della vita amministrativa e politica >dell'intero stato. Attraverso i suoi organi distaccati, le prefetture, il >governo centrale approva o non approva i bilanci comunali e >provinciali, ordina l'iscrizione di spese di cui i cittadini farebbero a >meno, cancella altre spese, ritarda l'approvazione ed intralcia il >funzionamento dei corpi locali. Chi governa localmente di fatto non è >né il sindaco né il consiglio comunale o provinciale; ma il segretario >municipale o provinciale. Non a caso egli è stato oramai attruppato tra >i funzionari statali. Parve un sopruso della dittatura ed era la logica >necessaria deduzione del sistema centralistico. Chi, se non un >funzionario statale, può interpretare ed eseguire le leggi, i >regolamenti, le circolari, i moduli i quali quotidianamente, attraverso le >prefetture, arrivano a fasci da Roma per ordinare il modo di governare >ogni piu piccola faccenda locale? Se talun cittadino si informa del modo >di sbrigare una pratica dipendente da una legge nuova, la risposta è: >non sono ancora arrivate le istruzioni, non e ancora compilato il >regolamento; lo si aspetta di giorno in giorno. A nessuno viene in >mente del ministero, l'idea semplice che l'eletto locale ha il diritto e il >dovere di interpretare lui la legge, salvo a rispondere dinnanzi agli >elettori della interpretazione data? Che cosa fu e che cosa tornerà ad >essere l'eletto del popolo in uno stato burocratico accentrato? Non un >legislatore, non un amministratore; ma un tale, il cui merito principale >e di essere bene introdotto nei capoluoghi di provincia presso prefetti, >consiglieri e segretari di prefettura, provveditori agli studi, intendenti di >finanza, ed a Roma, presso i ministri, sotto-segretari di stato e, meglio >e più, perché di fatto più potenti, presso direttori generali, > >capi-divisione, segretari, vice-segretari ed uscieri dei ministeri. Il >malvezzo di non muovere la " pratica " senza una spinta, una >raccomandazione non è recente né ha origine dal fascismo. E' antico >ed e proprio del sistema. Come quel ministro francese, guardando >l'orologio, diceva: a quest'ora, nella terza classe di tutti i licei di >Francia, i professori spiegano la tal pagina di Cicerone; così si può dire >di tutti gli ordini di scuole italiane. Pubbliche o private, elementari o >medie od universitarie, tutto dipende da Roma: ordinamento, orari, >tasse, nomine degli insegnanti, degli impiegati di segreteria, dei >portieri e dei bidelli, ammissioni degli studenti, libri di testo, ordine >degli esami, materie insegnate. I fascisti concessero per scherno >l'autonomia alle università; ma era logico che nel sistema accentrato le >università fossero, come subito ridiventarono, una branca ordinaria >dell'amministrazione pubblica; ed era logico che prima del 1922 i >deputati elevassero querele contro quelle che essi imprudentemente >chiamarono le camorre dei professori di università, i quali erano > >riusciti, in mezzo secolo di sforzi perseveranti e di costumi >anti-accentratori a poco a poco originati dal loro spirito di corpo, a >togliere ai ministri ogni potere di scegliere e di trasferire gli insegnanti >universitari e quindi ogni possibilità ai deputati di raccomandare e >promuovere intriganti politici a cattedre. > >Agli occhi di un deputato uscito dal suffragio universale ed investito di >una frazione della sovranità popolare, ogni resistenza di corpi >autonomi, di enti locali, di sindaci decisi a far valere la volontà dei loro >amministrati appariva camorra, sopruso o privilegio. La tirannia del >centro, la onnipotenza del ministero, attraverso ai prefetti, si converte >nella tirannia degli eletti al parlamento. Essi sanno di essere i ministri >del domani, sanno che chi di loro diventerà ministro dell'interno, >disporrà della leva di comando del paese; sanno che nessun >presidente del consiglio può rinunciare ad essere ministro dell'interno >se non vuol correre il pericolo di vedere "farsi" le elezioni contro di lui >dal collega al quale egli abbia avuto la dabbenaggine di abbandonare >quel ministero, il quale dispone delle prefetture, delle questure e dei >carabinieri; il quale comanda a centinaia di migliaia di funzionari piccoli >e grossi, ed attraverso concessioni di sussidi, autorizzazioni di spese, >favori di ogni specie adesca e minaccia sindaci, consiglieri, presidenti >di opere pie e di enti morali. A volta a volta servo e tiranno dei >funzionari che egli ha contribuito a far nominare con le sue >raccomandazioni e dalla cui condiscendenza dipende l'esito delle >pratiche dei suoi elettori, il deputato diventa un galoppino, il cui tempo >più che dai lavori parlamentari è assorbito dalle corse per i ministeri e >dallo scrivere lettere di raccomandazione per il sollecito disbrigo delle >pratiche dei suoi elettori. > >Perciò il delenda Carthago della democrazia liberale è: Via il prefetto! >Via con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze e le sue ramificazioni! >Nulla deve più essere lasciato in piedi di questa macchina > >centralizzata; nemmeno lo stambugio del portiere. Se lasciamo >sopravvivere il portiere, presto accanto a lui sorgerà una fungaia di >baracche e di capanne che si trasformeranno nel vecchio aduggiante >palazzo del governo. Il prefetto napoleonico se ne deve andare, con le >radici, il tronco, i rami e le fronde. Per fortuna, di fatto oggi in Italia >l'amministrazione centralizzata è scomparsa. > >Ha dimostrato di essere il nulla; uno strumento privo di vita propria, >del quale il primo avventuriero capitato a buon tiro poteva impadronirsi >per manovrarlo a suo piacimento. Non accadrà alcun male, se non >ricostruiremo la macchina oramai guasta e marcia. L'unita del paese >non è data dai prefetti e dai provveditori agli studi e dagli intendenti di >finanza e dai segretari comunali e dalle circolari ed istruzioni ed >autorizzazioni romane. > >L'unita del paese è fatta dagli italiani. Dagli italiani, i quali imparino, a >proprie spese, commettendo spropositi, a governarsi da sé. La vera >costituente non si ha in una elezione plebiscitaria, a fin di guerra. Così >si creano o si ricostituiscono le tirannie, siano esse di dittatori o di > >comitati di partiti. Chi vuole affidare il paese qualche altro saltimbanco, >lasci sopravvivere la macchina accentrata e faccia da questa e dai >comitati eleggere a costituente. Chi vuole che gli italiani governino se >stessi, faccia invece subito eleggere i consigli municipali, unico corpo >rimasto in vita, almeno come aspirazione profondamente sentita da >tutti i cittadini; e dia agli eletti il potere di amministrare liberamente; di >far bene e farsi rinnovare il mandato, di far male e farsi lapidare. Non >si tema che i malversatori del denaro pubblico non paghino il fio, >quando non possano scaricare su altri, sulla autorità tutoria, sul >governo la colpa delle proprie malefatte. La classe politica si forma >cosi: col provare e riprovare, attraverso a fallimenti ed a successi. Sia >che si conservi la provincia; sia che invece la si abolisca, perché ente >artificioso, antistorico ed anti-economico e la si costituisca da parte con >il distretto o collegio o vicinanza, unita più piccola, raggruppata attorno >alla cittadina, al grosso borgo di mercato, dove convengono >naturalmente per i loro interessi ed affari gli abitanti dei comuni dei >dintorni, e dall'altra con la grande regione storica: Piemonte, Liguria, >Lombardia, ecc.; sempre, alla pari del comune, il collegio regione >dovranno amministrarsi da se, formarsi i propri governanti elettivi, >liberi di gestire le faccende proprie del comune, del collegio e della >provincia, liberi di scegliere i propri funzionari e dipendenti, nel modo e >con le garanzie che essi medesimi, legislatori sovrani nel loro campo, >vorranno stabilire. > >Si potrà discutere sui compiti da attribuire a questo o quell'altro ente >sovrano; ed adopero a bella posta la parola sovranità e non >autonomia, ad indicare che non solo nel campo internazionale, con la >creazione di vincoli federativi, ma anche nel campo nazionale, con la >creazione di corpi locali vivi di vita propria originaria non derivata >dall'alto, urge distruggere l'idea funesta della sovranità assoluta dello >stato. Non temasi dalla distruzione alcun danno per l'unità nazionale. > >L'accentramento napoleonico ha fatto le sue prove e queste sono state >negative: una burocrazia pronta ad ubbidire