Dal Salento a Padova, quindici anni di errori: così manager e politici hanno affossato Siena
È stato l'intervento delle autorità di controllo europee a scoperchiare tutti i buchi della banca. Gli amministratori delegati sono stati sempre di nomina più o meno politica. Nemmeno Viola e Profumo sono riusciti a ridurre il peso dei crediti in sofferenza
di ANDREA GRECO
Non si arriva a un passo dalla nazionalizzazione di una grande banca senza prima fare grandi errori. Errori che da 15 anni fanno tanti protagonisti del caso senese: manager, azionisti, autorità, classe politica. Una horror story che adesso la Bce impone di sanare con denaro pubblico e penitenze degli obbligazionisti. Decisione severa, come severa è stata la crisi attorno: ma c'è anche dell'altro.
Gli ultimi tre governi italiani hanno la responsabilità politica di non aver voluto nazionalizzare Mps, come tanti suggerivano, per scansarne le conseguenze politiche e contabili. Mario Monti nel 2012 raddoppia il prestito pubblico a Mps fino a 4 miliardi, ma non azzarda la ripulitura per mano pubblica del cattivo credito (primo guaio di Mps), quando le norme ancora lo consentirebbero senza coinvolgere gli investitori privati. Enrico Letta nel 2013 permette alla banca senese di riformulare gli aiuti di Stato di Monti che la Commissione Ue contesta: ma anziché convertirli in capitale cede alle richieste senesi di rimborsarli, sifonando 5 miliardi al mercato l'anno dopo. Eppure seguiva il dossier con Bruxelles un esperto: il ministro del Tesoro Fabrizio Saccomanni, ex dg di Banca d'Italia. Matteo Renzi, che a gennaio esorta a investire in Mps, per sei mesi ascolta ostinato gli aedi suggeritori di un altro salvataggio privato della banca: per evitare polemiche in vista del referendum costituzionale. Che ha perso, mandando all'aria (probabilmente) anche il salvataggio privato.
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I vertici di Mps, spesso di nomina più o meno politica, costellano di errori le gestioni fin dal 2001. Quando Divo Gronchi e Pierluigi Fabrizi comprano la Banca del Salento di osservanza dalemiana imbarcando Vincenzo De Bustis. Magro affare costato 2.500 miliardi di lire e foriero quasi solo di cause legali per i prodotti innovativi che in Puglia si vendevano. La palma manageriale va a Giuseppe Mussari, che nel 2006 si proietta da presidente della Fondazione Mps alla presidenza della banca, e sceglie Antonio Vigni come dg. Sono anni in cui va difesa la senesità con acquisizioni, per non farsi mangiare da altri. Senesità, qui, è una declinazione gentile di autocontrollo: quello del Pd locale e romano, che comandano tra la Toscana e la Capitale. Fine della dialettica con gli azionisti ed ecco Antonveneta, pagata 9 miliardi a fine 2007 mentre sbocciava la crisi mondiale. Un dossier mai digerito, che svena la Fondazione intenta a difendere quota 50% nella banca e dà la stura a tutte le spericolatezze contabili attuate per nascondere le perdite; e presto ingolfano le procure competenti e destabilizzano il Monte (stendiamo un velo su Gianluca Baldassarri, il capo della "banda del 5%").
Anche Fabrizio Viola e Alessandro Profumo, banchieri "foresti" di rango venuti a sanare le cose nel 2012, non ci riescono: per la non incisiva cura dei crediti in sofferenza che hanno contribuito a 10 miliardi di perdite negli ultimi 4 esercizi; per la difesa della diga contabile che scriveva come "Btp" le operazioni in "derivati" su quei titoli di debito (dopo anni di dispute i pm di Milano e la Consob hanno imposto a Mps di correggere i bilanci 2009-2015, aprendo la strada ai ricorsi legali); per avere perso l'occasione di convertire in capitale i vecchi aiuti di Stato, difendendo l'orgoglio e l'autonomia di dirigenti privati, e pure il reddito nel caso di Viola: perché la direttiva Ue impone un tetto di 500mila euro l'anno ai manager sotto aiuto di Stato, mentre il capoazienda tra il 2012 e il 2016 ha guadagnato 11 milioni. Quel tetto si abbatterà su Marco Morelli, ad da tre mesi che però conosce il rischio (è stato il Tesoro a imporre la sua staffetta con Viola).
Non lievi sono le responsabilità di Consob e Banca d'Italia, che vigilando hanno approvato acquisizioni e emissioni di titoli per circa 20 miliardi, già in cenere o ben avviati. Consob approva il prospetto dei 2,16 miliardi di bond subordinati 2008 venduti a 40mila clienti dalle agenzie Mps, con scritto che avrebbero quotato "tendenzialmente a 100" mentre oggi stiamo sotto 60 (proprio su questo titolo i tecnici cercano forme di ristoro quando, con i prossimi probabili aiuti di Stato, la conversione forzosa dei subordinati presenterà il conto). Poi approva i prospetti degli aumenti 2014 e 2015, che dopo le correzioni contabili sui derivati fatte l'anno scorso rischiano d'essere armi in mano a investitori arrabbiati (ci hanno perso 8 miliardi). E Banca d'Italia? Autorizza, governante Mario Draghi, l'acquisto lampo di Antonveneta senza neppure una perizia contabile e a una cifra eccessiva per il Monte. Anche in seguito la vigilanza non esagera, se si pensa che i tre aumenti 2014-2015-2016 sono tutti imposti da autorità straniere: la Commissione Ue che a fine 2013 chiede di rimborsare o convertire i Monti bond, perplessa di come Mps ha rappresentato i problemi su cui basa le richieste d'aiuto (sempre la querelle Btp-derivati). La Bce, che a novembre 2014 avvia la vigilanza sul Monte con un esame sui crediti e ne fa riclassificare un terzo del campione come sofferenze (buco da 3 miliardi, aumento 2015). E a luglio l'Eba londinese, che nello stress test "adverse scenario" vede uscire Mps come la peggiore di 51 banche. E innesca il deficit patrimoniale che ora è destinato a pagare lo Stato.
(l'articolo è stato pubblicato da Repubblica il 10 dicembre scorso)