flaviomob ha scritto:Si produce a certi ritmi e a certi costi: benissimo, è il liberismo. A questo punto perché mantenere le fabbriche in Italia, se in Serbia, a pari ritmo (e qualità) un operaio guadagna 400 euro al mese? O in Cina magari la metà?
Chiudiamo tutto, domani.
Vorrei aggiungere alcune considerazioni oltre alla risposta data ieri.
Io ritengo del tutto normale che molte attività economiche nascano in paesi che prima erano privi di sviluppo.
E trovo del tutto normale che sull'onda di una pura convenienza di mercato (costi di produzione inferiore, a parità di qualità ed anzi, se l'impianto è nuovo, a qualità superiore) molte aziende si spostino dal paese A al paese B.
L'opzione di spostare tutto pero' non funziona e per spiegarlo basta un modellino semplice semplice.
Prendiamo un pianeta fatto solo da due nazioni. A e B, per l'appunto.
Se tutte le produzioni, i beni (alimentari ed industriali) fossero prodotti nel paese A in quanto convenienti, questo paese potrebbe esportare nel paese B. Ma con quali soldi B compra quei prodotti se B non prodce nulla? B li puo' comprare se nel frattempo produce qualche cosa di interessante per A. Si chiama "scambio commerciale". Prevede una sostanziale parità di bilancio, pena alcuni effetti spiecevoli riguardanti l'apprezzamento o il deprezzamento della moneta (che tende a riequilibrare il valore delle partite commerciali). Quindi se siamo in un'ottica di scambio, perché A produce bene cose che servono a B (e B non sa fare oppure sa fare ad un costo elevato) per forza di cose B deve attrezzarsi per fare bene cose che servano ad A, perché A non le sa fare oppure perché se le fa le fa ad un prezzo superiore oppure ad un rapporto qualità prezzo peggiore rispetto all'altro paese. B quindi deve attrezzarsi anche lui a produrre bene ed in modo economico.
Ora possiamo complicare leggermente il modello, aggiungendo un terzo paese: C
In questo caso A ora non è obbligato a commerciare solo con B ma puo' scegliere se farlo piu' con B che con C.
In realtà non sceglie il paese (a meno che non sia una dittatura in cui l'economia è strettamente sotto controllo pubblico) ma scelgono i consumatori e gli uffici acquisti delle aziende. Il consumatore del paese A, insoddisfatto della qualità o del prezzo delle scarpe prodotte nel suio paese, puo' confrantoare qualità e prezzo delle scarpe prodotte da B e da C. Anche B e C possono trovare convenienza a commerciare tra loro. Il concetto (aggiungendo paesi fino ad arrivare alle centinaia della nostra realtà) è che ogni nazione deve avere alcune ottimalità, appetibili per qualità e/o prezzo, da scambiare con le ottimalità altrui. Questo non è un'operazione a somma zero ma produce valore agggiunto. La germania esporta merci per un ammontare pari al 35% del PIL. Sono quindi il 35% piu' ricchi di quanto sarebbero se non esportassero; lavorano il 35% di operai in piu'. Se possono comprare una panda a 8000 euro fatta in polonia invece di 12'000 fatta in Italia, possono usare i 4'000 risparmiati per altre cose. Anche gli operai polacchi, con lo stipendio preso, possono spendere soldi per merce italiana, tedesca o polacca. Il nostro compito è quindi produrre qualche cosa di appetibile per noi e per gli altri. Insomma ci tocca lavorare duramente. Se non abbiamo idee di qualità (che ci permettono di produrre pochi beni di grande valore) allora dobbiamo puntare sulla quantità ed il basso prezzo, ma qui non credo che possiamo competere con la Cina e con gli altri emergenti.
La strada maestra è quindi quella già seguita da paesi con un alto costo del lavoro: produzioni di alto valore aggiunto.
Il nostro problema è che la struttura formativa e professionale della nostra manodopera è inadeguata a questo obiettivo e che per ricuperare il terreno perso ci vognono come minimo 20 anni, durante i quali gli altri paesi non statanno fermi.
Ecco perché ora servono riforme importanti e cruciali.
Franz