Mio figlio ucciso dall'Università dei baroni14 settembre 2010
Pur sopraffatto dall'immenso dolore per la scomparsa del figlio Norman, Claudio Zarcone trova la forza di parlare e di esprimere la sua rabbia contro un sistema che a suo dire ha armato la mano di suo figlio contro se stesso.
Norman (nella foto), 27 anni, si è gettato lunedì dal terrazzo della facoltà di Lettere e Filosofia dell'università di Palermo dove a dicembre avrebbe completato i tre anni di un dottorato di ricerca.
Claudio Zarcone si scaglia soprattutto contro i "baroni" dell'Università che fin dall'assegnazione della borsa avevano messo da parte Norman: «Ufficialmente sono pubblici, ma poi entra chi deve entrare. C'erano sette posti e mio figlio arrivò ottavo o nono, non ricordo. Entrò senza borsa ed è stato sempre trattato come l'ospite indesiderato. Mi raccontava che non aveva interlocutori, diceva:"nessuno mi caga, è un bordello non posso parlare con nessuno"».
Hanno detto chiaramente che per lui non ci sarebbe stato un futuro all'università e per quanto il padre provasse a consolarlo e ad essere ottimista, era consapevole che il meccanismo non lasciava scampo e che non contasse la meritocrazia. «Ultimamente mi hanno raccontato i suoi colleghi che Norman si sentiva addirittura un fallito - continua Claudio Zarcone - e ho la sensazione che negli ultimi giorni abbia parlato con qualcuno e che questo qualcuno gli abbia dato una risposta molto mortificante».
La morte di Norman non deve passare come un fatto di cronaca ma come il sintomo di un sistema, quello universitario che non funziona. Nessuno può dire a chi ha le capacità che non ci sono speranze. «Ho detto a tutte le agenzie di stampa che me l'hanno ammazzato, che hanno armato la sua mano. L'atto dimostrativo l'ha voluto fare gettandosi da quella facoltà che tanto amava. Adesso i professori diranno che non è vero, ma i fatti sono questi: mio figlio è dentro una bara. Non l'avrebbe fatto se qualcuno gli avesse dato un minimo di speranza. Vorrei dire ai ragazzi di fare una manifestazione perché queste cose non devono più accadere»
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