Dal dittatore al capomafia
30 agosto 2011
- di Rino Giacalone -
Viaggio di un titolo bancario dall’Oriente sino al boss Matteo Messina Denaro
Dagli omicidi agli affari dell’alta finanza. Mentre c’è chi è convinto che la mafia non esiste più (ma talvolta la dichiarazione è fatta come “Cicero pro domo sua”) Cosa nostra rinnova l’alleanza con le altre mafie, con la ‘ndragheta, e in particolare con le ndrine “Fazzalari Viola Avignone” e per poco non gli riesce mettere le mani su un titolo bancario da 870 milioni di dollari. Tanto valeva nel 1961 quando una banca svizzera lo emise in favore di un monsignore, ora deceduto, per disposizione dell’allora dittatore indonesiano Kusno Sosrodihardj, detto “Sukarno”; oggi, con l’aggiornamento del valore della moneta statunitense quel titolo varrebbe 39 miliardi di dollari, ben 45 volte di più rispetto a 50 anni addietro. Un titolo di credito finito in mani sicure e nella cassaforte della Dda di Reggio Calabria, fu sequestrato dalla Guardia di Finanza nel 2009 a due boss della ’ndragheta nel corso di una operazione antidroga. La Procura antimafia di Reggio Calabria, indagine firmata dal procuratore Pignatone, dall’aggiunto Nicola Gratteri e dal pm Sara Ombra, ha però avviato una indagine per capirne di più su quel titolo di credito, e nei primi di agosto con l’operazione denominata “Re Artù” sono finite in manette 20 persone, anche insospettabili professionisti come un consulente finanziario ed una giovane avvocato di Modena. Quando nel 2009 quel certificato finanziario fu sequestrato era lì per lì per essere trasformato in moneta sonante, denaro liquido, al Banco di Sicilia dove gli emissari, anche loro insospettabili, del latitante Matteo Messina Denaro, che non era nemmeno nato quando il certificato fu rilasciato dalla banca svizzera presso la quale era stato definito, avrebbero trovato precisi interlocutori convinti ad acquistare quel titolo: ora secondo la Procura antimafia calabrese il documento sarebbe un falso, da qui l’accusa anche di falso, assieme a quelle di associazione mafiosa e riciclaggio contestate in generale agli indagati, ma secondo il gip calabrese, giudice Silvana Grasso, che ha emesso l’ordinanza il certificato di deposito non sarebbe per nulla un falso, ma incredibilmente vero. Un titolo finanziario in oro da 870 milioni di dollari – 39 miliardi di dollari oggi – prima di arrivare a Palermo, al Banco di Sicilia, aveva fatto il giro di tanti istituti di credito, cominciando dalla banca svizzera che lo aveva emesso per finire con lo Ior del Vaticano.
La storia del titolo di credito è vera. A parte la circostanza da appurare se quello trovato in mano ai boss della ‘ndragheta sia vero o falso, nel 1961, un titolo di credito preciso preciso a quello sequestrato nel 2009, fu emesso per ordine del dittatore indonesiano, ricompensa messa a disposizione di un monsignore, Domenico Ferrazzo, deceduto nel 2003, che durante una delle rivolte indonesiane salvò “Sukarmo”. In punto di morte quel prete consegnò il titolo di credito alla sua “badante” e poi questa lo consegnò al figlio, tale Nino Galati, calabrese, anche lui tra gli arrestati dell’operazione “Re Artù”. L’indagine prese avvio nel settembre 2009 con un sequestro della Guardia di Finanza, che presso soggetti che sarebbero stati vicini alle cosche di Taurianova trovò il titolo intestato dell’ex dittatore indonesiano. Tra i detentori di quel documento ci sarebbe stato Nino Napoli,«ritenuto un affiliato alla cosca Longo – Versace di Polistena, da lui le fiamme gialle sono risaliti al modenese Paolo Baccarini, promotore finanziario, è lui secondo il gip a trovare un notaio per fare l’autentica del titolo, così che la trattativa con le banche può andare avanti tenendo in luogo segreto l’originale del certificato emesso dalla banca elveticane Credit Suisse. Da Baccarini il filo dell’indagine ha portato all’ avvocatessa di Modena, Daniela Rozzi, che è risultata intestatari di una procura nell’ambito di una delle tante trattative bancarie “intercettate” dalla Finanza, secondo il gip lei non era all’oscuro di nulla se più volte sarebbe stata sentita chiedere all’amico Baccarini “se da quel lavoro avrebbero guadagnato qualcosa”; «Una valanga» le diceva Baccarini. La ‘ndragheta strada facendo, comprendendo che da sola non ce la avrebbe fatta a “intascare” non tanto il corrispettivo del titolo di credito, ma comunque una ottima e abbondante somma di denaro, ha coinvolto la mafia, rinnovando quella alleanza che dura da decenni e sulla quale sono “fioriti” ingenti traffici di droga. Ed è ad un narcotrafficante che la ‘ndragheta si rivolge, a quel Salvatore Miceli, boss di Salemi, che all’epoca risiedeva, da super ricercato in Italia, in Sud America, muovendosi da Colombia e Venezuela dove i carabinieri di Trapani sono andati ad arrestarlo nel giugno 2009, mettendo fine alla sua latitanza. Miceli sarebbe stato contatto dai boss delle ndrine dopo l’autorizzazione concessa da Matteo Messina Denaro, anche lui pronto a spartirsi il bottino.
