franz ha scritto:Il senso del "giusto" è un sentimento. Anche un bambino a tre anni puo' provarlo in modo netto e forte, se gli portano via un giocattolo, se riceve una punizione che crede di non meritare, se vede solo altri premiati per cose che ritiene di meritare anche lui. Anche se vede altri puniti ingiustamente.
Tutto dipende dalle esperienze avute e dall'insegnamento genitoriale.
Si potrebbe dire, sul piano neurologico, che esiste nel cervello un "centro della giustizia", ovviamente legata al senso morale e ricco di conenuti etici. Il che vuol dire che anche se il contenuto di questo "centro" arriva dall'ambiente (genitori prima e società poi) la sua esistenza è genetica (come per il linguaggio), legata al fatto che chi ha questo centro ben sviluppato ha comunque un vantaggio sociale, relativo ad una specie sociale che vive di relazioni e di comportamenti (e sul giudizio di questi comportamenti).
La ragione o razionalità invece arriva piu' tardi, dopo la pubertà, con la maturità.
Ha sede in altre zone del cervello. Prende anche atto dell'input morale ma lo domina (se ci riesce) e lo analizza, osservandolo criticamente (se ci riesce). Dipende dalle esperienze e dagli studi fatti ma ha una sua forte autonomia rispetto all'insegnamento genitorieale.
La ragione osserva l'oggi, il senso morale del giusto ci proviene dal passato.
Dall'equilibrio tra i due si ottiene un progredire armonioso.
la prevalenza dell'uno o dell'altro puo' essere dannosa.
Ci puo' essere conflitto tra morale e ragione? A volte si, perché no? Ci puo' anche essere buona armonia.
Se fossero la stessa cosa, il problema non si porrebbe.
Franz
A volte, caro Franz, ti lanci in affermazioni di tipo, direi, filosofico-antropologico che sono opinioni tue, a volte confivisibili ed a volte no.
Sono capitata su questo argomento solo ora, per cui può darsi che non abbia seguito tutti gli interventi, ma rispondo ugualmente tenendo conto almeno di questo ultimo, poi se mai ne riparliamo.
Dunque, tu dici che il senso del "giusto" è un sentimento che si impara.
A questa affermazione posso rispondere in modo documentato (la citazione posso cercarla) per affermare che il senso del "giusto" è innato, e così universale da venir condiviso non solo dalle scimmie, ma anche da altri mammiferi che ci somigliano meno. Gli esperimenti in proposito sono stati condotti non su fatti che possono essere sentiti come ingiusti in modo arbitrario o collegato a fattori sociali, ma al senso più elementare di giustizia, cioè che ad azioni uguali compiuti da individui differenti (ma di pari livello) devono corrispondere ricompense di pari valore. Se alle scimmie venivano offerte ricompense differenti per la stessa azione, l'esemplare che aveva ricevuto in premio di valore inferiore lo rifiutava con sdegno. Lo stresso fanno gli umani, fin dalla più tenera età.
Ovvio che poi, sul sentimento innato di giustizia si inseriscono condizionamenti sociali, quando i fatti presi in considerazione riguardano comportamenti complessi e giudizi di carattere sociale.
Il senso della giustizia è quindi innato, e, può entrare in conflitto con un altro sentimento altrettanto innato, che è l'istinto di sopravvivenza o, più in generale, il bisogno di soddisfare desideri personali.
Se non ci fosse questo tipo di conflitto interiore, saremo tutti personaggi etici e non ci sarebbe bisogno di leggi. Invece il conflitto tra questi due sentimenti primordiali è molto forte, e questo alla fine determina il comportamento.
Riguardo alla schiavitù, il discorso è completamente diverso. Lì il problema è il riconoscimento dell'altro come persona. Per fare un esempio limite, le ranocchie non "riconoscono" come individuo della stessa specie una ranocchia ferita, per cui l'individuo ferito diviene semplicemente preda. Gli umani in linea generale non si identificano con individui di specie diverse, tanto più che siamo in genere anche carnivori, mentre non siamo antropofagi.
Gli uomini primitivi consideravano non-umani le persone anche solo appartenenti ad altre tribù. Fa impressione considerare "primitivi" uomini solo di un paio di secoli fa (ed anche alcuni contemporanei), ma così è. I razzisti considerano in qualche misura non-umani gli appartenenti a gruppi etnici differenti dal proprio.
Ed ora veniamo alla razionalità, o "ragione" come la chiami tu.
La razionalità è in realtà uno strumento, da un punto di vista evolutivo rappresenta solo la capacità di prevedere una serie di eventi più complessa e più dilazionata nel tempo, ed in relazione a questo, calibrare il proprio comportamento mirato al raggiungimento di uno scopo. Ha anche una localizzazione precisa nella corteccia cerebrale (mentre gli "istinti elementari" hanno localizzazioni più profonde nel cervello) e la corteccia sembra avere più che altro una funzione "inibitoria" sul comportamento, cioè permette di frenare l'azione per poter "pensarci su".
La ragione, la razionalità, hanno un limite assoluto: lo "scopo" non sono in grado di fornirtelo. Lo scopo devi trovarlo in te, nei tuoi istinti e nei tuoi sentimenti primordiali, che sono in realtà ciò che ti consente di vivere.
La razionalità e la ragione non possono quindi essere mai in conflitto con l'etica, in quanto l'etica appartiene ad un piano differente.
La razionalità può invece aiutarti nel porre dei parametri nel conflitto tra i sentimenti ed i desideri, nel porre un ordine insomma.
In quest'ottica, le leggi (e la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo) sono norme che cercano di far corrispondere al meglio ciò che sentiamo come etico con il nostro comportamento attuale. Ovvio che l'uomo, come individuo sociale, si evolve, ed adatta a questa evoluzione i propri sentimenti etici. Ovvio per esempio che, uno volta "scoperto" che gli uomini sono tutti uguali in linea di principio, il razzismo, per esempio, perde ogni dignità morale.
Però questo principio va riaffermato di continuo, altrimenti il nostro egoismo individuale, familiare o di gruppo può prendere il sopravvento, come purtroppo capita.
Direi che mi fermo qui.
Volendo si può anche continuare.
annalu