da pierodm il 03/03/2009, 3:16
Lo Stato che nasce come unione dei deboli per difendersi dai prepotenti è una versione carina, ma assai poco sostenibile, specialmente se viene usata per ragionare intorno agli Stati moderni - intendendo con questo termine tutti quelli in epoca storica, faraoni compresi.
E' invece molto più coerente con quello che ci dice la storia - e l'esperienza diretta, sebbene più limitata - lo Stato che nasce come organizzazione e istituzionalizzazione del potere da parte di chi il potere lo detiene.
L'ordine sociale che ne deriva ha certamente alcuni vantaggi anche per i subalterni a quel potere, rispetto alla vita selvaggia, nella quale la sopraffazione o la violenza non sono gerarchizzate e ordinate secondo un codice di regole, e nella quale non esiste la solidarietà che viene a crearsi anche tra gli appartenenti alla classe dei subalterni.
Del resto, senza spingersi al di là del neolitico, basta riferisri alla società industriale e borghese dell'800, per vedere che quello Stato non era propriamente uno strumento in mano a quelle moltitudini di "deboli" che, semplicemente, non avevano nemmeno il diritto di voto.
Ma tutti questi discorsi riguardano il potere politico e la democrazia politica.
Il problema vero sta nel rapporto tra democrazia politica - o il suo contrario, l'autoritarismo - e l'economia.
Il capitalismo vuole essere considerato come una forma di democrazia economica, per il semplice fatto che in teoria tutti possono ricollocarsi nella scala sociale e produttiva per virtù di un bene anonimo e "impolitico" come il denaro, e non più per appartenenza di ceto o di sangue.
Ma le cose non stanno così.
Non stanno così in origine, in quanto non è vero che tutti hanno le stesse possibilità di partenza - nemmeno in misura approssimativa.
Non stanno così nei meccanismi del capitalismo stesso, che tende a formare grossi capitali e quindi grosse concentrazioni di potere economico, vanificando quella che era in teoria la legittimazione "democratica" del sistema.
Non stanno così in relazione alle caratteristiche dei sistemi produttivi, i quali richiedono che ci sia una stratificazione di subordinazioni, e una maggioranza di soggetti subalterni destinati a fornire la forza lavoro (e la forza consumo, che come si vede adesso, in questa crisi, viene considerata dal sistema economico non come una risorsa per la vita dei cittadini, ma come il motore dello sviluppo e della produzione).
La differenza tra democrazie e regimi autoritari sta nel modo in cui viene indotta o imposta questa subalternità, e le relative condizioni - ma questo è un altro ramo del discorso.
In termini assoluti la subalternità potrebbe essere considerata un prezzo ragionevole da pagare in cambio di un livello di vita migliore, o invece essere un peso insopportabile e ingiusto. Quest'alternativa già da sola è in grado di addensare molti conflitti.
Il fatto è che, in realtà i problemi maggiori provengono dalla contraddizione che si crea, laddove alla democrazia politica si intreccia un sistema economico che democratico non è affatto, né può esserlo, in qualunque modo si giri e si mescoli il calderone del capitalismo.
Tra le tante contraddizioni che derivano da questa, la più semplice da descrivere è quella tra un cittadino che è "sovrano" per la sua quota parte di democrazia politica, ma è un dipendente, un sottoposto, se non proprio un suddito, sul piano economico e lavorativo. La sua sovranità politica non serve a riscattarlo dalla subordinazione economica, mentre questa influisce grandemente sulla prima.
In questo senso il liberalismo mostra tutti i suoi limiti, e infatti è stato pensato in origine - principi e istituzioni - per una società politica assai diversa dalle attuali società moderne, che si limitava a rispecchiare fedelmente la struttura di potere che derivava dal sistema economico, poichè è questa struttura che impone la trasformazione politica dall'ancien regime alla società borghese. La società borghese abatte l'ancien regime non in nome del popolo - della maggioranza dei cittadini -e a favore del popolo, ma "contro" il vecchio regime che non era più adatto ai nuovi sistemi di produzione.
Tra i molti fattori di crisi - o di inconciliabilità tra politica democratica e capitalismo - c'è anche il fatto che da molto tempo si è resa evidente una diversificazione "classista" all'interno del sistema economico.
Per esempio, quando si parla di "impresa" si tende a ricomprendere tutte le attività che hanno forme giuridiche diverse dal lavoro dipendente.
Ma una bottega o un'impresa artigianale è cosa totalmente diversa da una casa automobilistica o una compagnia di assicurazioni o una multinazionale. Sia da un punto di vista politico, sia sociale, sia economico si tratta di soggetti totalmente diversi.
Non esiste una "visione" del capitalismo, o del concetto di "proprietà", che vada bene sia per gli uni sia per gli altri.
Ciò che nella pratica li unisce è il fatto che, da un lato, il grosso capitale si avvantaggia nel richiamarsi ai principi del liberalismo originario con la sua dote di etica, facendosi in qualche modo "piccolo" e buono, e dall'altra il piccolo imprenditore trova comodo sperare di trarre vantaggio nel nascondersi nella pancia "politica" del grosso, e del suo potere.
Il problema che il liberalismo - o meglio, per me, il liberal-socialismo - deve saper risolvere è quello in sostanza della democrazia economica, senza la quale è assai difficile governare non solo le crisi (come quella attuale) ma anche l'ordinaria amministrazione.
La sinistra è mancata in questo compito - limitandosi a difendere la democrazia politica, fingendo di non vedere la sua erosione nella sostanza - ma ancora di più è mancata la destra liberal-capitalista - che anzi, dopo la caduta del comunismo sovietico, ha imposto urbi et orbi i suoi dogmi.