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Il capitalismo e la crisi

Forum per le discussioni sulle tematiche economiche e produttive italiane, sul mondo del lavoro sulle problematiche tributarie, fiscali, previdenziali, sulle leggi finanziarie dello Stato.

Re: Il capitalismo e la crisi

Messaggioda Rosario Amico Roxas il 02/03/2009, 16:24

La morale del contadino Bechir è molto più vasta, perché coinvolge l’abuso della libertà contro i più deboli; la reazione di Bechir è la medesima dei combattenti che si ribellano alla invasione della loro terra, senza che nessuno ne sostenga le ragioni, bollandoli come “terroristi” per trovare una giustificazione alle peggiori violenze che vengono perpetrate contro di loro.
La responsabilità culturale, etica e sociale, sta proprio nel malinteso liberalismo, diventato (per mero opportunismo) liberismo, che vieta ogni controllo ed esalta la libertà di delinquere.
La Chiesa, che non capisce nulla di economia, non capisce nulla di politica, non capisce nulla di diplomazia, è certamente espertissima in “umanità” e non nella dimensione confessionale o da sacrestia, bensì in un’ottica laica, perché etica.
Il liberalismo che sostiene il profitto, la concorrenza, la proprietà privata degli strumenti di produzione come diritti assoluti e senza limiti, in una lettura laica del magistero sociale della Chiesa, viene identificato come imperialismo del denaro e viene condannato come un errore, in quanto non mette l’economia al servizio dell’uomo, ma l’uomo al servizio dell’economia e uomini al servizio di altri uomini. Non viene trascurato, nello stesso punto dove viene sancita la condanna di un certo liberalismo esasperato, di riconoscere come l’industrializzazione, l’organizzazione del lavoro e il progresso industriale siano stati fattori insostituibili di progresso, ma tale progresso avrebbe dovuto coinvolgere tutti gli uomini, tutte le nazioni e tutte le culture. (V. Populorum Progressio n. 26).
Il libero mercato, fondato sui principi della mutualità, non può essere orientato verso i metodi della lotta; la dottrina positiva che scaturisce dal precetto universale della solidarietà, e soprattutto l’attuazione della vita vissuta alla luce della solidarietà, superano, anche concettualmente l’atteggiamento della lotta.
La solidarietà è un principio riconosciuto anche dalle religioni animiste, perché non si tratta di un principio confessionale, ma laico ed universale, in quanto etico.
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Re: Il capitalismo e la crisi

Messaggioda franz il 02/03/2009, 17:10

Rosario Amico Roxas ha scritto:La morale del contadino Bechir è molto più vasta, perché coinvolge l’abuso della libertà contro i più deboli;

Non esiste quella libertà, perché da millenni i deboli si coalizzano contro i prepontenti e per questo hanno fondato comunità sempre piu' vaste. dai villaggi alle tribu' alle polis alle moderne nazioni e confederazioni.
La libertà non è un valore senza limiti, perché di fatto vede come limite quello di non danneggiare la libertà degli altri.
Sotto questo profilo anche il libero mercato non esiste, perché deve sottostare al codice civile e penale.
Libero si intende da vincoli e limitazioni commerciali, come dazi, diveti di importazione ed esportazione.
Vi rendente conto (o vi ricordate) che negli anni '60 in Italia non si potevano importare le auto giapponesi, per proteggere la FIAT e le altre marche italiane, e che le altre marche europee erano contingentate?

Quando si parla di libero mercato si parla solo di quello, non dell'abuso del prepotente.
Anzi il liberismo prevede a determinate condizioni lo smantellamento dei monopoli, delle posizioni dominanti se uccide la concoorrenza.
Sempre che al governo non si sia andato un monopolista che si spaccia per liberale ma non lo è affatto :-)

Sulla Chiesa, prendo atto del tuo convinciento ma tu prendi atto per favore che quando nel 1700 nasceva il liberalismo e quando nel 1800 nasceva il socialismo, la Chiesa era contraria a quelle libertà e le soffocava (e nello stato pontificio, prima dell'Unità d'Italia non che che si vivesse da nababbi). Chiaro che la chiesa critichi quanto dici ma dovrebbe anche indicare sistemi migliori per produrre ricchezza e conoscenza. Oggi siamo quasi in sette miliardi sul pianeta, grazie alla scienza, alla medicina, al capitalismo. Non certo grazie allla dottrina sociale della Chiesa, che al massimo puo' suggerirci migliori sistemi di ridistribuzione, non di produzione. Non certo grazie all'atteggiamento della Chiesa verso la Scienza, che è stato quello del rogo sulla pubblica piazza o della abiura.