ad ogni padrone, non >radicata nel luogo, indifferente alle sorti degli amministrati; un ceto >politico oggetto di dispregio, abbassato a cursore di anticamere >prefettizie e ministeriali, prono a votare in favore di qualunque >governo, se il voto poteva giovare ad accaparrare il favore della >burocrazia poliziesca ed a premere sulle autorità locali nel giorno delle >elezioni generali; una polizia, non collegata, come dovrebbe, >esclusivamente con la magistratura inquirente e giudicante e con i >carabinieri, ma divenuta strumento di inquisizione politica e di giustizia >" economica ", ossia arbitraria. L'arbitrio poliziesco erasi affievolito >all'inizio del secolo; ma lo strumento era pronto; e, come già con >Napoleone, ricominciarono a giungere al dittatore i rapporti quotidiani >della polizia sugli atti e sui propositi di ogni cittadino sospetto; e si >potranno di nuovo comporre, con quei fogli, se non li hanno bruciati >prima, volumi di piccola e di grande storia di interesse appassionante. > >E quello strumento, pur guasto, e pronto, se non lo faremo diventare >mero organo della giustizia per la prevenzione dei reati e la scoperta >dei loro autori, a servire nuovi tiranni e nuovi comitati di salute >pubblica. > >Che cosa ha dato all'unità d'Italia quella armatura dello stato di polizia, >preesistente, ricordiamolo bene, al 1922? Nulla. Nel momento del >pericolo e svanita e sono rimasti i cittadini inermi e soli. Oggi essi si >attruppano in bande di amici, di conoscenti, di borghigiani; e li >chiamano partigiani. E lo stato il quale si rifà spontaneamente. >Lasciamolo riformarsi dal basso, come e sua natura. Riconosciamo che >nessun vincolo dura, nessuna unita e salda, se prima gli uomini i quali >si conoscono ad uno ad uno non hanno costituito il comune; e di qui, >risalendo di grado in grado, sino allo stato. La distruzione della >sovrastruttura napoleonica, che gli italiani non hanno amato mai, offre >l'occasione unica di ricostruire lo stato partendo dalle unita che tutti >conosciamo ed amiamo; e sono la famiglia, il comune, la vicinanza e la >regione. Cosi possederemo finalmente uno stato vero e vivente. > >(L'Italia e il secondo risorgimento, supplemento alla "Gazzetta >ticinese", 17 luglio 1944, a firma " Junius ".) Grazie davvero, Francesco, per aver trascritto questo bellissimo saggio di libertà e di democrazia. Einaudi, quando innalzava questo inno alla democrazia liberale, aveva davanti agli occhi lo Stato monarchico, poliziesco, clericale e fascista dell'Italia in camicia nera ed esprimeva aspirazioni che sono state ben interpretate dalla nostra Costituzione repubblicana, dichiaratamente antifascista, nella quale sono state recepite le istanze proprie del mondo cattolico, del liberalismo e del solidarismo socialista. Einaudi lanciava il suo anatema contro il prefetto 'napoleonico' e contro l'assolutismo dello stato fascista e non scioglieva un peana al federalismo, ma esaltava l'idea di democrazia e di libertà, che lo Stato unitario che in quel momento aveva di fronte aveva esemplarmente conculcato. Non è un caso che Einaudi abbia scritto quelle cose nel 1944. Oggi non le scriverebbe più. Tutto quello che Einaudi allora agognava si trova scritto nella nostra Costituzione, la più moderna, democratica e pluralista del mondo, a cui non può certo essere rimproverata la mediocrità e la disonestà della classe dirigente che la dovrebbe realizzare. Il già notevole grado di regionalizzazione previsto originariamente dalla nostra Carta fondamentale può essere vieppiù aumentato, come ho già in altra occasione detto, attribuendo a tutte le regioni italiane l'autonomia attualmente goduta dalle sole regioni a statuto speciale, se quello che si vuole conseguire è il decentramento decisionale ed un più diretto contatto del cittadino con il potere; più oltre non c'è maggiore democrazia ma una disintegrazione dello Stato unitario di cui non si riesce a comprendere la necessità. E' vero che io conosco la sola realtà unitaria e non anche quella federale; ma ho l'impressione che la residenza in Svizzera di Francesco P. Forti gli abbia fatto dimenticare la realtà costituzionale italiana. Cordiali saluti Salvatore Camaioni ![]() |