![]() |
segnalo il quaderno di Info (gruppo parlamentare ds-ulivo alla Camera) dedicato al welfare. Titolo: «Perché il welfare state? Sviluppo economico ed istituzioni della cittadinanza sociale » Interventi molto interessanti per distruggere la vulgata secondo cui c'è un trade-off fra stato sociale e sviluppo (o fra equità ed efficienza), e fra alta tassazione e sviluppo, e per combattere l'altra panzana secondo cui privato è sempre meglio di pubblico anche quando c'è "fallimento del mercato". Il tutto è disponibile su web qui: http://www.democraticisinistradeputati.it/Info/welfare/welfare.htm Riporto qui due brani che mi sembrano molto belli, il primo di Laura Pennacchi, il secondo di Vincenzo Visco, e segnalo la bella analisi econdomica di Roberto Artoni (che non riporto per non esagerare). Buona lettura. Laura Pennacchi: "Per quanto riguarda la sanità, l’affidamento al mercato farebbe sì che l’asimmetria informativa strutturale che penalizza l’utente nel rapporto con il medico per un verso, con l’intermediario finanziario per un altro, lo metterebbe nella condizione di poter scarsamente valutare la qualità dei servizi offerti (Granaglia, 1994). In tali situazioni da una parte i prezzi divengono segnali di qualità (il medico più bravo appare quello che pratica onorari più elevati), dall’altra i produttori sono in grado di alimentare artificiosamente la domanda, con il risultato che a quantità eccessive si associano prezzi superiori a quelli teoricamente efficienti. Questi sono esattamente i meccanismi per cui negli Usa si è arrivati ad una percentuale di spesa sanitaria sul Pil pari a quasi il doppio di quella media europea (il 14% contro il 7-8% circa) e a una elevatissima quota della popolazione non assicurata o sotto-assicurata. Sarebbe bene non dimenticare questi aspetti quando, al fine (condivisibilissimo) di favorire un maggior sviluppo dei servizi nell’ economia italiana, si invoca il ridimensionamento del cosiddetto “monopolio pubblico” in sanità, dal quale dovrebbe nascere la stessa capacità di generare posti di lavoro che gli Usa hanno fatto registrare proprio nei servizi sanitari. Oltre alla sanità, vi sono altre aree in cui è possibile esemplificare le implicazioni di quanto ho sostenuto fin qui. In campo previdenziale va sottoposta a vaglio l’ipotesi di privatizzazione/capitalizzazione, per la verità riproposta oggi solo da alcuni organismi internazionali (una parte del Fmi) e in auge - con il consueto provincialismo che ci contraddistingue - in particolare in Italia. Perché altrove, per esempio alla Banca Mondiale, per iniziativa del suo vicepresidente Joseph Stiglitz, se ne discute criticamente: in un seminario tenuto a metà settembre Stiglitz ha contestato ben “dieci miti” correnti sulla capitalizzazione (Orszag, Stiglitz,1999) e ha sottolineato come l’ impostazione tenuta dalla Banca Mondiale dal 1994 (a partire dal celebre rapporto Averting the Old Age Crisis) abbia avuto risultati negativi per molti paesi che vi si sono attenuti, per cui è tempo di una drastica revisione. In effetti, negli Usa il dibattito è, all’opposto, su come utilizzare l’attivo di bilancio per rilanciare la social security - molto simile ai sistemi previdenziali “a ripartizione” europei - e al tempo stesso sostenere i “fondi collettivi” (limitando a un ruolo marginale la funzione dei cosiddetti “conti individuali”). Nella stessa Inghilterra (il paese europeo con la più forte quota di previdenza privata, collettiva ed individuale) i propositi attuali di riforma presentano una ricchezza di articolazioni a cui non rendono giustizia formule sommarie: per esempio, molti osservatori (e la stessa Commissione del Tesoro inglese istituita allo scopo) mettono in rilievo i “costi elevati” delle assicurazioni individuali e stigmatizzano i numerosi casi in cui i lavoratori sono stati indotti a lasciare ottimi “schemi occupazionali” per optare per meno soddisfacenti posizioni individuali (Agulnik, 1999, Barr, 1999) L’idea di base è che un “sistema a capitalizzazione” offra rendimenti superiori a quelli offerti dal “sistema a ripartizione” e che tale maggiore redditività consenta di diminuire i contributi tagliando drasticamente le prestazioni pubbliche, ma mantenendo nel contempo lo stesso livello di prestazione totale (componente pubblica ridotta più componente privata ampliata). Su tale idea si possono avanzare perplessità che riguardano innanzitutto il piano empirico - politico immediato: a) si trascura gravemente l’impatto che la realizzazione di tale idea creerebbe sugli equilibri di bilancio: per l’Italia, dai calcoli di Castellino e Fornero (1997) risulta che - nell’ipotesi di una destinazione di 7-8 punti dell’aliquota attualmente a carico dei lavoratori dipendenti al finanziamento di quote addizionali di previdenza complementare - il costo aggiuntivo sulla finanza pubblica ammonterebbe ad una cifra oscillante per un ventennio intorno al 2% annuo del Pil; b) si sopravvaluta nettamente la possibilità di alti