[RIFORMANDO:485] Einaudi ed il federalismo
Francesco Paolo Forti  Domenica, 07 Maggio 2000

Einaudi ha fatto un periodo come esule in Svizzera, durante
l'ultima guerra, imparando a conoscere il modello politico
e sociale del federalismo elvetico. Mettendolo in confronto
con quello italiano, ne capi' difetti e cause di quest'ultimo.
Una cosa che capita a chi vive ed osserva le _due_ realta'. 
C'e' un solo problema. E' difficile farlo capire a chi ne vede
e conosce una sola.      Buona lettura, Francesco Forti
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Via il Prefetto!
                             di Luigi Einaudi

Proporre, in Italia ed in qualche altro paese di Europa, di abolire il
"prefetto" sembra stravaganza degna di manicomio. Istituzione
veneranda, venuta a noi dalla notte dei tempi, il prefetto è quasi
sinonimo di governo e, lui scomparso, sembra non esistere più nulla.
Chi comanda e chi esegue fuor dalla capitale? Come opera
l'amministrazione pubblica? In verità, il prefetto è una lue che fu
inoculata nel corpo politico italiano da Napoleone. Gli antichi governi
erano, prima della rivoluzione francese, assoluti solo di nome, e di
fatto vincolati d'ogni parte, dai senati e dalle camere dei conti o
magistrati camerali, gelosissimi del loro potere di rifiutare la
registrazione degli editti regii, che, se non registrati, non contavano
nulla, dai corpi locali privilegiati, auto-eletti per cooptazione dei
membri in carica, dai patti antichi di infeudazione, di dedizione e di
annessione, dalle consuetudini immemorabili. Gli stati italiani
governavano entro i limiti posti dalle "libertà" locali, territoriali e
professionali. Spesso "le libertà" municipali e regionali erano "privilegi"
di ceti, di nobili, di corporazioni artigiane ed erano dannose
all'universale Nella furia di strappare i privilegi, la rivoluzione francese
distrusse, continuando l'opera iniziata dai Borboni, le libertà locali; e
Napoleone, dittatore all'interno, amante dell'ordine, sospettoso, come
tutti i tiranni, di ogni forza indipendente, spirituale o temporale,
perfeziono l'opera. I governi restaurati trovarono comodo di non
restaurare, se non di nome, gli antichi corpi limitatori e conservarono il

prefetto napoleonico. L'Italia nuova, preoccupata di rinsaldare le
membra disiecta degli antichi ex-stati in un corpo unico, immagino che
il federalismo fosse il nemico ed estese il sistema prefettizio anche a
quelle parti d'Italia, come le province ex-austriache, nelle quali la lue
erasi infiltrata con manifestazioni attenuate. Si credette di instaurare
libertà e democrazia e si foggiò lo strumento della dittatura.

Democrazia e prefetto repugnano profondamente l'una all'altro. Né in
Italia, né in Francia, né in Spagna, né in Prussia si ebbe mai e non si
avrà mai democrazia, finche esisterà il tipo di governo accentrato, del
quale è simbolo il prefetto. Coloro i quali parlano di democrazia e di
costituente e di volontà popolare e di autodecisione e non si accorgono
del prefetto, non sanno quel che si dicono. Elezioni, libertà di scelta dei
rappresentanti, camere, parlamenti, costituenti, ministri responsabili
sono una lugubre farsa nei paesi a governo accentrato del tipo
napoleonico. Gli uomini di stato anglo-sassoni, i quali invitano i popoli