Ciao,
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Re: Il capitalismo e la crisi

Messaggioda franz il 02/03/2009, 18:23

Stefano'62 ha scritto:Se invece il mercato diventa qualcosa di asservito ai bisogni di qualcuno che lo controlla,l'umanità vive un progresso fittizio.
...
Il capitalismo,cioè la concentrazione delle risorse,in teoria sarebbe un dato positivo perchè consentirebbe traguardi più ambiziosi e maggior benessere.
...
La mi opinione è che ciò dipenda dall'ingerenza dei gruppi capitalisti nella vita amministrativa e nel conseguente controllo delle politiche economiche;

Tre spunti interessanti.
parto dalla fine perché oltre a quanto dici è vero anche e soprattutto il contrario, e cioe' l'ingerenza della politica (di gruppi di potere politico) sul mercato (con dazi, sussidi, freni all'esportazione o all'importazione) comporta un mercato che è meno libero di quello che si potrebbe auspicare (all'inizio dicevi che putroppo questo mercato libero non lo vediamo).
Il caso del subprime, con la conseguente crisi, è uno di questi casi di imposizione da parte della politica (in questo caso il governo americano) sulle scelte di mercato. In un mercato veramente libero nessuna banca avrebbe accettato le pressioni governative per concedere ipoteche alle condizioni subprime. E quindi nessun istituto finnaziario si sarebbe ingegnato per capire come nascondere questa spazzatura un po' dappertutto per disfarsi del rischio.

Andando a ritroso, arrivo al secondo punto. La concentrazione è a quanto pare un processo inevitabile, ma che è altalenante e va ciclicamente in crisi.
Questo è un periodo di quelli. Grosse fortune vanno in fumo ma nuove imprese stanno già nascendo.
La concentrazione è inevitabile perché gli investimenti, che sono una caratteristica determinante ed inevitabile di ogni processo di crescita, sono una attività a rischio. Senza investimenti c'è stasi e se la popolazione cresce c'è solo piu' fame per tutti. Con gli investimenti c'è crescita ma alcuni investimenti vanno male (statisticamente è impossibile che tutti gli investimenti vadano a buon fine) per cui anche se il totale aumenta, qualcuno sarà piu' povero e qualcuno sarà piu' ricco.
Quindi anche se fossimo tutti uguali la crescita (qualsiasi crescita) provoca disparità. Per ora non esiste alcun sistema di crescita che funzioni senza accumulo (di tutto, saperi, soldi, beni) e senza rischio di invenstimento.

Ecco che quindi non bisogna asservire il mercato a logiche diverse da quelle che garantiscono una concorrenza alla pari tra tutti gli operatori senza aiuti di stato per qualcuno o impedimenti artificiali per altri. Mi facevano notare che per esempio gli aiuti statali alle energie alternative, se è vero che hanno smosso quel settore incrementandone le vendite e la quota di mercato, di fatto mantengono alti i prezzi. Bisogna considerare quindi che ogni medaglia ha il suo rovescio e che ogni intervento che droga il mercato comporta poi che il mercato rende il conto con una distorsione della domanda e dell'offerta (e quindi del prezzo). Chi nota questa distorsione è portato a dire che "il libero mercato non funziona" ma in realtà siamo noi che non lo facciamo funzionare. Altro esempio, questo piu' drammatico è quello dell'equo canone. L'utopia di regolare il valore dell'affitto con una formula (e non con il mercato) ha sconvolto e distrutto il mercato dell'affitto in Italia.
Oggi una casa in affitto a Roma costa (mediamente) molto di piu' che a Parigi, Tokyo, Madrid, Berlino e tante altre capitali europee dove pero' contemporaneamente ci sono redditi medi (a parità del costo della vita) molto piu' alti.

Vero quindi che il libero mercato come tale non esiste da nessuna parte ma l'Italia è una delle nazioni in cui ne abbiamo meno di altri ed i risultati si vedono.

