da pierodm il 29/08/2008, 2:00
Cara Annalu, neanche il mio giudizio cambia le sorti del paese, e questo mi mette tranquillo.
Sarei meno tranquillo, invece, se ricoprissi o avessi ricoperto una carica pubblica, e peggio che mai quella di leader di partito: i miei giudizi, le mie azioni e omissioni mi farebbero certamente stare poco sereno ... a meno di non non avere quella dote che spesso mostrano i politici di perdonare se stessi con grande generosità per i propri errori e di esaltare qualche risultato che hanno raggiunto.
Venendo a noi, è chiaro che lo scopo non è quello di giudicare Prodi in se stesso, ma di ragionare intorno al modo con il quale si giudica la politica.
Quando ho usato i termini di "militanti" e di "peones" sapevo esattamente quello che facevo.
L'obiettivo non era quello di classificare le persone, ma di sottolineare uno status, o meglio, due distinti status: quello di chi, militando, sceglie un punto di vista, una fazione, ed è portato a difenderne i leader, e quello di chi è comune cittadino senza particolari poteri e s'immedesima in un leader che di potere ne ha, sposandone in buona fede e con sincera determinazione la figura, facendo di questa scelta una questione non di militanza ma di pura opinione.
Nella mia definizione c'è sicuramente polemica, ma altrettanto certamente non c'è disprezzo: semmai c'è l'embrione di un discorso che riguarda l'effettivo potere che hanno le persone rispetto alla politica e agli organigrammi di partito, e rispetto alle scelte di questi, al problema della rappresentanza, etc.
Personalmente sono, con tutta evidenza, nella schiera dei peones, così come per lunghi (intermittenti) tratti sono stato in quella dei militanti, pur non riuscendo mai a riconoscermi in un leader che mi entusiasmasse pienamente.
Ma questa è autobiografia, e nelle autobiografie la verità individuale e la passione possono benissimo convivere con i limiti e gli errori più gravi: la famosa "condizione umana", alla quale si appellano perfino i ragazzi che scelsero Salò.
E' vero: il termine "fatti" significa "risultati", e infatti proprio ai risultati mi riferivo nella mia valutazione del consolato di Prodi, e li ho elencati sia pure in sintesi esemplificativa.
A cercare bene, di risultati diversi e variegati se ne trovano altri, sicuramente più positivi, per qualunque governo e per qualunque partito o personaggio: alla fine ci si ritrova a sommare e sottrarre le mele con le pere, ossia "fatti" diversi e su piani diversi.
Bisogna quindi sapere che cosa stiamo cercando, e su quale piano ci stiamo muovendo.
Nel dare la mia valutazione, ho guardato i "risultati" politici: lo stato della coalizione, il panorama politico italiano, la prevalenza di alcune idee diffuse, la consistenza, la natura e l'impatto effettivo di alcune direttrici di marcia e di alcune riforme, e infine le omissioni.
L'Italia non è migliore, e non sta meglio oggi, di quanto non stesse dieci anni fa, e lo stesso vale per la parte progressista di questo paese - tanto per essere eufemistici.
Tu dici: "si può discutere a volontà se i risultati siano o meno rilevanti, se le azioni compiute fossero adatte agli scopi... ", ed è appunto questo che facciamo. Ma che senso ha fare questo, se non per determinare la natura e la qualità dei "fatti"?
Se i fatti accertati sono importanti, e le omissioni poche o marginali, allora è giusto che siano evocati a difesa del leader di turno.
Se non lo sono, mentre prevalgono le omissioni o gli errori, allora i fatti risultano a carico del leader.
Succede però che esiste un vezzo, quello di discutere tirando fuori dal cappello questo concetto dei "fatti", come una specie di spada di Brenno: un espediente che viene perfino spiegato nei manuali del buon manager, quando si trova in una riunione - trattare i convenuti da chiacchieroni, o almeno lasciar intendere che questo è il rischio, mettendo in campo lo spauracchio intellettuale dei "fatti", e chi lo dice per primo è come se solo lui avesse questa magica e decisiva visione propsttica della realtà.
Ecco, questo è il "fattismo". Un espediente dialettico, così come è un espediente dialettico l'accusa di "disfattismo" che viene lanciata come una volta si accusavano le donne scomode di stregoneria.
