[RIFORMANDO:583] Un progetto per la sinistra, ma che non sia il libro dei sogni
Rolando Alberto Borzetti  Venerdi`, 07 Luglio 2000

Un progetto per la sinistra
ma non sia il Libro dei Sogni


di GIORGIO RUFFOLO

E' UN gran bene che la sinistra rifletta, come ha fatto nel Seminario della
Fondazione Italianeuropei di Frascati, su un "progetto per l'Italia",
interrompendo per almeno due giorni le diatribe condominiali. È confortante
che duecento persone vi abbiano partecipato animatamente, sulla base di una
ampia e stimolante relazione introduttiva di Massimo D'Alema, seguita da un
dibattito punteggiato da interventi intensi, come quello di Walter Veltroni,
e dalle conclusioni appassionate di Giuliano Amato.
Vorrei però segnalare un rischio che dovrebbe a ogni costo essere evitato.
Ed è quello di inflazionare la parola progetto, come fu a suo tempo
inflazionata la parola programmazione. Dio sa quanto mi costa.
Dopo una ubriacatura retorica sulla programmazione, negli anni del primo
centro sinistra, Luigi Spaventa propose di votare una legge che proibisse
per almeno due anni di pronunciare quella parola. Pure, vi aveva partecipato
attivamente. È stato accontentato molto al di là delle sue istanze, e senza
alcun bisogno di coercizione.
Scongiurare una seconda iattura è possibile se quel termine, di progetto,
sarà usato in modo parco e soprattutto rigoroso. Altrimenti esso rischia di
dissolversi in un discorso, più o meno convenzionale. Dice l'ormai
citatissimo Amartya Sen, a proposito della convinzione di Aristotele "che
toccasse a noi creare il futuro", non avendo alcuna possibilità di cambiare
il passato: "ma a tale scopo abbiamo bisogno di un impianto generale nel
quale inserire i nostri giudizi di valore, di istituzioni che promuovono i
nostri fini e i valori per i quali ci battiamo, nonché di norme di
comportamento e capacità di ragionamento che ci permettano di ottenere
quello che desideriamo". Che magnifica definizione di progetto!
Come lo stesso Sen osserva, questa pretesa di progettazione sociale è stata
vivacemente contestata dallo scetticismo conservatore. Per esempio, in nome
della impossibilità, brillantemente argomentata dall'economista Kenneth
Arrow, di dedurre preferenze sociali coerenti da preferenze individuali
disparate. O del teorema reso famoso dal macellaio di Adam Smith (e dal
Mefistofele di Faust) delle conseguenze inintenzionali ("pensi il male e fai
il bene"; e viceversa). O dalla sconsolata (o compiaciuta?) convinzione che
solo fondamento delle azioni umane è l'egoismo individuale. E come Sen
replica, queste contestazioni possono essere facilmente falsificate: le
preferenze individuali si possono plasmare attraverso la discussione
democratica, le conseguenze inintenzionali possono essere, almeno in parte,
previste, come in un piano strategico di battaglia, senza ovviamente
eliminare l' imprevisto, ma senza per questo prescindere dal bisogno di un
piano; e quanto all'egoismo, l'umanità non vive solo di quello, ma anche di
motivazioni altruistiche, che poi sono, in definitiva, la forma più
raffinata dell'egoismo.
Dunque, un progetto è possibile. Anzi, necessario: tanto più, quanto più la
società è complessa e indeterminata. Nel mondo dell'incertezza, l'unica
certezza sta nella nostra volontà. Abbiamo da tempo dimesso la convinzione
che sia la Storia a portare nel suo grembo un Progetto. E, almeno quelli che
si richiamano ai valori della sinistra, non intendono che la società sia
regolata soltanto dai ciechi rapporti di forza, fisica o economica. Ma se
vogliamo, come diceva Aristotele, "creare il futuro", abbiamo bisogno, come
dice Sen, di "un impianto generale" e rigorosamente strutturato, non di
semplici discorsi evocativi.
Perché il progetto non divenga un discorso, o peggio, un pretesto,
occorrono, secondo me, tre elementi che valgono a connotarlo specificamente.
Il primo è la definizione rigorosa dell'esito cui si tende, traducendo i
fini generali, e vaghi, in traguardi specifici, temporalmente circoscritti.
Parafrasando il motto galileiano, potremmo dire che la politica moderna non
è (non dovrebbe essere) chiacchiera, ma misura. Nell'ultimo mezzo secolo,
l'umanità si è abituata a identificare il progresso desiderabile in una
misura suprema: la crescita. Di che cosa? Del Pil (Prodotto interno lordo).
Ma il Pil è in realtà un Pirl (Prodotto interno rozzo e lordo), è un misura
grossolana di ricchezza, non di civiltà. È una misura utile per molti versi,
e fuorviante e stupida per molti altri (ecologici, sociali, culturali). Se
non vogliamo continuare a vivere in Pirlandia, dovremmo costruire una nuova
misura dello sviluppo desiderabile e possibile, più ricca, equilibrata e
complessa. Vogliamo chiamarla Prodotto Sociale Sostenibile (PSS)? un gruppo
di indicatori economici sociali ecologici che esprima sinteticamente un
traguardo cui tendere, volta per volta, nel tempo? Il primo e fondamentale
elemento caratterizzante di un Progetto dovrebbe essere quello di
configurare concretamente l' immagine della società che si propone di
costruire insieme. È la famosa risposta del gatto del Cheshire: mi chiedi
che via devi prendere? Dipende da dove vuoi andare. Ci chiediamo che cosa e
come riformare. Ma in vista di che? Quanta flessibilità. Quanta protezione.
Ma per realizzare che cosa? La crescita? Di che cosa? La competitività? Per
che cosa? Una volta la sinistra aveva chiaro in testa il suo scopo: la
società senza classi. Mi pare che si sia ormai realizzato. Abbiamo una
società senza classi, una società di individui. Senza scopi. Se la sinistra
fosse finalmente capace di dare la sua misura, conquisterebbe alla sua
politica due primati: quello della concretezza e quello della capacità di
mobilitazione rispetto a uno scopo. Lo si è dimostrato con i parametri di
Maastricht. Ma davvero a questo si è ridotta la sua nobilitate?

