Sempre più difficile fare impresa in Italia, tra gli stati Ue fa peggio solo la Grecia
di Attilio Geroni 4 novembre 2010
Fare impresa in Italia è (un pochino) più difficile che fare impresa in Cina. Parola di Banca mondiale, che nell'ultimo rapporto Doing Business confina il nostro paese all'80esimo posto della classifica internazionale. Penultimo tra gli stati membri della Ue, davanti solo alla Grecia, appena meglio dell'Albania e in arretramento di quattro posizioni rispetto all'anno scorso. Lontana perfino dall'apparente mediocrità del Ruanda (58° ma con tanta buona volontà perché l'anno scorso era 70°) e della Bulgaria, stabile al 51°.
Ma che cosa significa poter fare impresa secondo i canoni dell'International finance corporation (Ifc), il braccio della World Bank che opera col settore privato ed è autore del rapporto? E perché l'Italia è messa così male, a distanza preoccupante anche dai concorrenti diretti come Germania e Francia, rispettivamente al 22° e al 26° posto, per non parlare del plotone di testa formato da Singapore, Hong Kong e Nuova Zelanda?
In un contesto internazionale, aprire, gestire e chiudere un'attività economica nel nostro paese richiede ancora lo sforzo di chi cammina controvento e fa lo slalom al tempo stesso, considerando che stiamo parlando della quinta economia manifatturiera al mondo e del secondo esportatore europeo.
In generale, gli elementi microeconomici esaminati dall'Ifc riguardano gli aspetti procedurali della creazione di un'impresa, con relativi costi d'avviamento e tempi; gli iter per l'ottenimento delle licenze edilizie; la facilità o meno di registrazione della proprietà; l'accesso al credito; le modalità per il pagamento delle imposte e la loro incidenza sul reddito prodotto; il rispetto dei contratti; la capacità di commerciare con l'estero; l'efficienza delle norme che regolano la cessazione di un'attività; la flessibilità del mercato del lavoro.
Nella media ponderata di questi fattori l'Italia non ha compiuto grandi progressi rispetto al rapporto precedente, anche se si è evitato il "microimmobilismo" grazie all'istituzione, nell'aprile scorso, del registro telematico delle imprese.
Colpa della crisi, si dirà, che ha scompaginato l'agenda delle priorità politiche. No. Per intere aree macroeconomiche, Europa dell'Est e Asia Centrale in testa, essa è stata l'occasione per accelerare quelle riforme capaci di rendere la vita meno dura soprattutto alle Pmi, le più esposte alla terribile mutazione genetica subìta dal collasso della finanza nel 2007-2008. «L'85% delle economie di questa zona, tra il 2009 e il 2010 ha realizzato almeno una delle riforme elencate nel rapporto», dice Sylvia Solf, coordinatrice dello studio. «Mentre alcuni paesi sono stati colpiti più duramente di altri dalla crisi – continua l'economista dell'Ifc – la difficoltà o la facilità di avviare e condurre un'attività economica, il rafforzamento della trasparenza e dei diritti di proprietà, il miglioramento dell'efficienza delle dispute commerciali o delle procedure d'insolvenza, possono influenzare il modo in cui le aziende reagiscono alla crisi e riescono a cogliere le nuove opportunità di crescita».
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