Tu dici anche: "a meno che tu non voglia intendere che nessun risultato concreto ha valore se non nella luce di una prospettiva ideale del genere "sol dell'avvenire ".
Qui siamo nella solita, estenuante diatriba sull'utopia e sui piccoli passi.
A me sembra che, intanto, il nostro paese e la situazione politica siano assai lontani dalla Città del Sole, e per certi versi somigli più ad un incubo che ad un sogno utopico: quindi vedere la situazione com'è non è un esercizio da sognatori insoddisfatti, ma un semplice, modestissimo atto di realismo.
In dettaglio, i risultati concreti hanno il valore che deriva dai loro effetti, e dalle conseguenze che determinano, oltre che dal quadro generale in cui si collocano: non basta che i piedi facciano un piccolo passo perché questo abbia un valore comunque importante.
Inoltre la politica, specialmente se giudichiamo un leader o un partito, non è l'esercizio di fine corso di una ballerinetta, che giustamente merita un applauso quando fa del suo meglio.
Fare bene qualcosa, laddove si dovrebbero far bene un centinaio di cose diverse, e in un quadro dove cento buone azioni sarebbero appena sufficienti a tenere il naso fuori dall'acqua, è un risultato miserevole.
Riocordo che da ragazziono mi colpì una paginetta di Topolino, dove Pippo si trovava di fronte ad un tronco con un coltello in mano, e cominciava a scheggiarlo: vignetta dopo vignetta, i trucioli aumentavano e il tronco si affinava sempre di più, fino a che Pippo ottenne un meraviglioso stuzzicadenti. Con grande soddisfazione: bravo Pippo, che bella cosa che
hai "fatto"!
Infine parliamo della comunicazione, non dimenticando che stiamo parlando di un leader, un presidente del consiglio, non di un ministro, di un semplice parlamentare o di un grand commis.
Cominciamo col dire che io - come tanti altri - abbiamo votato perfino per Rutelli: quindi il fatto che Prodi abbia preso voti non significa praticamente niente, anche per questo profilo comunicativo.
Al contrario di una ormai ampiamente smentita retorica democraticistica, il voto vale per un giudizio su chi lo dà, più che su chi lo riceve - specialmente in un sistema politico come il nostro.
Inoltre, nel giudicare Prodi un comunicatore mediocre non si fa - nessuno intende fare - un automatico paragone con Berlusconi, il quale tra l'altro non è affatto quel grande comunicatore che tutti si affannano a proclamare: diciamo che nello stile sono due opposti estremismi di mediocrità. Chiudendo gli occhi, Prodi dà meno fastidio, perché si sente di meno.
Succede però che Berlusconi, buono o cattivo comunicatore che sia, piace al suo pubblico, e in fin dei conti le cose che deve dire le dice, oltre a dirne tante altre che non dovrebbe nemmeno pensare.
Ora, io appartengo al numero di quelli che hanno avversato fin dal primo momento la personalizzazione della politica, e dunque al peso che le doti individuali hanno nel confronto: ma non sono né cieco, nè irrealistico, e quindi - una volta che il sistema è diventato questo, anche ad opera di Prodi - ha le sue regole, la sua logica.
In questa logica "comunicare" è essenziale: non tanto per governare o per elaborare progetti di riforma (nessuno è così scemo da pensare che si studia "comunicando"), ma per competere, per far conoscere il proprio pensiero, per convincere, e insomma per fare tutte quelle cose che non spettano ad uno studioso, ma spettano pesantemnte ad uno che vuole essere "leader".
Certamente, poi, ognuno di noi ha le proprie preferenze, e non è escluso che anche un dibattito muto possa piacere, o possa piacere un mormorìo confessionale, o una totale assenza di vis polemica, tanto quanto può piacere uno che manda affanculo l'avversario come fa Grillo, o uno che fa le boccacce. Se siamo al punto di dover scegliere tra questi estremi, siamo messi male: e infatti siamo messi male.
Tutto sommato, anch'io mi accontento, come mi sono sempre accontentato, perfino al tempo delle Belle Bandiere.
Ma mi vorrei accontentare di qualcosa di più, non tanto perché "mi piace", ma perché mi convince con i fatti, con i risultati politici.
Accontentarsi di quello che siamo oggi, dimenticando come ci siamo arrivati e ad opera di chi, è da masochisti. Io credo.