da ranvit il 01/11/2009, 11:41
Da ilmattino.it di ieri 31/10/09 :
Sarebbe riduttivo leggere come un episodio interno ai difficili equilibri del centrodestra la decisione a sorpresa del presidente della Camera: che ha mandato i deputati in vacanza per una settimana, risultando l’attività legislativa paralizzata dai veti opposti dal governo ad alcune leggi, causa mancata copertura finanziaria.
In realtà, la mossa di Fini ha il merito di mettere a nudo un problema che non nasce certo oggi e che non riguarda solo l'Italia: ovvero i rapporti fra governo e camere in un regime parlamentare, quello in cui esiste un indissolubile rapporto fiduciario fra maggioranza ed esecutivo.
In teoria questo sistema dovrebbe assicurare il primato al potere legislativo, da cui l’esecutivo trae la sua legittimazione (infatti il governo entra nella pienezza dei suoi poteri solo dopo la fiducia del Parlamento e cade se questa viene meno).
È infatti in nome di questo primato - e contro ogni possibile prevaricazione dei sovrani, originariamente titolari del potere esecutivo - che il sistema è nato (in Gran Bretagna) e si è poi affermato in buona parte dell’Europa come sicuro presidio delle pubbliche libertà e del rispetto della sovranità popolare, che proprio nel Parlamento trova la sua espressione più autentica.
Così pensavano i teorici della democrazia. E così pensarono i padri costituenti quando disegnarono per la Repubblica italiana un impianto tipicamente parlamentare. Questo in teoria.
Di fatto è accaduto però che proprio quei sistemi nati per esaltare il ruolo del Parlamento abbiano spesso finito col deprimerlo e marginalizzarlo.
La ragione è presto spiegata.
Se governo e maggioranza parlamentare hanno la stessa fonte di legittimazione (le elezioni politiche) e sono legati a uno stesso destino, è fatale che l’unica alternativa a un impraticabile regime assembleare sia il primato dell’esecutivo. Esecutivo che tenderà inevitabilmente a piegare la sua maggioranza alle sue scelte, rivendicando a sé il diritto di fissare priorità e compatibilità (non è un caso se nelle grandi democrazie europee, e non solo in Italia, la maggior parte delle leggi è di iniziativa governativa).
Tanto più quando il governo, come è oggi nel caso italiano, ma in generale in presenza di un sistema elettorale maggioritario, trae la sua legittimazione, diretta o indiretta, dal voto dei cittadini.
Né è detto che le cose vadano diversamente laddove vige il sistema proporzionale (com’era nella nostra Prima Repubblica): in quel caso a dettar legge sono i partiti, titolari in prima persona di quote del consenso popolare e presenti in Parlamento attraverso i loro gruppi. Nell’uno e nell’altro caso, le Camere rischiano di ridursi, anche se per fortuna non sempre questo accade, a un ruolo di mera registrazione di decisioni prese altrove. Tanto da suggerire al cittadino comune (o, com’è accaduto poco tempo fa in Italia, allo stesso presidente del Consiglio) l’irrispettosa domanda su quale sia l’utilità di mantenere parlamenti così numerosi quando basterebbe una sorta di riunione di condominio in cui i leader di partito facessero valere le loro quote millesimali.
Lasciando da parte le battute (che ignorano fra l’altro il carattere personale e non vincolante del mandato, sancito dalla Costituzione), non è inutile porsi seriamente il problema di come muoversi, qui e oggi, per salvaguardare la dignità, e accrescere la funzionalità, dell’istituzione parlamentare.
La soluzione più radicale sarebbe cambiare il sistema e scegliere l’unica alternativa democratica al parlamentarismo, ossia il regime presidenziale, in cui esecutivo e legislativo, eletti con modalità e in tempi diversi, si limitano e si controllano vicendevolmente procedendo ognuno per la propria strada.
Ma, anche prescindendo da ogni valutazione di merito sul regime presidenziale (che ha anch’esso i suoi difetti), questa strada presupporrebbe la riscrittura da cima a fondo della Costituzione: ipotesi oggi non plausibile ammesso che sia auspicabile.
Qualcosa tuttavia si può fare senza bisogno di ripartire da zero, limitandosi a quei ritocchi che quasi tutte le forze politiche e lo stesso capo dello Stato ritengono utili e possibili e che potrebbero restituire credibilità alle istituzioni rappresentative: la riduzione del numero dei parlamentari; la distinzione fra le funzioni delle due camere; una legge elettorale, non importa se basata sull’uninominale o sullo scrutinio di lista, che rimetta in mano agli elettori la scelta dei suoi rappresentanti. Un Parlamento più snello, più rapido nelle sue decisioni e più legittimato nelle sue basi avrebbe, quale che fosse il colore della maggioranza, maggiori possibilità di riaffermare la sua autonomia e di difendersi dalle ondate di impopolarità che periodicamente lo investono.
Giovanni Sabbatucci
Il 60% degli italiani si è fatta infinocchiare votando contro il Referendum che pur tra errori vari proponeva un deciso rinnovamento del Paese...continueremo nella palude delle non decisioni, degli intrallazzi, etc etc.