europei a scegliersi la forma di governo da essi preferita, trasportano
inconsciamente parole e pensieri propri dei loro paesi a paesi nei quali
le medesime parole hanno un significato del tutto diverso. Forse i soli
europei del continente, i quali sentendo quelle parole le intendono nel
loro significato vero sono, insieme con gli scandinavi, gli svizzeri; e
questi non hanno nulla da imparare, perché quelle parole sentono
profondamente da sette secoli. Essi sanno che la democrazia comincia
dal comune, che e cosa dei cittadini, i quali non solo eleggono i loro
consiglieri e sindaci o presidenti o borgomastri, ma da se, senza
intervento e tutela e comando di gente posta fuori del comune od a
questo sovrapposta, se lo amministrano, se lo mandano in malora o lo
fanno prosperare. L'auto-governo continua nel cantone, il quale e un
vero stato, il quale da se si fa le sue leggi, se le vota nel suo
parlamento e le applica. Il governo federale, a sua volta, per le cose di
sua competenza, ha un parlamento per deliberare le leggi sue proprie
ed un consiglio federale per applicarle ed amministrarle. E tutti questi
consessi ed i 25 cantoni e mezzi cantoni e la confederazione hanno
così numerosissimi legislatori e centinaia di ministri, grossi e piccoli,
tutti eletti, ognuno dei quali attende alle cose proprie, senza vedersi
mai tra i piedi il prefetto, ossia la longa manus del ministro o governo
piu grosso, il quale insegni od ordini il modo di sbrigare le faccende
proprie dei ministri più piccoli. Cosi pure si usa governare in
Inghilterra, con altre formule di parrocchie, borghi, città, contee, regni
e principati; cosi si fa negli Stati Uniti, nelle federazioni canadese,
sudafricana, australiana e nella Nuova Zelanda. Nei paesi dove la
democrazia non è una vana parola, la gente sbriga da se le proprie
faccende locali (che negli Stati Uniti si dicono anche statali), senza
attendere il la od il permesso dal governo centrale. Cosi si forma una
classe politica numerosa, scelta per via di vagli ripetuti. Non è certo
che il vaglio funzioni sempre a perfezione; ma prima di arrivare ad

essere consigliere federale o nazionale in Svizzera, o di essere
senatore o rappresentante nel congresso nord americano, bisogna
essersi fatto conoscere per cariche coperte nei cantoni o negli stati; ed
essersi guadagnato una qualche fama di esperto ed onesto
amministratore. La classe politica non si forma da sé, ne è creata dal
fiat di una elezione generale. Ma si costituisce lentamente dal basso;
per scelta fatta da gente che conosce personalmente le persone alle
quali delega la amministrazione delle cose locali piccole; e poi via via
quelle delle cose nazionali od inter-statali più grosse. 

La classe politica non si forma tuttavia se l'eletto ad amministrare le
cose municipali o provinciali o regionali non è pienamente responsabile
per l'opera propria. Se qualcuno ha il potere di dare a lui ordini o di
annullare il suo operato, l'eletto non è responsabile e non impara ad
amministrare. Impara ad ubbidire, ad intrigare, a raccomandare, a
cercare appoggio. Dove non esiste il governo di se stessi e delle cose
proprie, in che consiste la democrazia?


Finche esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e l'attuazione non
spetteranno al consiglio municipale ed al sindaco, al consiglio
provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al governo
centrale, a Roma; o, per parlar più concretamente, al ministro
dell'interno. Costui è il vero padrone della vita amministrativa e politica
dell'intero stato. Attraverso i suoi organi distaccati, le prefetture, il
governo centrale approva o non approva i bilanci comunali e
provinciali, ordina l'iscrizione di spese di cui i cittadini farebbero a
meno, cancella altre spese, ritarda l'approvazione ed intralcia il
funzionamento dei corpi locali. Chi governa localmente di fatto non è
né il sindaco né il consiglio comunale o provinciale; ma il segretario
municipale o provinciale. Non a caso egli è stato oramai attruppato tra
i funzionari statali. Parve un sopruso della dittatura ed era la logica
necessaria deduzione del sistema centralistico. Chi, se non un
funzionario statale, può interpretare ed eseguire le leggi, i
regolamenti, le circolari, i moduli i quali quotidianamente, attraverso le
prefetture, arrivano a fasci da Roma per ordinare il modo di governare
ogni piu piccola faccenda locale? Se talun cittadino si informa del modo
di sbrigare una pratica dipendente da una legge nuova, la risposta è:
non sono ancora arrivate le istruzioni, non e ancora compilato il
regolamento; lo si aspetta di giorno in giorno. A nessuno viene in
mente del ministero, l'idea semplice che l'eletto locale ha il diritto e il
dovere di interpretare lui la legge, salvo a rispondere dinnanzi agli
elettori della interpretazione data? Che cosa fu e che cosa tornerà ad
essere l'eletto del popolo in uno stato burocratico accentrato? Non un
legislatore, non un amministratore; ma un tale, il cui merito principale
e di essere bene introdotto nei capoluoghi di provincia presso prefetti,
consiglieri e segretari di prefettura, provveditori agli studi, intendenti di
finanza, ed a Roma, presso i ministri, sotto-segretari di stato e, meglio
e più, perché di fatto più potenti, presso direttori generali,

