Il ritmo della tecno(crazia)
Non sono più gli ingegneri americani e tedeschi degli anni ’30. Quelli con la chiave a stella, per i quali si costruisce la società come si fa un ponte, con putrelle e fiorghe. Speer, l’architetto di Hitler, aveva visto giusto. La società tecnocratica, degli uffici amministrativi nazisti, viene sconfitta per iperspecializzazione e per invidia. Gli staff tecnici non si parlano tra loro, gli specialisti di diverse materie si odiano, i migliori vengono emarginati. Un essere umano non è un bullone, anche se qualcuno può pensare il contrario.
Sono arrivati gli accademici, a volte strapagati, come consulenti, per coprire le incapacità interne dei ministri. Quelli che hanno studiato. Che non hanno avuto il tempo di frequentare i corsi di canto e di portamento per fare la modella. Gente che è stata all’estero. E da lì ha avuto modo di guardare il nostro Paese, senza esserne immerso. Senza avere interessi elettorali: odiano stringere mani senza conoscere, promettere senza mantenere. I tecnocrati. Se prendi 10 e spendi 15 diventerai povero. Lo sanno, loro. E adesso non si parla, come sarebbe normale, delle cause delle loro decisioni emergenziali. Non si pensa a vent’anni di ipocrisia e falsità da parte di ogni istituzione politica e sociale che ha taciuto sulle dimensioni del cambiamento dei rapporti di produzione e delle conseguenze della globalità. I politici e i giornalisti continuavano ad usare la penna bic, a non saper bene come si usa internet. Intanto il mondo mutava faccia. Ci hanno guadagnato gli speculatori finanziari. Quelli che lo sapevano, come si usa internet.
Un Parlamento?
Walter Bagehot, giornalista ed economista dell’epoca vittoriana, con riferimento alla Camera dei comuni di metà del XIX secolo, classificava in modo affascinante le funzioni di un Parlamento democraticamente eletto (oscillando tra il descrittivo ed il prescrittivo): «il Parlamento deve eleggere un buon governo, fare buone leggi, educare bene la nazione, farsi correttamente interprete dei desideri della nazione, portare compiutamente i problemi all’attenzione del paese». Abbiamo quindi funzioni: elettorale, legislativa, pedagogica -fondamentale, in quanto i rappresentanti sono chiamati a incidere e a modificare la società: anzi, la Camera «deve migliorarla», insegnando «alla nazione ciò che non sa» – informativa ed espressiva delle opinioni degli elettori. Il parlamento in questo modo assolve alla sua funzione fondamentale: controlla il Governo.
Abbiamo avuto un parlamento che ha funzionato così negli ultimi sei anni? Ogni giorno è giorno di campagna elettorale. Le notizie, come commentate dai rappresentanti del popolo, non servono più a informare e a generare comportamenti consapevoli, ma a scatenare emozioni, come e più di una fiction televisiva. Il politico non decide più. Evoca, come uno stregone o un sacerdote tribale. Usa il fatto come simbolo. Lo mistifica ad uso della propria strategia per l’assunzione di consenso personale. Marine Le Pen, che sarà candidata alle presidenziali francesi, ha utilizzato uno spaventoso fatto di cronaca nera, l’uccisione efferata di un’adolescente da parte di un suo coetaneo, per promuovere il ritorno della pena di morte nella legislazione. Populismo senza un popolo, un insieme di cittadini adeguatamente informato e consapevole delle conseguenze di scelte legislative. Un cittadino che conosce, che sa e quindi partecipa ad un processo democratico continuo. C’è, invece, lo stregone della tribù che evoca il male e, di conseguenza, le soluzioni più semplicistiche ed emozionali per suscitare l’attenzione ed il consenso del suo pubblico, come un attore che vuole solo scatenare l’applauso: il cercare e ottenere I like it dal proprio seguito. Non si hanno più garanzie istituzionali e procedurali che permettano un controllo effettivo su quello che viene compiuto dal Governo, ma soltanto colpi di teatro finalizzati all’applauso. (O al corrispettivo moto d’orrore e di disgusto della parte avversa).
Questa è la fase attuale, che non poteva non essere notata da un giurista attento e sensibile come Gustavo Zagrebelsky, il quale, alla presenza del Presidente della Repubblica, ha pronunciato in un Convegno della Consulta sulla Costituzione repubblicana un intervento grave ed importante. In assenza di politica, di sintesi decisionale, c’è bisogno di una supplenza. Una supplenza che non determini la fine dei partiti e della democrazia, ma la sua momentanea convalescenza. Così si è espresso il giurista di fronte alla totale mancanza di decisioni che superino l’arco temporale del mese prossimo: «Poiché è poco probabile che nell’interesse della politica rientri anche la preoccupazione per le generazioni future, in quanto prevale un interesse momentaneo, credo che oggi si abbia bisogno di elementi di tecnocrazia». Di competenza, insomma. Di conoscenza di procedure, modelli, abilità nell’analisi dei dati, Visione previsionale. Qualità che la politica, sopratutto nella sua incapacità di formare una classe dirigente negli ultimi sette anni, ha dimostrato di non possedere.