Ciao,
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Re: Il capitalismo e la crisi

Messaggioda Rosario Amico Roxas il 02/03/2009, 19:08

Ci proviene dalle culture aborigene il metodo di suddivisione dei beni e la cultura del metodo produttivo.
Il capitalismo identifica il capitale con il denaro, escludendo ogni possibilità di corretta valutazione del lavoro.
Il lavoro viene considerato una merce che segue le leggi di mercato : maggiore offerta e minore domanda, per cui si ottiene lo sfruttamento. Ma quando la domanda supera l'offerta, rischiando costi maggiori, allora "si chiude" oppure si accettano le condizioni padronali. Poniamo un esempio oggi molto visibile; è fuori di ogni ragionevole dubbio che i contribuenti italiani abbiamo pagato la FIAT per un montante superiore al suo stesso valore, senza averne nulla in cambio se non posti di lavoro mal retribuiti e il ricorrente ricatto. Se si trasformasse l'intera FIAT in tutta una serie di cooperative consorziate, fra di loro, con operai, impiegati, dirigenti, con pari dignità anche se non con pari retribuzione, ma senza divaricamenti mostruosi .
Giovani tecnici, giovani manager, ricercatori, tutto quello che occorre per mandare avanti la baracca, Cooperative senza scopo di lucro, con gli utili reinvestiti nell'azienda e nella dilatazione dei posti di lavoro, allora si sarebbe competitivi su tutti i mercati del pianeta; una macchina costerebbe il corrispettivo di tre mensilità di salario operaio (v. fordismo) o di di un funzionario o, ancora uno e mezzo di un dirigente, e, al massimo, di uno del manager (se ricopre il ruolo efficacemente, altrimenti a casa con ignominia. Tutti padroni del proprio lavoro e dei risultati del proprio lavoro.
Lo Stato potrebbe benissimo restare assente, avrebbe il suo ritorno fiscale senza richieste ricattatorie di periodiche sovvenzioni, con la spartizione degli tili con i dividendi e la nazionalizzazione delle passività con la cassa integrazione. A queste condizioni anche un inetto, incapace, riesce a fare il manager.
Si chiamo "corporativismo, e successivamente cooperativismo.
Il corporativismo ebbe ragion d’essere quando Leone XIII lo incluse nei diritti di associazionismo delle classi sfruttate, al fine di tutelare al meglio diritti non riconosciuti.
Precedentemente alla Rerum Novarum i diritti venivano considerati come frutto di un medievale paternalismo e affidati alla generosità dei datori di lavoro. Con il corporativismo della Rerum Novarum, e il diritto all’associazionismo, quei diritti transitarono nella sfera della legittimità individuale.
Quando il fascismo si impossessò del corporativismo, inteso come tutela di privilegi, la Chiesa non ne fece più cenno per non ritrovarsi a dover chiarire la profonda differenza tra corporativismo cattolico e corporativismo fascista. Con l’evoluzione successiva la Chiesa riprese l’argomento, ma proponendo il cooperativismo, come libera associazione di produzione e lavoro, ribadendo il concetto di diritti inalienabili dei lavoratori, alla luce dell’integrazione sociale.
Oggi sta riemergendo il corporativismo dei privilegi, sostenuto da interessi di bottega, finalizzati al recupero di consensi presso le categorie che pretendono e ottengono condizioni monopolistiche a carico della collettività costretta a pagare il prezzo più alto, perché esonerato dalla concorrenza.
La Chiesa, questa Chiesa di questo Vaticano, annuisce e, silenziosamente approva, fornendo argomenti a sostengo di un fiorente “cattofascismo” selettivo e protettivo di un liberismo liberticida e autoritario, lontanissimo dall’ecumenismo sociale che si era affermato fino a Giovanni Paolo II, sulla scia del Concilio Vaticano II°.
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Re: Il capitalismo e la crisi

Messaggioda Stefano'62 il 03/03/2009, 1:13

franz ha scritto:Lo stato infatti (nel senso di comunità) ha questa funzione difensiva primaria, da qualche migliaio di anni a questa parte.
Difendere i diritti di Bechir dai sopprusi del prepotente. Bechir ha sbagliato, facendosi giustizia da solo.
Quella la morale. Strano che qualcuno possa trovare interpretazioni diverse e sbagliate.