capi-divisione, segretari, vice-segretari ed uscieri dei ministeri. Il
malvezzo di non muovere la " pratica " senza una spinta, una
raccomandazione non è recente né ha origine dal fascismo. E' antico
ed e proprio del sistema. Come quel ministro francese, guardando
l'orologio, diceva: a quest'ora, nella terza classe di tutti i licei di
Francia, i professori spiegano la tal pagina di Cicerone; così si può dire
di tutti gli ordini di scuole italiane. Pubbliche o private, elementari o
medie od universitarie, tutto dipende da Roma: ordinamento, orari,
tasse, nomine degli insegnanti, degli impiegati di segreteria, dei
portieri e dei bidelli, ammissioni degli studenti, libri di testo, ordine
degli esami, materie insegnate. I fascisti concessero per scherno
l'autonomia alle università; ma era logico che nel sistema accentrato le
università fossero, come subito ridiventarono, una branca ordinaria
dell'amministrazione pubblica; ed era logico che prima del 1922 i
deputati elevassero querele contro quelle che essi imprudentemente
chiamarono le camorre dei professori di università, i quali erano

riusciti, in mezzo secolo di sforzi perseveranti e di costumi
anti-accentratori a poco a poco originati dal loro spirito di corpo, a
togliere ai ministri ogni potere di scegliere e di trasferire gli insegnanti
universitari e quindi ogni possibilità ai deputati di raccomandare e
promuovere intriganti politici a cattedre.

Agli occhi di un deputato uscito dal suffragio universale ed investito di
una frazione della sovranità popolare, ogni resistenza di corpi
autonomi, di enti locali, di sindaci decisi a far valere la volontà dei loro
amministrati appariva camorra, sopruso o privilegio. La tirannia del
centro, la onnipotenza del ministero, attraverso ai prefetti, si converte
nella tirannia degli eletti al parlamento. Essi sanno di essere i ministri
del domani, sanno che chi di loro diventerà ministro dell'interno,
disporrà della leva di comando del paese; sanno che nessun
presidente del consiglio può rinunciare ad essere ministro dell'interno
se non vuol correre il pericolo di vedere "farsi" le elezioni contro di lui
dal collega al quale egli abbia avuto la dabbenaggine di abbandonare
quel ministero, il quale dispone delle prefetture, delle questure e dei
carabinieri; il quale comanda a centinaia di migliaia di funzionari piccoli
e grossi, ed attraverso concessioni di sussidi, autorizzazioni di spese,
favori di ogni specie adesca e minaccia sindaci, consiglieri, presidenti
di opere pie e di enti morali. A volta a volta servo e tiranno dei
funzionari che egli ha contribuito a far nominare con le sue
raccomandazioni e dalla cui condiscendenza dipende l'esito delle
pratiche dei suoi elettori, il deputato diventa un galoppino, il cui tempo
più che dai lavori parlamentari è assorbito dalle corse per i ministeri e
dallo scrivere lettere di raccomandazione per il sollecito disbrigo delle
pratiche dei suoi elettori.

Perciò il delenda Carthago della democrazia liberale è: Via il prefetto!
Via con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze e le sue ramificazioni!
Nulla deve più essere lasciato in piedi di questa macchina

centralizzata; nemmeno lo stambugio del portiere. Se lasciamo
sopravvivere il portiere, presto accanto a lui sorgerà una fungaia di
baracche e di capanne che si trasformeranno nel vecchio aduggiante
palazzo del governo. Il prefetto napoleonico se ne deve andare, con le
radici, il tronco, i rami e le fronde. Per fortuna, di fatto oggi in Italia
l'amministrazione centralizzata è scomparsa.

Ha dimostrato di essere il nulla; uno strumento privo di vita propria,
del quale il primo avventuriero capitato a buon tiro poteva impadronirsi
per manovrarlo a suo piacimento. Non accadrà alcun male, se non
ricostruiremo la macchina oramai guasta e marcia. L'unita del paese
non è data dai prefetti e dai provveditori agli studi e dagli intendenti di
finanza e dai segretari comunali e dalle circolari ed istruzioni ed
autorizzazioni romane.

