[RIFORMANDO:445] euro e ciambellani (benevolmente) disdegnosi
lorenzo  Martedi`, 25 Aprile 2000

sarebbe corretto mettere un link ma con la (stupida) moda dei frames 
e altre stupidaggini non posso che riportare il testo:
www.corriere.it
Nessuno affronta le cause politiche della crisi
L'ODISSEA DELL'EURO
di MARIO TALAMONA 
Come il bambino nella favola di Andersen (Il vestito nuovo
dell'imperatore), qualcuno incomincia a dire che l'euro non ha niente
indosso: è nudo. Forse è arrivato il momento di domandarsi se la debolezza
della nuova moneta, anziché congiunturale o ciclica, non sia invece una
gracilità di fondo. In quindici mesi, dopo il brevissimo sprint iniziale al
cambio di 1,16675 con il dollaro, l'euro si è svalutato del 20 per cento,
un quinto. 
Sceso sotto la parità 1:1 il 2 dicembre scorso, l'altro giovedì ha toccato
un minimo storico (si fa per dire) a 93,54 cent. La lira è caduta a quota
2.063, la più bassa da quindici anni (cioè dall'«incidente» di cui fu
protagonista l'Eni, che nell'85 aveva fatto balzare il dollaro a 2.200
lire). È sembrato poi che l'euro si riprendesse leggermente. Ma la tendenza
a una debolezza di fondo resta netta e continua. C'è chi lo dà già a quota
0,90. 

Oggi, forse, si capirà meglio. Però diventa sempre più indispensabile una
riflessione non di maniera, sullo sfondo del lungo silenzio o del benevolo
disdegno ostentato dai ciambellani, siano quelli della Bce o i governi
europei. A Francoforte, dopo le sempre caratteristiche dichiarazioni di
Duisenberg, si è avuta l'impressione che non si sapesse che cosa dire.
Acquisteranno euro o aumenteranno i tassi? Sosterranno o no il cambio? Il
mercato, intanto, ha scaricato la moneta unica cogliendo ogni possibile
occasione, dall'attenuarsi della fiducia in Germania alla crisi italiana,
alla tensione con l'Austria. Anche se accreditati analisti e prestigiose
case d'investimento continuano ad annunciare una prossima ripresa della
moneta europea, le previsioni sul cambio reale del dollaro sono
tradizionalmente rischiose. Si ricorda la «danza» degli anni Ottanta, fra
un brusco apprezzamento nella prima metà e un altrettanto brusco
deprezzamento nella seconda parte del decennio. Ampie fluttuazioni
spiegate, tuttavia, dal differenziale d'interesse fra Stati Uniti e resto
del mondo. 

Sulle vicende attuali si dice il peccato, non il peccatore. Per esempio:
febbraio 1999, l'euro traccheggia sui minimi di allora, a 1,1280. Una
primaria casa mondiale vaticina come probabile il declino del dollaro e
giudica possibile addirittura un suo collasso, con le parti destinate
presto a invertirsi. Previsioni di cambio: 1,17 a tre mesi, 1,23 a sei,
1,29 a un anno. Praticamente adesso. Campa cavallo. Eppure le previsioni
correnti, con i loro modelli, indicano decisamente una ripresa progressiva
della moneta unica. 

Chi giudica quello del cambio un «falso problema» o la svalutazione
dell'euro un (illusorio) vantaggio congiunturale, a parte l'inflazione
«importata», potrebbe persino dolersene. Ma c'è un limite ai paradossi e ai
sofismi. Per quanto l'immagine sembri fuori moda, la moneta resta la
bandiera di un'economia, soprattutto per la fiducia internazionale che sa
conquistarsi. Proviamo ad andare controcorrente. Chiediamoci, allora, come
possa l'euro sventolare alto senza unità politica e, soprattutto, senza
politiche capaci di superare le gravi debolezze strutturali del Continente.
La sua fragilità è assai più strutturale che congiunturale. Riflette
un'enorme differenza nei guadagni di produttività (e di competitività)
rispetto all'America e ai Paesi in più forte crescita, oltre ai
differenziali nei tassi d'interesse. Il deflusso di capitali a lungo
termine dall'Eurozona, al ritmo di 220 miliardi di dollari all'anno (di cui
120 per investimenti diretti), parla chiaro. 

Non siamo un'area economica forte. Superficiali equivoci tra new e old
economy oscurano il fatto che stiamo perdendo il contatto con la vera
«economia nuova» del Duemila. Rischiamo un'Odissea nello spazio: il 2001 è
domani. 





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