Mah,
Io penso che quando Rosario ha usato questa storia per illustrare la morale del "libero mercato" intendesse dire che dove non ci sono regole,cioè se non c'è qualcuno cui Bechir possa rivolgersi per ottenere giustizia,l'unica scelta possibile e legittima resta quella di farsi giustizia da soli,e le conseguenze sono sempre ingiuste,ma non per colpa di Bechir.
A me la morale è sembrata questa.
Ciao,

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Re: Il capitalismo e la crisi

Messaggioda pierodm il 03/03/2009, 3:16

Lo Stato che nasce come unione dei deboli per difendersi dai prepotenti è una versione carina, ma assai poco sostenibile, specialmente se viene usata per ragionare intorno agli Stati moderni - intendendo con questo termine tutti quelli in epoca storica, faraoni compresi.
E' invece molto più coerente con quello che ci dice la storia - e l'esperienza diretta, sebbene più limitata - lo Stato che nasce come organizzazione e istituzionalizzazione del potere da parte di chi il potere lo detiene.
L'ordine sociale che ne deriva ha certamente alcuni vantaggi anche per i subalterni a quel potere, rispetto alla vita selvaggia, nella quale la sopraffazione o la violenza non sono gerarchizzate e ordinate secondo un codice di regole, e nella quale non esiste la solidarietà che viene a crearsi anche tra gli appartenenti alla classe dei subalterni.
Del resto, senza spingersi al di là del neolitico, basta riferisri alla società industriale e borghese dell'800, per vedere che quello Stato non era propriamente uno strumento in mano a quelle moltitudini di "deboli" che, semplicemente, non avevano nemmeno il diritto di voto.
Ma tutti questi discorsi riguardano il potere politico e la democrazia politica.

Il problema vero sta nel rapporto tra democrazia politica - o il suo contrario, l'autoritarismo - e l'economia.
Il capitalismo vuole essere considerato come una forma di democrazia economica, per il semplice fatto che in teoria tutti possono ricollocarsi nella scala sociale e produttiva per virtù di un bene anonimo e "impolitico" come il denaro, e non più per appartenenza di ceto o di sangue.
Ma le cose non stanno così.
Non stanno così in origine, in quanto non è vero che tutti hanno le stesse possibilità di partenza - nemmeno in misura approssimativa.
Non stanno così nei meccanismi del capitalismo stesso, che tende a formare grossi capitali e quindi grosse concentrazioni di potere economico, vanificando quella che era in teoria la legittimazione "democratica" del sistema.
Non stanno così in relazione alle caratteristiche dei sistemi produttivi, i quali richiedono che ci sia una stratificazione di subordinazioni, e una maggioranza di soggetti subalterni destinati a fornire la forza lavoro (e la forza consumo, che come si vede adesso, in questa crisi, viene considerata dal sistema economico non come una risorsa per la vita dei cittadini, ma come il motore dello sviluppo e della produzione).
La differenza tra democrazie e regimi autoritari sta nel modo in cui viene indotta o imposta questa subalternità, e le relative condizioni - ma questo è un altro ramo del discorso.

In termini assoluti la subalternità potrebbe essere considerata un prezzo ragionevole da pagare in cambio di un livello di vita migliore, o invece essere un peso insopportabile e ingiusto. Quest'alternativa già da sola è in grado di addensare molti conflitti.
Il fatto è che, in realtà i problemi maggiori provengono dalla contraddizione che si crea, laddove alla democrazia politica si intreccia un sistema economico che democratico non è affatto, né può esserlo, in qualunque modo si giri e si mescoli il calderone del capitalismo.
Tra le tante contraddizioni che derivano da questa, la più semplice da descrivere è quella tra un cittadino che è "sovrano" per la sua quota parte di democrazia politica, ma è un dipendente, un sottoposto, se non proprio un suddito, sul piano economico e lavorativo. La sua sovranità politica non serve a riscattarlo dalla subordinazione economica, mentre questa influisce grandemente sulla prima.

In questo senso il liberalismo mostra tutti i suoi limiti, e infatti è stato pensato in origine - principi e istituzioni - per una società politica assai diversa dalle attuali società moderne, che si limitava a rispecchiare fedelmente la struttura di potere che derivava dal sistema economico, poichè è questa struttura che impone la trasformazione politica dall'ancien regime alla società borghese. La società borghese abatte l'ancien regime non in nome del popolo - della maggioranza dei cittadini -e a favore del popolo, ma "contro" il vecchio regime che non era più adatto ai nuovi sistemi di produzione.

