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Un progetto per la sinistra ma non sia il Libro dei Sogni di GIORGIO RUFFOLO E' UN gran bene che la sinistra rifletta, come ha fatto nel Seminario della Fondazione Italianeuropei di Frascati, su un "progetto per l'Italia", interrompendo per almeno due giorni le diatribe condominiali. È confortante che duecento persone vi abbiano partecipato animatamente, sulla base di una ampia e stimolante relazione introduttiva di Massimo D'Alema, seguita da un dibattito punteggiato da interventi intensi, come quello di Walter Veltroni, e dalle conclusioni appassionate di Giuliano Amato. Vorrei però segnalare un rischio che dovrebbe a ogni costo essere evitato. Ed è quello di inflazionare la parola progetto, come fu a suo tempo inflazionata la parola programmazione. Dio sa quanto mi costa. Dopo una ubriacatura retorica sulla programmazione, negli anni del primo centro sinistra, Luigi Spaventa propose di votare una legge che proibisse per almeno due anni di pronunciare quella parola. Pure, vi aveva partecipato attivamente. È stato accontentato molto al di là delle sue istanze, e senza alcun bisogno di coercizione. Scongiurare una seconda iattura è possibile se quel termine, di progetto, sarà usato in modo parco e soprattutto rigoroso. Altrimenti esso rischia di dissolversi in un discorso, più o meno convenzionale. Dice l'ormai citatissimo Amartya Sen, a proposito della convinzione di Aristotele "che toccasse a noi creare il futuro", non avendo alcuna possibilità di cambiare il passato: "ma a tale scopo abbiamo bisogno di un impianto generale nel quale inserire i nostri giudizi di valore, di istituzioni che promuovono i nostri fini e i valori per i quali ci battiamo, nonché di norme di comportamento e capacità di ragionamento che ci permettano di ottenere quello che desideriamo". Che magnifica definizione di progetto! Come lo stesso Sen osserva, questa pretesa di progettazione sociale è stata vivacemente contestata dallo scetticismo conservatore. Per esempio, in nome della impossibilità, brillantemente argomentata dall'economista Kenneth Arrow, di dedurre preferenze sociali coerenti da preferenze individuali disparate. O del teorema reso famoso dal macellaio di Adam Smith (e dal Mefistofele di Faust) delle conseguenze inintenzionali ("pensi il male e fai il bene"; e viceversa). O dalla sconsolata (o compiaciuta?) convinzione che solo fondamento delle azioni umane è l'egoismo individuale. E come Sen replica, queste contestazioni possono essere facilmente falsificate: le preferenze individuali si possono plasmare attraverso la discussione democratica, le conseguenze inintenzionali possono essere, almeno in parte, previste, come in un piano strategico di battaglia, senza ovviamente eliminare l' imprevisto, ma senza per questo prescindere dal bisogno di un piano; e quanto all'egoismo, l'umanità non vive solo di quello, ma anche di motivazioni altruistiche, che poi sono, in definitiva, la forma più raffinata dell'egoismo. Dunque, un progetto è possibile. Anzi, necessario: tanto più, quanto più la società è complessa e indeterminata. Nel mondo dell'incertezza, l'unica certezza sta nella nostra volontà. Abbiamo da tempo dimesso la convinzione che sia la Storia a portare nel suo grembo un Progetto. E, almeno quelli che si richiamano ai valori della sinistra, non intendono che la società sia regolata soltanto dai ciechi rapporti di forza, fisica o economica. Ma se vogliamo, come diceva Aristotele, "creare il futuro", abbiamo bisogno, come dice Sen, di "un impianto generale" e rigorosamente strutturato, non di semplici discorsi evocativi. Perché il progetto non divenga un discorso, o peggio, un pretesto, occorrono, secondo me, tre elementi che valgono a connotarlo specificamente. Il primo è la definizione rigorosa dell'esito cui si tende, traducendo i fini generali, e vaghi, in traguardi specifici, temporalmente circoscritti. Parafrasando il motto galileiano, potremmo dire che la politica moderna non è (non dovrebbe essere) chiacchiera, ma misura. Nell'ultimo mezzo secolo, l'umanità si è abituata a identificare il progresso desiderabile in una misura suprema: la crescita. Di che cosa? Del Pil (Prodotto interno lordo). Ma il Pil è in realtà un Pirl (Prodotto interno rozzo e lordo), è un misura grossolana di ricchezza, non di civiltà. È una misura utile per molti versi, e fuorviante e stupida per molti altri (ecologici, sociali, culturali). Se non vogliamo continuare a vivere in Pirlandia, dovremmo costruire una nuova misura dello sviluppo