[RIFORMANDO:362] I: quaderno di info sul welfare
Corrado Truffi  Lunedi`, 14 Febbraio 2000


segnalo il quaderno di Info (gruppo  parlamentare ds-ulivo  alla
Camera) dedicato al welfare. Titolo:

«Perché il welfare state?
Sviluppo economico
ed istituzioni della cittadinanza sociale »

Interventi molto interessanti per distruggere la vulgata secondo cui c'è
un trade-off fra stato sociale e sviluppo (o fra equità ed efficienza),
e fra alta tassazione e sviluppo, e per combattere l'altra panzana
secondo cui privato è sempre meglio di pubblico anche quando c'è
"fallimento del mercato".

Il tutto è disponibile su web qui:

http://www.democraticisinistradeputati.it/Info/welfare/welfare.htm

Riporto qui due brani che mi sembrano molto belli, il primo di Laura
Pennacchi, il secondo di Vincenzo Visco, e segnalo la bella analisi
econdomica di Roberto Artoni (che non riporto per non esagerare). Buona
lettura.

Laura Pennacchi:

"Per quanto riguarda la sanità, l’affidamento al mercato farebbe sì che
l’asimmetria informativa strutturale che penalizza l’utente nel rapporto
con il medico per un verso, con l’intermediario finanziario per un
altro, lo metterebbe nella condizione di poter scarsamente valutare la
qualità dei servizi offerti (Granaglia, 1994). In tali situazioni da una
parte i prezzi divengono segnali di qualità (il medico più bravo appare
quello che pratica onorari più elevati), dall’altra i produttori sono in
grado di alimentare artificiosamente la domanda, con il risultato che a
quantità eccessive si associano prezzi superiori a quelli teoricamente
efficienti. Questi sono esattamente i meccanismi per cui negli Usa si è
arrivati ad una percentuale di spesa sanitaria sul Pil pari a quasi il
doppio di quella media europea (il 14% contro il 7-8% circa) e a una
elevatissima quota della popolazione non assicurata o sotto-assicurata.
Sarebbe bene non dimenticare questi aspetti quando, al fine
(condivisibilissimo) di favorire un maggior sviluppo dei servizi nell’
economia italiana, si invoca il ridimensionamento del cosiddetto
“monopolio pubblico” in sanità, dal quale dovrebbe nascere la stessa
capacità di generare posti di lavoro che gli Usa hanno fatto registrare
proprio nei servizi sanitari.

Oltre alla sanità, vi sono altre aree in cui è possibile esemplificare
le implicazioni di quanto ho sostenuto fin qui. In campo previdenziale
va sottoposta a vaglio l’ipotesi di privatizzazione/capitalizzazione,
per la verità riproposta oggi solo da alcuni organismi internazionali
(una parte del Fmi) e in auge - con il consueto provincialismo che ci
contraddistingue - in particolare in Italia. Perché altrove, per esempio
alla Banca Mondiale, per iniziativa del suo vicepresidente Joseph
Stiglitz, se ne discute criticamente: in un seminario tenuto a metà
settembre Stiglitz ha contestato ben “dieci miti” correnti sulla
capitalizzazione (Orszag, Stiglitz,1999) e ha sottolineato come l’
impostazione tenuta dalla Banca Mondiale dal 1994 (a partire dal celebre
rapporto Averting the Old Age Crisis) abbia avuto risultati negativi per
molti paesi che vi si sono attenuti, per cui è tempo di una drastica
revisione. In effetti, negli Usa il dibattito è, all’opposto, su come
utilizzare l’attivo di bilancio per rilanciare la social security -
molto simile ai sistemi previdenziali “a ripartizione” europei - e al
tempo stesso sostenere i “fondi collettivi” (limitando a un ruolo
marginale la funzione dei cosiddetti “conti individuali”). Nella stessa
Inghilterra (il paese europeo con la più forte quota di previdenza
privata, collettiva ed individuale) i propositi attuali di riforma
presentano una ricchezza di articolazioni a cui non rendono giustizia
formule sommarie: per esempio, molti osservatori (e la stessa
Commissione del Tesoro inglese istituita allo scopo) mettono in rilievo
i “costi elevati” delle assicurazioni individuali e stigmatizzano i
numerosi casi in cui i lavoratori sono stati indotti a lasciare ottimi
“schemi occupazionali” per optare per meno soddisfacenti posizioni
individuali (Agulnik, 1999, Barr, 1999)

L’idea di base è che un “sistema a capitalizzazione” offra rendimenti
superiori a quelli offerti dal “sistema a ripartizione” e che tale
maggiore redditività consenta di diminuire i contributi tagliando
drasticamente le prestazioni pubbliche, ma mantenendo nel contempo lo
stesso livello di prestazione totale (componente pubblica ridotta più
componente privata ampliata). Su tale idea si possono avanzare
perplessità che riguardano innanzitutto il piano empirico - politico
immediato:

a) si trascura gravemente l’impatto che la realizzazione di tale idea
creerebbe sugli equilibri di bilancio: per l’Italia, dai calcoli di
Castellino e Fornero (1997) risulta che - nell’ipotesi di una
destinazione di 7-8 punti dell’aliquota attualmente a carico dei
lavoratori dipendenti al finanziamento di quote addizionali di
previdenza complementare - il costo aggiuntivo sulla finanza pubblica
ammonterebbe ad una cifra oscillante per un ventennio intorno al 2%
annuo del Pil;