Agli arresti domiciliari è finita Daniela Rozzi, 42 anni, di Modena, in cella Paolo Baccarini e con lui Vincenzo Andronaco, 38 anni, Rocco Arena, 41, Vincenzo Dattilo, 55, Michele Fidale, 50, Francesco e Rocco Santo Filippone, 31 e 71, Antonino Galasso, 59, Nicola Galati, 53, Francesco Grupico, 44, Antonino Napoli, 57, Alessio Vincenzo Rovitti, 37, Carmelo Sposato, 37, Giuseppe Sposato, 46, Antonio Surace, 34, e Rocco Ursino, 51.Ed ancora i trapanesi Andrea e Salvatore Angelo, 34 anni e 62 anni, e il palermitano Antonio Drago, 54 anni. Ma cos’altro racconta l’indagine? Dice certamente che la mafia, anzi le mafie, non hanno fatto passi indietro, ma compiono ogni giorno passi in avanti. Perché se in questo caso l’operazione finanziaria è stata bloccata, altre operazioni finanziarie, confermano gli investigatori delle Fiamme Gialle, sono state condotte a buon fine. Nell’inchiesta “Re Artù” ci sarebbero tracce di altre transazioni concluse e quindi ndragheta e Cosa nostra hanno intascato “cospicue somme di denaro”. Altre indagini, in Sicilia, come in altre Regioni, contro le organizzazioni mafiose, confermano di riciclaggi compiuti dentro aziende e attività commerciali e turistiche, indagini condotte nel trapanese hanno messo in luce come la mafia di Matteo Messina Denaro è stata capace di intascare anche finanziamenti pubblici. Una mafia che è semrpe di più fatta da “colletti bianchi”, professionisti, niente più coppole e lupare, ma grisaglie e valigette 24 ore, uomini che stanno seduti su poltrone importanti, oppure manager che non si fanno scrupoli se professionisti si presentano a loro chiedendo di trattare transazioni per titoli di credito come quello sequestrato dalla magistratura calabrese, circostanza che porta il procuratore Giuseppe Pignatone a evidenziare come :”le trattative intavolate con le banche ci fanno porre alcune domande sul rischio di collusione o di una ingenuità eccezionale da parte dei funzionari bancari”. Il procuratore aggiunto Nicola Gratteri ha aggiunto,” davanti ad una somma così ingente non sarebbe dovuto accadere che alcuni funzionari di banca, senza battere ciglio, cominciassero a trattare ed a discutere la negoziazione del titolo”.
C’è solo questo da dire? No, c’è anche altro. Le organizzazioni criminali stanno rinnovando le loro alleanze che si sono create negli anni per trafficare in droga e in armi, per decidere strategie terroristiche, per compiere delitti scambiandosi favori. Questi accordi oggi vengono fatti guardando alla grande economia, è notorio come la crisi economica in atto tocca tanti ma non i potenti, certamente dà una mano alle mafie che così muovendosi nell’ombra possono offrire i loro servigi usando il denaro tenuto nelle segrete casseforti. Ed allora servirebbe alzare la guardia contro i trasferimenti di capitali, i movimenti di denaro, il riciclaggio, ma nell’agenda di Governo è facile semmai trovare interventi che aiutano le mafie. E il super boss Matteo Messina Denaro sentitamente ringrazia anche a nome dei capi delle altre mafie.
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