desiderabile e possibile, più ricca, equilibrata e complessa. Vogliamo chiamarla Prodotto Sociale Sostenibile (PSS)? un gruppo di indicatori economici sociali ecologici che esprima sinteticamente un traguardo cui tendere, volta per volta, nel tempo? Il primo e fondamentale elemento caratterizzante di un Progetto dovrebbe essere quello di configurare concretamente l' immagine della società che si propone di costruire insieme. È la famosa risposta del gatto del Cheshire: mi chiedi che via devi prendere? Dipende da dove vuoi andare. Ci chiediamo che cosa e come riformare. Ma in vista di che? Quanta flessibilità. Quanta protezione. Ma per realizzare che cosa? La crescita? Di che cosa? La competitività? Per che cosa? Una volta la sinistra aveva chiaro in testa il suo scopo: la società senza classi. Mi pare che si sia ormai realizzato. Abbiamo una società senza classi, una società di individui. Senza scopi. Se la sinistra fosse finalmente capace di dare la sua misura, conquisterebbe alla sua politica due primati: quello della concretezza e quello della capacità di mobilitazione rispetto a uno scopo. Lo si è dimostrato con i parametri di Maastricht. Ma davvero a questo si è ridotta la sua nobilitate? Il secondo elemento del progetto sta tutto in quella parolina che mi sono lasciato scappare poco fa: insieme. Qui si tratta di sapere a quali forze ci si deve rivolgere per realizzare quegli scopi. Grosso modo, conosciamo le risposte tradizionali e convenzionali. La destra dice: agli individui e ai mercati. La sinistra, fino a qualche tempo fa, diceva: al proletariato! (prima maniera comunista); allo Stato! (seconda maniera socialdemocratica). Ora è muta. Ora, sono diventati evidenti a tutti sia i fallimenti del mercato, sia quelli dello Stato. Siamo dunque costretti a rimbalzare (questo è il senso del ciclo politico oggi) dagli uni agli altri in una angosciosa ricerca di una qualche via di mezzo? Oppure si possono costruire forme nuove di mobilitazione e di organizzazione sociale fondate sul principio: scegliere insieme? È del tutto evidente che, mentre una vasta zona del terreno sociale deve essere lasciata alla libera esplicazione delle forze di mercato, alla spontanea interrelazione dei bisogni dei desideri e delle intraprendenze individuali; e una parte altrettanto importante di bisogni collettivi, di sicurezza di protezione e di garanzia deve restare affidata a uno Stato autorevole ed efficiente; c' è una zona sempre più ampia, crescente, di relazioni economiche sociali e politiche che può essere gestita da gruppi autorganizzati di cittadini. Una zona di autogestione sociale, che coniuga le virtù della libertà di scelta con quelle della responsabilità solidale. E che può permeare dei suoi valori e dei suoi esempi la società intera. Scegliere insieme non è soltanto l'ovvio esercizio delle regole e delle istituzioni centrali della democrazia. È anche l'uso dei nuovi mezzi di informazione e dei nuovi spazi di conoscenza, volto a intensificare le relazioni dirette tra i cittadini per esprimere insieme le loro scelte, per svolgere insieme le attività necessarie a soddisfarle. Il terzo elemento di un progetto rigoroso riguarda la sua strumentazione. E qui, sospendendo il vigore della "quasi-legge" Spaventa, occorre ridare forza - con il senno di poi - all'idea e alla pratica della programmazione, come si è ricominciato a fare (meglio, a parlare) nel recente vertice europeo di Lisbona; come da tempo si è cominciato a fare (senza troppo parlare) negli Stati Uniti reinventando il modo di governare. Quanto sarebbe positivo se la coalizione del centro sinistra individuasse un gruppo di programmi concreti da proporre al paese, e su questi chiedesse il consenso delle istanze più interessate attraverso veri e propri "contratti politici"! Si potrebbe racchiudere queste concrete proposte entro quel "patto sociale" che è stato giustamente evocato da Massimo D'Alema nel suo intervento introduttivo. Questi tre elementi di un progetto funzionerebbero come altrettanti rasoi di Occam, eliminando superfluità e ridondanze. Non si tratta soltanto di elementi tecnici. Come è stato giustamente ricordato da D'Alema, da Veltroni, da Amato, abbiamo bisogno di legare le nostre proposte a valori etici; di esprimere il senso di una missione; di mobilitare le forze di un vasto consenso sociale; di parlare alla società, e non solo di sparlare tra noi. Per questo abbiamo bisogno di un progetto di ghiaccio bollente, che sappia coniugare il rigore della proposta con la sua passione. Rolando A.B. ![]() |