da flaviomob il 09/02/2015, 3:01
Se non ricordo male la ricchezza privata degli italiani è intorno a 8000 miliardi di euro. Il debito pubblico supera i 2000 miliardi. Quindi l'Italia non è a rischio di fallimento, ma a rischio di un... prelievo forzoso, in casi estremi. Tuttavia se il debito italiano è prevalentemente detenuto da banche italiane, e se la BCE è pronta ad intervenire in grande stile come sostiene Draghi, i casi estremi non dovrebbero verificarsi.
Ciò non significa però che alla Grecia non vada offerta una via d'uscita che permetta ai cittadini di vivere dignitosamente e contemporaneamente rientrare con gradualità da un debito ora insostenibile. Io penso che proprio l'Italia dovrebbe pronunciarsi su questo tema, considerando che siamo uno dei principali creditori, ed assumersi la responsabilità di una mediazione positiva.
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da repubblica.it
La crisi dell'euro? Un conflitto tra capitale e lavoro
di MAURIZIO RICCI
La crisi dell'euro? Un conflitto tra capitale e lavoro
Michael Pettis, economista, esperto di Wall Street e di Cina, professore di finanza all'Università di Pechino
ROMA - Come avrebbe giudicato Karl Marx la crisi dell’euro? Facile: come un conflitto fra capitale e lavoro. Più sorprendente è che questa sia ormai l'interpretazione più corrente fra gli economisti anglosassoni e che ad alzare il vessillo della lotta di classe siano ambienti vicini alla City londinese, con il Financial Times in prima fila. Il ministro tedesco delle Finanze, Schaueble, maltratta il collega greco, Varoufakis, spiega che la crisi ha fatto emergere paesi "responsabili e irresponsabili" e, comunque, i problemi della Grecia sono stati generati dalla Grecia e non, certo, dalla Germania? Tutte balle. Se qualcuno è stato tanto stupido da riempirsi di debiti - è l'obiezione ricorrente, da Krugman a Stiglitz all'ultimo blogger - è perché qualcuno è stato tanto stupido da prestargli tutti quei soldi.
Soprattutto, questo non è un confronto-scontro fra Germania e Grecia, fra paesi virtuosi e paesi neghittosi, fra chi ha fatto le riforme e chi non le ha fatte. Non è un conflitto nazionale, ma sociale: i lavoratori e le classi medie sia della Germania che della Grecia e degli altri paesi, contro gli azionisti e i creditori delle banche, cioè i capitalisti. Neanche Tsipras e Varoufakis sono così espliciti. La sintesi più lucida di questa intepretazione l'ha fatta un ex banchiere e professore di finanza, Michael Pettis e il Financial Times la rilancia con entusiasmo.
La spia, avverte il quotidiano della City, è la produttività. I politici tedeschi parlano molto di riforme e citano con orgoglio quelle che hanno fatto loro. Tuttavia, le riforme tedesche hanno clamorosamente fallito in quello che dovrebbe essere lo scopo principale: rilanciare la produttività. Fra il 1998 e il 2014, la produttività dei lavoratori tedeschi è cresciuta in media solo dello 0,6 per cento l'anno, un flop clamoroso, una performance peggiore non solo di Svezia e Usa, ma anche di Irlanda, Spagna e Grecia (il calcolo non include l'Italia): di fatto, la produttività tedesca dal 2007 ad oggi - riforme o no - è scesa. Cos'è successo, allora? Il punto chiave è la compressione dei salari avvenuta in Germania. I pingui profitti che ne sono risultati non sono stati investiti dalle aziende in Germania (come mostra l'andamento della produttività) ma sono stati parcheggiati nelle banche. E queste, non avendo occasione di impiego in patria, visto il ristagno degli investimenti, li hanno utilizzati all'estero, dove i tassi di interesse erano anche più interessanti.
Nasce qui il torrente di crediti tedeschi alla Spagna, alla Grecia, all'Irlanda, per finanziare soprattutto improbabili boom immobiliari. A finanziare quei boom sono stati le buste paga più magre dei lavoratori tedeschi. Quando poi è esplosa la crisi, a pagare non sono state le banche, i loro azionisti e i titolari delle loro obbligazioni (cioè chi aveva, a sua volta, prestato i soldi alle banche), dunque i capitalisti, ma i lavoratori dei paesi irrorati di crediti, con la disoccupazione di massa. E non è finita, avverte Pettis. Con quelle montagne di debiti, l'economia non può riprendere a svilupparsi. Basta guardare la Grecia che, oppressa dal pagamento degli interessi, non ha le risorse per incentivare la crescita. La strada segnata è quella di un lento assorbimento dei debiti. Ovvero, le banche risaneranno lentamente i loro conti, smaltendo quei crediti incagliati, in Grecia come in Spagna o in Portogallo, facendone pagare il costo alle classi medie, sia come depositanti, che come contribuenti.
E’ una rilettura dell'austerità, assai scomoda per la classe dirigente della Ue. Ancora più scomoda è la ricetta che ne scaturisce. In una cultura, come quella anglosassone, in cui la bancarotta è il primo passo per ripartire e non l'ultimo per uscire di scena, la crisi finirà quando sarà ristrutturato il debito. Tagliandolo, oppure con le idee creative (legare i titoli del debito alla crescita del Pil) proposte da Atene. Per radicali ex rivoluzionari, come Tsipras e Varoufakis, da Washington e da Londra scrosciano gli applausi.
(07 febbraio 2015)
"Dovremmo aver paura del capitalismo, non delle macchine".
(Stephen Hawking)