Qui mi vogliono far fuori
Prodi tra i ricatti di Bertinotti e i complotti della Margherita
SEBASTIANO MESSINA
ROMA - La mattina dell' 8 giugno 2005, dunque prima delle primarie che gli affideranno la candidatura a Palazzo Chigi, Romano Prodi convoca d' urgenza il suo staff in piazza Santi Apostoli. Ha pessime notizie: «Fassino - racconta - mi ha detto sconcertato che tutti quelli della Margherita con cui parla gli dicono che vogliono farmi fuori. Mi ha fatto i nomi di De Mita, Rutelli, Marini, Franceschini e Gentiloni». Che alla vigilia delle primarie un pezzo dell' Ulivo non fosse entusiasta della ricandidatura del Professore, era noto. I nomi, però, non erano mai venuti a galla. Li rivela il giornalista Rodolfo Brancoli, già direttore del Tg1, che nell' ultimo biennio di potere di Prodi è stato uno dei suoi consiglieri e oggi - come «persona informata dei fatti» - ha deciso di raccontare quei tormentatissimi mesi in un libro: «Fine corsa. Le sinistre italiane dal governo al suicidio» (Garzanti, euro 16,50). E' dunque un diario dal fronte, quello di Brancoli, ma anche il tentativo di analizzare - da un punto di vista dichiaratamente prodiano ma con il distacco di un giornalista di lungo corso - le ragioni del fallimento, della crisi e della rovinosa caduta del governo dell' Unione. Ragioni che Brancoli individua nella sfortunata coincidenza dell' ultimo governo Prodicon tre processi di cui non c' era traccia nella prima esperienza del 1996: la «ri-proporzionalizzazione» della politica italiana, la «ri-clericalizzazione» della Chiesa e la «ri-ideologizzazione» della politica internazionale. Tutto sarebbe andato in un altro modo, commenta Brancoli, se l' Ulivo avesse saputo cogliere l' occasione storica offerta dal referendum elettorale del 1999, quello sull' abolizione definitiva delle quote proporzionali. Allora stravinsero i sì (91 per cento) ma con i voti del 49,7 per cento degli elettori: e fu proprio il mancato raggiungimento del quorum a rilanciare i proporzionalisti. «Torno sempre a quella sera - dice Romano Prodi a Brancoli - in cui sembrava che avessimo vinto, e invece avevamo perso». Ma il libro racconta anche molti episodi inediti. Eccone alcuni. «Vogliono farmi perdere». Alla vigilia delle elezioni del 2006, Prodi cerca - inutilmente - di convincere Rutelli e Fassino a presentare anche al Senato liste dell' Ulivo. Quando però affiora il rischio di una sconfitta a Palazzo Madama (dove poi il governo cadrà) il Professore lancia l' idea di «liste del presidente» nelle quattro regioni decisiva (Piemonte, Veneto, Lombardia e Friuli). Rutelli però è contrario. «Non se ne parla proprio» gli risponde Fioroni, potente dirigente della Margherita. Prodi è furioso: «Questi mi vogliono far perdere». L' aut-aut di Bertinotti. Prima di formare il governo, c' è da sciogliere il nodo delle presidenze delle Camere. Un nodo che Fausto Bertinotti taglia in modo netto: il 21 aprile va da Prodi e gli chiede la presidenza di Montecitorio o in subordine il ministero degli Esteri. Altrimenti, avverte, Rifondazione passerà all' appoggio esterno, facendo saltare la coalizione. «Un metodo - commenta Brancoli - su cui il procuratore capo di Santa Maria Capua Vetere avrebbe potuto dire la sua». La carica dei 101. Non saranno troppi 101 ministri, viceministri e sottosegretari? Non potevo farne a meno, risponde il presidente del Consiglio a Brancoli. «E questa volta i partiti mi hanno imposto anche i nomi». «Caro Silvio», «Caro Romano». Non è vero che tra Prodi e Berlusconi non ci siano stati contatti diretti. Il Cavaliere, che ce l' aveva con l' Udc, sapeva che ancheProdi aveva il problema dei partitini. «Che gabbia di matti dobbiamo gestire io e te» gli dice una volta. Poi, il 26 luglio 2006, dopo aver aspettato inutilmente la telefonata del rivale sconfitto, è Prodi a chiamare il leader dell' opposizione per informarlo sulla conferenza per il Libano. Il dialogo è breve ma quasi amichevole. Berlusconi: «Romano...». Prodi: «Silvio...». B.: «Anche tu hai i tuoi matti». P.: «A volte con i matti ci si diverte». B.: «Mi fa piacere vedere che la prendi così». P.: «Volevo informarti delle conclusioni della conferenza». B.: «Complimenti sinceri, sono a tua disposizione. Mi piacerebbe che ci fosse un clima diverso. (...). Grazie, buon lavoro di cuore». Al di là della cordialità diplomatica, Prodi ha però una pessima opinione del Cavaliere: «Quest' uomo è un mentitore congenito!». La mossa di Veltroni. Quando il segretario del Pd lancia la sua riforma elettorale, Prodi avvista il pericolo. E il 2 dicembre, davanti al vertice del partito, dice a Veltroni: «Guarda che con la tua riforma i partiti piccoli faranno fuori il governo, e se mi tolgono il sostegno è finita». Qualche giorno dopo, Mastella piomba nello studio del presidente del Consiglio gridando, alterato: «Se mi vogliono fare il culo, ve lo faccio prima io». «Era fuori di sé» commenta Prodi quando il ministro se ne va. Quando il segretario del Partito democratico rompe con i partiti minori, il Professore tiene per sé il suo dissenso. Ma una settimana prima del voto confiderà all' amico giornalista quello che pensa davvero di Veltroni: «Avendo scelto di dimenticare quindici anni, si è comportato personalmente bene. Ma ha prodotto una frattura che in quei termini non era necessaria». L' attacco dei vescovi. Nel giorno in cui si apre la crisi di governo, il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, attacca pubblicamente il governo per l' inadeguatezza delle misure per gli incapienti. Il presidente del Consiglio, furibondo, telefona al cardinale: «Ora mi dettate anche la Finanziaria? E quando agli incapienti non si dava niente non avevate nulla da dire?». La caduta. Dopo le dimissioni, Prodi si sfoga con Brancoli: «Ognuno ha giocato per il suo piccolo interesse. Quasi mai è prevalso l' interesse generale, nessuno ha difeso la coalizione».