b) si sopravvaluta nettamente la possibilità di alti rendimenti del
capitale (Artoni, 1999), poiché non esiste alcuna regolarità statistica
osservata che consenta di dire che per tutti  gli investimenti (e non
solo per quelli a più alto rischio come quelli azionari) e per lunghi
periodi di tempo (e non solo per periodi circoscritti) il rendimento
possa sistematicamente superare il tasso di crescita del Pil. Del resto,
anche per gli investimenti azionari si vede che perfino nel forte
mercato americano occorrono lunghissimi periodi di tempo per
neutralizzare l’aleatorietà dei corsi (il Dow Jones ha impiegato trent’
anni per recuperare il valore di prima del crollo del 1929). Si vede
altresì che i rendimenti del mercato azionario americano (che ha dietro
la forza del signoraggio del dollaro) non possono essere presi come
esemplificazioni per il resto del mondo, poiché ricerche delle
Università di Yale e della California mostrano che per 38 stock markets
di altrettanti paesi, dal 1920 ad oggi, il tasso di rendimento reale
medio è stato dell’1,5%, ben lontano dall’8-10% estrapolato da Feldstein
(1999) (e in una prima versione anche da Modigliani, 1999, che ha
successivamente portato correttivi di vario tipo alla propria ipotesi,
rendendo in particolare lo Stato - e dunque la collettività - una sorta
di “garante di ultima istanza” del rendimento della capitalizzazione e
dell’intero processo).

Non meno importanti sono le osservazioni sul piano
analitico-concettuale:

a) l’ipotesi di una generalizzazione della capitalizzazione pura come
panacea di tutti i mali ostacola la maturazione della consapevolezza che
lo shock demografico che investirà le società occidentali influirà in
analoga misura su tutti i sistemi pensionistici, sia su quelli pubblici
a ripartizione, sia su quelli di tipo privatistico, investiti dal
medesimo dilemma, vale a dire quante risorse le collettività saranno
disposte a trasferire - a prescindere dalla natura pubblica o privata
del veicolo del trasferimento - dalle generazioni attive a generazioni
anziane sempre più numerose. La risposta non potrà che stare in quella
diversificazione del rischio che solo il mix di più pilastri  - con
quello pubblico in posizione centrale - può offrire.

b) si oscura la percezione che il confronto più corretto non è tra
ripartizione e capitalizzazione, ma tra “diversi modelli di
 ripartizione” e “diversi modelli di capitalizzazione”. La riforma
italiana del 1995-1997 - considerata da autorevoli osservatori
internazionali, insieme a quella svedese, l’unica “dramatic reform”
realizzata fin qui dai paesi europei - mostra l’innovatività e la
validità (rispetto ad un “sistema a ripartizione di tipo retributivo”)
di un “sistema a ripartizione di tipo contributivo” che realizza - anche
se attraverso un troppo lungo periodo di transizione di cui è bene
discutere una possibile accelerazione -, “a regime”, maggiore equità e
maggiore sostenibilità finanziaria (si veda la seconda parte di
Pennacchi, 1997).

c) infine vanno esplicitate le implicazioni macroeconomiche sottostanti
ad un’ipotesi che collega un’estensione della capitalizzazione di tipo
privatistico alla generazione di una più alta propensione al risparmio,
a sua volta connessa ad una più elevata accumulazione di capitale. Va
tenuto presente che tale ipotesi dovrebbe funzionare in economie mature,
in alcune delle quali l’entità del risparmio è già tale da rischiare di
trasformarsi in una condizione dinamicamente inefficiente ai fini della
crescita (Onofri, 1998). D’altro canto, immaginare che una più vasta
quota dei profitti finanzi i benefici per un numero sempre più ampio di
pensionati implica che il tasso di crescita dei salari scenda
sistematicamente al di sotto del tasso di crescita della produttività. È
bene chiedersi quanto sia realistico - e quanto sia auspicabile - un
simile scenario e quale fine faccia in esso il postulato dell’”
invarianza delle quote distributive” (proprio dell’economia ortodossa,
non certo di quella marxista), posto che, in questa ipotesi, la quota
dei redditi da capitale nella distribuzione del reddito può crescere
illimitatamente a danno della quota dei redditi da lavoro."

Vincenzo Visco:

«Noi siamo a sinistra con un rischio duplice in quanto da un lato c’è
una
posizione per la conservazione di cose che non possono essere conservate
perché inefficienti, sbagliate, con effetti paradossali e antiquate, che
andrebbero di conseguenza modernizzate; dall’altro i sensi di colpa
della
sinistra a volte si traducono nel dare ragione all’avversario politico.
L’
equilibrio va trovato in questo ambito. L’alternativa è fra una
burocratizzazione manipolatrice tipica della sinistra storica e una
fiducia
ingenua nel mercato. Ed è molto difficile trovare l’equilibrio fra
queste
due posizioni, perché sia il mercato che la burocrazia non funzionano e
quindi dovremmo essere capaci di redistribuire periodicamente ruoli e
funzioni fra l’uno e l’altro strumento organizzativo. Per fare ciò
servono
flessibilità, spregiudicatezza e molta consapevolezza.»






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