L'unita del paese è fatta dagli italiani. Dagli italiani, i quali imparino, a
proprie spese, commettendo spropositi, a governarsi da sé. La vera
costituente non si ha in una elezione plebiscitaria, a fin di guerra. Così
si creano o si ricostituiscono le tirannie, siano esse di dittatori o di

comitati di partiti. Chi vuole affidare il paese qualche altro saltimbanco,
lasci sopravvivere la macchina accentrata e faccia da questa e dai
comitati eleggere a costituente. Chi vuole che gli italiani governino se
stessi, faccia invece subito eleggere i consigli municipali, unico corpo
rimasto in vita, almeno come aspirazione profondamente sentita da
tutti i cittadini; e dia agli eletti il potere di amministrare liberamente; di
far bene e farsi rinnovare il mandato, di far male e farsi lapidare. Non
si tema che i malversatori del denaro pubblico non paghino il fio,
quando non possano scaricare su altri, sulla autorità tutoria, sul
governo la colpa delle proprie malefatte. La classe politica si forma
cosi: col provare e riprovare, attraverso a fallimenti ed a successi. Sia
che si conservi la provincia; sia che invece la si abolisca, perché ente
artificioso, antistorico ed anti-economico e la si costituisca da parte con
il distretto o collegio o vicinanza, unita più piccola, raggruppata attorno
alla cittadina, al grosso borgo di mercato, dove convengono
naturalmente per i loro interessi ed affari gli abitanti dei comuni dei
dintorni, e dall'altra con la grande regione storica: Piemonte, Liguria,
Lombardia, ecc.; sempre, alla pari del comune, il collegio regione
dovranno amministrarsi da se, formarsi i propri governanti elettivi,
liberi di gestire le faccende proprie del comune, del collegio e della
provincia, liberi di scegliere i propri funzionari e dipendenti, nel modo e
con le garanzie che essi medesimi, legislatori sovrani nel loro campo,
vorranno stabilire.

Si potrà discutere sui compiti da attribuire a questo o quell'altro ente
sovrano; ed adopero a bella posta la parola sovranità e non
autonomia, ad indicare che non solo nel campo internazionale, con la
creazione di vincoli federativi, ma anche nel campo nazionale, con la
creazione di corpi locali vivi di vita propria originaria non derivata
dall'alto, urge distruggere l'idea funesta della sovranità assoluta dello
stato. Non temasi dalla distruzione alcun danno per l'unità nazionale.

L'accentramento napoleonico ha fatto le sue prove e queste sono state
negative: una burocrazia pronta ad ubbidire ad ogni padrone, non
radicata nel luogo, indifferente alle sorti degli amministrati; un ceto
politico oggetto di dispregio, abbassato a cursore di anticamere
prefettizie e ministeriali, prono a votare in favore di qualunque
governo, se il voto poteva giovare ad accaparrare il favore della
burocrazia poliziesca ed a premere sulle autorità locali nel giorno delle
elezioni generali; una polizia, non collegata, come dovrebbe,
esclusivamente con la magistratura inquirente e giudicante e con i
carabinieri, ma divenuta strumento di inquisizione politica e di giustizia
" economica ", ossia arbitraria. L'arbitrio poliziesco erasi affievolito
all'inizio del secolo; ma lo strumento era pronto; e, come già con
Napoleone, ricominciarono a giungere al dittatore i rapporti quotidiani
della polizia sugli atti e sui propositi di ogni cittadino sospetto; e si
potranno di nuovo comporre, con quei fogli, se non li hanno bruciati
prima, volumi di piccola e di grande storia di interesse appassionante.

E quello strumento, pur guasto, e pronto, se non lo faremo diventare
mero organo della giustizia per la prevenzione dei reati e la scoperta
dei loro autori, a servire nuovi tiranni e nuovi comitati di salute
pubblica.

Che cosa ha dato all'unità d'Italia quella armatura dello stato di polizia,
preesistente, ricordiamolo bene, al 1922? Nulla. Nel momento del
pericolo e svanita e sono rimasti i cittadini inermi e soli. Oggi essi si
attruppano in bande di amici, di conoscenti, di borghigiani; e li
chiamano partigiani. E lo stato il quale si rifà spontaneamente.
Lasciamolo riformarsi dal basso, come e sua natura. Riconosciamo che
nessun vincolo dura, nessuna unita e salda, se prima gli uomini i quali
si conoscono ad uno ad uno non hanno costituito il comune; e di qui,
risalendo di grado in grado, sino allo stato. La distruzione della
sovrastruttura napoleonica, che gli italiani non hanno amato mai, offre
l'occasione unica di ricostruire lo stato partendo dalle unita che tutti
conosciamo ed amiamo; e sono la famiglia, il comune, la vicinanza e la
regione. Cosi possederemo finalmente uno stato vero e vivente.

(L'Italia e il secondo risorgimento, supplemento alla "Gazzetta
ticinese", 17 luglio 1944, a firma " Junius ".)





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