rendimenti del capitale (Artoni, 1999), poiché non esiste alcuna regolarità statistica osservata che consenta di dire che per tutti gli investimenti (e non solo per quelli a più alto rischio come quelli azionari) e per lunghi periodi di tempo (e non solo per periodi circoscritti) il rendimento possa sistematicamente superare il tasso di crescita del Pil. Del resto, anche per gli investimenti azionari si vede che perfino nel forte mercato americano occorrono lunghissimi periodi di tempo per neutralizzare l’aleatorietà dei corsi (il Dow Jones ha impiegato trent’ anni per recuperare il valore di prima del crollo del 1929). Si vede altresì che i rendimenti del mercato azionario americano (che ha dietro la forza del signoraggio del dollaro) non possono essere presi come esemplificazioni per il resto del mondo, poiché ricerche delle Università di Yale e della California mostrano che per 38 stock markets di altrettanti paesi, dal 1920 ad oggi, il tasso di rendimento reale medio è stato dell’1,5%, ben lontano dall’8-10% estrapolato da Feldstein (1999) (e in una prima versione anche da Modigliani, 1999, che ha successivamente portato correttivi di vario tipo alla propria ipotesi, rendendo in particolare lo Stato - e dunque la collettività - una sorta di “garante di ultima istanza” del rendimento della capitalizzazione e dell’intero processo). Non meno importanti sono le osservazioni sul piano analitico-concettuale: a) l’ipotesi di una generalizzazione della capitalizzazione pura come panacea di tutti i mali ostacola la maturazione della consapevolezza che lo shock demografico che investirà le società occidentali influirà in analoga misura su tutti i sistemi pensionistici, sia su quelli pubblici a ripartizione, sia su quelli di tipo privatistico, investiti dal medesimo dilemma, vale a dire quante risorse le collettività saranno disposte a trasferire - a prescindere dalla natura pubblica o privata del veicolo del trasferimento - dalle generazioni attive a generazioni anziane sempre più numerose. La risposta non potrà che stare in quella diversificazione del rischio che solo il mix di più pilastri - con quello pubblico in posizione centrale - può offrire. b) si oscura la percezione che il confronto più corretto non è tra ripartizione e capitalizzazione, ma tra “diversi modelli di ripartizione” e “diversi modelli di capitalizzazione”. La riforma italiana del 1995-1997 - considerata da autorevoli osservatori internazionali, insieme a quella svedese, l’unica “dramatic reform” realizzata fin qui dai paesi europei - mostra l’innovatività e la validità (rispetto ad un “sistema a ripartizione di tipo retributivo”) di un “sistema a ripartizione di tipo contributivo” che realizza - anche se attraverso un troppo lungo periodo di transizione di cui è bene discutere una possibile accelerazione -, “a regime”, maggiore equità e maggiore sostenibilità finanziaria (si veda la seconda parte di Pennacchi, 1997). c) infine vanno esplicitate le implicazioni macroeconomiche sottostanti ad un’ipotesi che collega un’estensione della capitalizzazione di tipo privatistico alla generazione di una più alta propensione al risparmio, a sua volta connessa ad una più elevata accumulazione di capitale. Va tenuto presente che tale ipotesi dovrebbe funzionare in economie mature, in alcune delle quali l’entità del risparmio è già tale da rischiare di trasformarsi in una condizione dinamicamente inefficiente ai fini della crescita (Onofri, 1998). D’altro canto, immaginare che una più vasta quota dei profitti finanzi i benefici per un numero sempre più ampio di pensionati implica che il tasso di crescita dei salari scenda sistematicamente al di sotto del tasso di crescita della produttività. È bene chiedersi quanto sia realistico - e quanto sia auspicabile - un simile scenario e quale fine faccia in esso il postulato dell’” invarianza delle quote distributive” (proprio dell’economia ortodossa, non certo di quella marxista), posto che, in questa ipotesi, la quota dei redditi da capitale nella distribuzione del reddito può crescere illimitatamente a danno della quota dei redditi da lavoro." Vincenzo Visco: «Noi siamo a sinistra con un rischio duplice in quanto da un lato c’è una posizione per la conservazione di cose che non possono essere conservate perché inefficienti, sbagliate, con effetti paradossali e antiquate, che andrebbero di conseguenza modernizzate; dall’altro i sensi di colpa della sinistra a volte si traducono nel dare ragione all’avversario politico. L’ equilibrio va trovato in questo ambito. L’alternativa è fra una burocratizzazione manipolatrice tipica della sinistra storica e una fiducia ingenua nel mercato. Ed è molto difficile trovare l’equilibrio fra queste due posizioni, perché sia il mercato che la burocrazia non funzionano e quindi dovremmo essere capaci di redistribuire periodicamente ruoli e funzioni fra l’uno e l’altro strumento organizzativo. Per fare ciò servono flessibilità, spregiudicatezza e molta consapevolezza.» ![]() |