Tra i molti fattori di crisi - o di inconciliabilità tra politica democratica e capitalismo - c'è anche il fatto che da molto tempo si è resa evidente una diversificazione "classista" all'interno del sistema economico.
Per esempio, quando si parla di "impresa" si tende a ricomprendere tutte le attività che hanno forme giuridiche diverse dal lavoro dipendente.
Ma una bottega o un'impresa artigianale è cosa totalmente diversa da una casa automobilistica o una compagnia di assicurazioni o una multinazionale. Sia da un punto di vista politico, sia sociale, sia economico si tratta di soggetti totalmente diversi.
Non esiste una "visione" del capitalismo, o del concetto di "proprietà", che vada bene sia per gli uni sia per gli altri.
Ciò che nella pratica li unisce è il fatto che, da un lato, il grosso capitale si avvantaggia nel richiamarsi ai principi del liberalismo originario con la sua dote di etica, facendosi in qualche modo "piccolo" e buono, e dall'altra il piccolo imprenditore trova comodo sperare di trarre vantaggio nel nascondersi nella pancia "politica" del grosso, e del suo potere.

Il problema che il liberalismo - o meglio, per me, il liberal-socialismo - deve saper risolvere è quello in sostanza della democrazia economica, senza la quale è assai difficile governare non solo le crisi (come quella attuale) ma anche l'ordinaria amministrazione.
La sinistra è mancata in questo compito - limitandosi a difendere la democrazia politica, fingendo di non vedere la sua erosione nella sostanza - ma ancora di più è mancata la destra liberal-capitalista - che anzi, dopo la caduta del comunismo sovietico, ha imposto urbi et orbi i suoi dogmi.
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Re: Il capitalismo e la crisi

Messaggioda franz il 03/03/2009, 9:21

Stefano'62 ha scritto:Io penso che quando Rosario ha usato questa storia per illustrare la morale del "libero mercato" intendesse dire che dove non ci sono regole,cioè se non c'è qualcuno cui Bechir possa rivolgersi per ottenere giustizia,l'unica scelta possibile e legittima resta quella di farsi giustizia da soli,e le conseguenze sono sempre ingiuste,ma non per colpa di Bechir.

Il fatto è che molti detrattori confondono il libero mercato con l'anarchia (assenza di regole) e con la legge del piu' forte o della jungla. Non è cosi'. Questa è una visione steretipata, macchiettistica, piu' o meno come quando i detrattori delle teoria dell'evoluzione ne contestano le banalizzazioni sull'uomo che discende dalla scimmia.
Nulla a livello umano funziona senza regole ed il mercato stesso senza "diritti" (e quindi regole) non puo' funzionare.
Il primo punto cardinale è la proprietà del bene da comprare e vendere. Senza Diritti certi non esiste transazione economica di mercato. Quindi deve esistere un parco di regole che definiscono i diritti di proprietà ed una struttura che possa certificare il legittimo possesso. Seguono poi contratti, che certificano la transazione e quindi, un codice civile nella parte che riguarda la contrattualistica. Il bene deve essere poi Disponibile (perchè esiste ed il venditore vuole venderlo) e Difendibile (quindi Difeso) altrimenti nessuno lo comprerebbe. Basterebbe rubarlo.
Ecco, come vedi chi fa quella confusione non conosce bene il mercato.
Spesso questi errori vengono fatti a sinistra, perché è classico avere una visione distorta e caricaturale del "nemico".
In Italia, con la carenza di cultura liberale, questi errori li fanno un po' tutti.

Ciao,
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Re: Il capitalismo e la crisi

Messaggioda pierodm il 03/03/2009, 11:48

Una visione caricaturale del nemico è un'eventualità comune a tutti: anche a quelli che fanno le caricature della sinistra, dipingendola come una sarabanda di deficienti che schiamazzano facendo le boccacce contro i "lorsignori" che si stanno occupando delle cose serie, con sapienza, razionalità e cognizione di causa.

