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http://www.repubblica.it/quotidiano/repubblica/20000720/commenti/14vad o.html Libertà di licenziare e flessibilità del lavoro di PIERO OTTONE FLESSIBILITà del lavoro, libertà di licenziamento: ho esposto di recente su questo tema spinoso una proposizione di semplicità estrema (che ripeterò fra un istante per comodità del lettore). Nei giorni successivi ho ricevuto numerose lettere, favorevoli e contrarie a quel che ho scritto; troppe per essere pubblicate, o per dare risposte individuali. Torno quindi sul tema, per tentare, se mi riesce, una risposta collettiva. La proposizione era questa: in un sistema di stampo capitalistico, quale il nostro, un imprenditore è libero di assumere persone per produrre beni o servizi, ed è libero di licenziarle quando quelle persone non gli servono più, o perché non produce più quei beni o servizi, o perché li produce in quantità diversa, o perché li produce in altro modo. Molti lettori, fra i quali gli avvocati sono numerosi, mi rispondono piuttosto irritati che ho scoperto l'acqua calda, perché la libertà di licenziamento è prevista dalla legge. Che cosa vado cercando, dunque? In Italia si può licenziare. Ma si può davvero? Ne dubito, e infatti molte di quelle lettere, dopo avermi accusato di scrivere cose ovvie, contengono critiche e obiezioni, a dimostrazione che tanto ovvie non sono. Cerchiamo dunque di intenderci. Preciserò innanzi tutto che la proposizione da me formulata non esclude l'osservanza di obblighi contrattuali da parte dell'imprenditore. Se un tale è assunto con un contratto a termine, mi sembra evidente che non può essere licenziato prima di quel termine. Supponiamo poi che l'imprenditore non osservi i suoi obblighi, che non paghi i contributi, che non garantisca la sicurezza sul lavoro; e supponiamo che il lavoratore lo richiami all'osservanza dei suoi doveri, per via giudiziaria o per altra via: l'imprenditore non ha alcun diritto di vendicarsi col licenziamento, ci mancherebbe altro. Tutto questo mi sembra evidente: ora lo specifico solo perché mi rendo conto, a giudicare dalle lettere ricevute, che non è evidente per tutti. Ma altre lettere sollevano obiezioni di principio. La libertà di impresa, molti scrivono, trova un limite in considerazioni sociali e morali. Si afferma che nel rapporto di lavoro il lavoratore è la parte più debole, e deve essere protetto; soprattutto deve essere protetta la sua dignità. Sono d'accordo: la dignità di ogni individuo è sacra. Ma non vedo alcuna lesione alla dignità di un cittadino se gli si dice che non è più necessario per produrre quei beni e quei servizi per la cui produzione era stato assunto. Al contrario, mi sembra assai poco dignitoso conservare un posto di lavoro quando non si è più necessari. In nome di che cosa? Compassione? Pietà? In virtù di considerazioni sociali, si risponde: anche il lavoratore non più necessario ha diritto di vivere, probabilmente deve mantenere una famiglia. Sacrosanto anche questo: ma ho scritto l'altra volta, e ripeto adesso, che il compito di fornirgli i mezzi di sostentamento spetta allo Stato, non all'impresa. Lo Stato deve dare al disoccupato un salario, e magari insegnargli un nuovo mestiere. Molti lettori obiettano che in questo modo si impone allo Stato un nuovo onere. E l'obiezione è ineccepibile: ma proviamo a ridisegnare lo Stato assistenziale, secondo concetti logici e razionali, e probabilmente scopriremo che alla resa dei conti lo Stato spenderà di meno, non di più. Anche perché una conseguenza della proposizione da me esposta sarà la fine di oneri e contributi impropri, che oggi lo Stato paga sovente alle imprese per compensarle di quell'altro onere improprio derivante dalla difficoltà (nonostante le norme di legge) di licenziare. E qui veniamo a un terzo ordine di obiezioni contenute nelle lettere di molti lettori; obiezioni che pienamente condivido. Si dice infatti: se adottiamo regole liberistiche, dobbiamo adottarle non solo verso i lavoratori, ma anche verso gli imprenditori, ponendo fine a tanti interventi statali manifesti o larvati da cui le imprese traggono beneficio. Giustissimo: la coerenza lo impone. Bisogna rompere un circolo vizioso: evitare di chiedere alle imprese funzioni improprie (l' assistenza a una mano d'opera di cui non abbiano bisogno) per non essere indotti a compensarle con benefici altrettanto impropri (l'assistenza statale). "Urge una riflessione seria - scrive un lettore - sul ruolo dello Stato rispetto alla società civile". Lo penso anch'io. ============== Nel caso, la penso anche io come Ottone. In praticamente tutti i paesi europei e' cosi'. Non c'e' il "circolo vizioso" e ci sono abbondanti sussidi di disoccupazione e strutture atte alla riqualificazione di chi rimane disoccupato. Spero che ci sia occasione di parlarne subito, altrimenti diamo ragione a chi pensa che di queste cose si parla solo se c'e' a breve un referendum provocatorio. Saluti, Francesco Forti ![]() |