da pierodm il 22/12/2008, 10:39
Piatto ricco, mi ci ficco: interessante il modo in cui si sta sviluppando questo discorso.
Ha ragione Vittorio e ha ragione Franz, dato che economia, imprenditoria, partiti, tutto fa parte del fenomeno e tutti fanno sia la parte di causa sia la parte di effetto, in un'ovvia e complessa interazione che si sviluppa nel tempo.
Giusta anche la tesi che alla fine viene fuori da Franz, che cioè l'Italia moderna soffra di una storica deficienza di liberalismo: ma il difetto del discorso sta nel fatto che Franz ci arriva attraverso valutazioni molto discutibili.
Quello che possiamo fare qui, nei limiti pure ampi del forum, è solo accennare alla "storia", senza avere la pretesa di approfondire quanto sarebbe giusto l'argomento-principe di tanti discorsi sull'Italia, recente, antica o attuale che sia: la sua cultura civile, la formazione del suo tessuto sociale e la sua diversità geo-politica per cui in molte parti la storia italiana è in realtà la storia di qualcosa d'altro, che diventa "italiano" solo come degenerazione marginale - regni borbonici, impero austriaco, stato cattolico, provincia mediterranea dell'espansione britannica, retroterra dell'imperialismo francese, spazio di manovra dei regni spagnoli, arabi e ottomani, e infine territorio di confine della NATO nell'era americana.
In fondo Vittorio ha un buon intuito, quando teme che si debba riandare fino all'impero romano: gli eviterei il viaggio, ma non se ne può fare a meno, se si cerca chiarezza.
Fin dai tempi della tarda età imperiale, la storia d'Italia è la storia di varie degenerazioni: prima lo stato romano in sé, poi l'ascesa e la caduta dei regni barbarici, ognuno accompagnato da ascese momentanee e da ricadute, ogni volta un po' più in basso.
Ci sono alcune pagine - tre o quattro, ma fitte, ad interlinea uno - dell'opera del Gibbon sulla decadenza dell'Impero che riguardano questo periodo tardo imperiale, e che sono veramente sorprendenti: potrei citarle qui, e nessuno penserebbe che si stia parlando di sedici o diciassette secoli fa, data l'incredibile attualità del ritratto politico e sociale che ne viene fuori, di quell'Italia: corruzione, sudditanza della società civile, dilatazione abnorme della legiferazione, inefficienza della burocrazia, dismissione quasi assoluta del "senso delle istituzioni" da parte di coloro che scelgono l'attività politica, clientelismo, insomma tutto e qualcosa di più.
Ripercorrere l'itinerario che porta da allora fino ai tempi recenti è un'impresa eccessiva, ma un dato molto generale lo possiamo stabilire: l'assenza, in Italia, di uno stato unitario, o almeno di uno stato egemone - se non l'unico che possiamo considerare tale stiracchiando il concetto, cioè quello vaticano, con le implicazioni che abbiamo già trattato in altra sede.
La presenza di uno stato di questo tipo nel resto dell'Europa non ha impedito che si verificassero tutte le devianze possibili in queste nazioni, ma ha consentito che ci fossero le due condizioni necessarie per un'evoluzione relativamente positiva: la creazione di una coscienza e un interesse comune nazionale, e l'azione di un'autorità che governasse gli aggiustamenti secondo un criterio politico coerente.
Infine, alo scopo di un proseguimento del discorso, sarebbe bene abbandonare la contrapposizone tra politica ed economia o "morale", spostando o cancellando una o l'altra di queste categorie, o cercando una primogenitura dell'una sull'altra: nel concetto di "politica" dobbiamo comprendere tutto, se la categoria stessa vuole avere un senso. Se mettiamo da una parte l'economia, da un'altra la morale, da un'altra la fallibilità umana, etc, nella casella della politica non rimane niente - o tutt'al più un mucchietto di istituzioni o di "partiti" che nemmeno si capisce da dove vengano, o perché esistono o perché sono fatti così.