Il paradosso della leadership
I parlamenti non hanno assolto alle loro funzioni. E allora si è pensato di sostituirli con il carisma del leader. Un errore grossolano. La democrazia, senza un parlamento efficace, privata della corretta dinamica istituzionale elettori – parlamento – governo, si è trasformata in un plebiscito mediatico quotidiano. Il contatto diretto è tra il capo del Governo ed il popolo. Che parla, discute, brontola. Opina. Sempre meno per strada, ma su Facebook, Twitter & Co. E non può funzionare, poiché le decisioni fondamentali sono globali, influenzano ambiti e settori diversissimi. Lo Stato non è un’azienda, un’associazione: non sta vendendo un prodotto.
Un leader deve avere un rapporto leale con gli altri organi costituzionali. Deve essere supportato da un Parlamento, non ricattarlo. Senza più mediazione politica, i leader occidentali sono diventati, a loro volta, ostaggio degli interessi particolari. Di holding, certo, banche, ma anche chiese, associazioni animaliste, gruppi di pressione relativi alle questioni biologiche. E soprattutto a quelle economiche. Il risultato? Non è più l’azione del politico a formare un’opinione, a generare un sondaggio, ma esattamente il contrario. Non si può dire che l’individuo sia sempre il miglior giudice di quello che è utile o dannoso per lui. Comportamenti compulsivi, dipendenze, modelli di proiezione del comportamento sono connaturati alla vita di tutti i giorni. Diabetici, obesi che continuano ad adorare i dolci. Alcolisti, tabagisti, tossicodipendenti non fanno quello che è sano per loro: ma continuano a farlo.
Una forma di governo non può dipendere, durante il tempo della legislatura, dalla volontà del singolo, né dalla semplice somma algebrica delle volontà individuali. Ma, soprattutto, nessuna forma di governo politico può esistere esitando per ogni inarcamento di ciglia dell’opinione popolare. Relazionarsi, accogliere informazioni, richieste: un compito gestionale e amministrativo importante. Ma le decisioni politiche non possono solo dipendere dagli interessi giornalieri, singolari o di parte. La politica deve poter immaginare e realizzare strategie di medio-lungo periodo, programmare a dieci, venti anni. Non è un telefono cellulare, uno strumento tecnologico che diventa obsoleto dopo pochi mesi. Questa è la crisi. La crisi delle decisioni, dei progetti, la crisi di un’idea di futuro, di un progetto esistenziale e identitario che costituisca un elemento storico. Da criticare, aggiornare, promuovere. Crederci. Purché esista.
La democrazia sospesa.
Chi guarda spesso dottor House lo sa bene: a un certo punto bisogna intervenire. Si manda il paziente in coma farmacologico per capire, per individuare le cause della patologia e curarlo. Ed è esattamente questo che sta accadendo alla democrazia occidentale. Gli esperti, i tecnocrati, si sostituiscono ai politici. Il governo dei Custodi, come voleva Platone. Ma anche questa non è una soluzione che può essere protratta per molto tempo. «Ogni decisione politica importante, che sia personale o di governo, implica dei giudizi etici di valore. Prendere una decisione sui fini che le politiche di governo tenderanno a raggiungere – la giustizia, l’equità, la felicità, la salute, la sicurezza, la sopravvivenza, il benessere, l’uguaglianza e simili significa formulare un giudizio etico. E i giudizi etici non sono giudizi scientifici. Inoltre, i fini giusti sono spesso in conflitto l’uno con l’altro e le risorse sono limitate. Di conseguenza, le decisioni politiche, personali o di governo, richiedono quasi sempre giudizi di transazione, ovvero un compromesso tra fini diversi. I giudizi di transazione fra fini diversi non sono scientifici». Questo ce lo ricorda il politologo Robert. A. Dahl, in Sulla democrazia. Mi sembra invece che i partiti politici, i principali responsabili della deriva della democrazia alla quale si assiste, non lo abbiano ben capito. Criticano. Commentano. Dibattono, illustrando i loro desideri di livello altissimo. Così come Paul Krugman, dall’alto dei suoi ottimi consigli che nessuno ha seguito. Dalla consapevolezza che i titoli tossici americani li hanno acquistati le banche europee, per creare l’illusione della ricchezza. E gli illusi, ora, protestano, piantando tende e intonando canti, coi bonghi, a Wall Street, (mica davanti alla Casa Bianca).
Un buon consiglio, soprattutto se non ascoltato, non costa nulla.
Intanto i partiti nostrani lasciano fare lo sporco lavoro ai tecnocrati. Per poi tornare in campagna elettorale.
Finché non cambierà il ritmo. La marcia, come sappiamo, in qualsiasi forma, non è mai piacevole.
Massimo Ribaudo
@valigiablu – riproduzione consigliata
http://www.valigiablu.it/doc/667/il-rit ... crazia.htm