Io non voglio approfittare di questa crisi per sbertucciare il mondo dei sapientissimi e razionalissimi guru della finanza e del capitalismo, per il semplice fatto che non ne ho bisogno: ricordo bene che una volta, alla fine degli anni '80, feci una discussione con un amico, funzionario della CISL, quando gli dissi che l'economia di carta che lui al tempo sosteneva non poteva durare, e soprattutto che avrebbe portato ad una crisi mostruosa.
Mi sbagliavo sulla durata, che è stata purtroppo molto protratta.
Ma non sono io il protagonista, che conto poco e niente. Il problema è che quella sinistra che viene dipinta come una sarabanda di schiamazzatori fastidiosi, è la stessa sinistra che nelle società moderne ha contribuito in modo determinante alla cultura complessiva e all'evoluzione del liberalismo oligarchico verso una democrazia politica relativamente compiuta.
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Re: Il capitalismo e la crisi

Messaggioda Stefano'62 il 03/03/2009, 14:15

franz ha scritto:Il fatto è che molti detrattori confondono il libero mercato con l'anarchia (assenza di regole) e con la legge del piu' forte o della jungla.

E' vero,e per questo ho spiegato nella pagina precedente la mia interpretazione del termine,e sempre per questo avevo virgolettato lo stesso termine nell'ultimo mio post.....però ammetterai che questa confusione è alimenta anche dal fatto che spesso sono proprio alcuni sostenitori del "libero mercato" a vederlo tale solo se spariscono le regole (le chiamano "catene").

Per come la vedo io in questo forum sono più le cose che ci uniscono che quelle che ci dividono,anche se alle volte non sembra,e il più delle volte ci incastriamo proprio sul vocabolario.
Anche io per esempio propugno regole per il mercato,ma non tali e tante da renderlo inutile (diciamo che punto sulla loro qualità ed efficienza,più che sulla quantità),però moltissimi sono pronti a darmi del dirigista se niente niente non specifico bene bene con puntiglio (discorso naturalmente ribaltabile...).
Io è questo che cerco di fare quando leggo:andare oltre alle parole e cercare il concetto.
Ciao,

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Re: Il capitalismo e la crisi

Messaggioda pagheca il 03/03/2009, 14:22

Concordo. Temo che questa discussione, per come e' stata impostata, non abbia molto senso. Anche io non credo che il libero mercato sia il sistema "migliore". Ma per una ragione diversa, piu' semantica che di principio.

Da un lato c'e' un teorico "mercato totalmente libero", dove si assume che l'economia sia in grado di regolarsi da sola e quindi l'azione dello Stato si debba ridurre semplicemente al rimuovere ogni vincolo (ed ogni sostegno). All'altro estremo c'e' invece il dirigismo totale: si ritiene che non ci sia spazio per l'iniziativa privata ma ci sia bisogno di una regolazione a priori del meccanismo economico che, si ritiene, non e' in grado di regolarsi da solo senza creare gravissime ingiustizie. Entrambi questi estremi si sono rivelati estremamente sbagliati e forieri di gravi inefficienze e ingiustizie. Ricordo che l'indice di Gini mostra che Paesi come quelli scandinavi dove l'equilibrio tra i due e' molto spostato verso il "dirigismo" (nel senso definito qui sopra. Non impicchiamoci ai termini please!), sono tra quelli piu' giusti senza per questo deprimere la ricchezza. Il problema e' quindi come trovare l'equilibrio tra i due estremi.

E questo e' quello che succede ovunque. Inclusi gli Stati Uniti dove esistono sussidi per gli agricoltori, ma anche forti leggi antitrust etc. Quindi affermazioni come quella che il libero mercato sia il peggiore dei mali, o il meglio possibile, non hanno senso, perche' il libero mercato non esiste, e' solo un estremo di un'estrema gradazione, lontano da ogni applicazione reale e moderna.

Come dice Stefano, per questo non vedo opinioni particolarmente diverse e inconciliabili. Basta semplicemente mettersi d'accordo sui termini e discutere del merito, di come regolare un mercato che e' sempre un po' libero e un po' no, ma con diverse gradazioni. Come al solito la realta' e' fuzzy e sfugge alle categorizzazioni estreme. La difficolta' non e' tanto scegliere tra questo o quello ma il dove trovare il punto di equilibrio, che e' molto piu' difficile.

saluti
pagheca
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