Il secondo elemento del progetto sta tutto in quella parolina che mi sono
lasciato scappare poco fa: insieme. Qui si tratta di sapere a quali forze ci
si deve rivolgere per realizzare quegli scopi. Grosso modo, conosciamo le
risposte tradizionali e convenzionali. La destra dice: agli individui e ai
mercati. La sinistra, fino a qualche tempo fa, diceva: al proletariato!
(prima maniera comunista); allo Stato! (seconda maniera socialdemocratica).
Ora è muta. Ora, sono diventati evidenti a tutti sia i fallimenti del
mercato, sia quelli dello Stato. Siamo dunque costretti a rimbalzare (questo
è il senso del ciclo politico oggi) dagli uni agli altri in una angosciosa
ricerca di una qualche via di mezzo? Oppure si possono costruire forme nuove
di mobilitazione e di organizzazione sociale fondate sul principio:
scegliere insieme? È del tutto evidente che, mentre una vasta zona del
terreno sociale deve essere lasciata alla libera esplicazione delle forze di
mercato, alla spontanea interrelazione dei bisogni dei desideri e delle
intraprendenze individuali; e una parte altrettanto importante di bisogni
collettivi, di sicurezza di protezione e di garanzia deve restare affidata a
uno Stato autorevole ed efficiente; c' è una zona sempre più ampia,
crescente, di relazioni economiche sociali e politiche che può essere
gestita da gruppi autorganizzati di cittadini. Una zona di autogestione
sociale, che coniuga le virtù della libertà di scelta con quelle della
responsabilità solidale. E che può permeare dei suoi valori e dei suoi
esempi la società intera. Scegliere insieme non è soltanto l'ovvio esercizio
delle regole e delle istituzioni centrali della democrazia. È anche l'uso
dei nuovi mezzi di informazione e dei nuovi spazi di conoscenza, volto a
intensificare le relazioni dirette tra i cittadini per esprimere insieme le
loro scelte, per svolgere insieme le attività necessarie a soddisfarle.
Il terzo elemento di un progetto rigoroso riguarda la sua strumentazione. E
qui, sospendendo il vigore della "quasi-legge" Spaventa, occorre ridare
forza - con il senno di poi - all'idea e alla pratica della programmazione,
come si è ricominciato a fare (meglio, a parlare) nel recente vertice
europeo di Lisbona; come da tempo si è cominciato a fare (senza troppo
parlare) negli Stati Uniti reinventando il modo di governare. Quanto sarebbe
positivo se la coalizione del centro sinistra individuasse un gruppo di
programmi concreti da proporre al paese, e su questi chiedesse il consenso
delle istanze più interessate attraverso veri e propri "contratti politici"!
Si potrebbe racchiudere queste concrete proposte entro quel "patto sociale"
che è stato giustamente evocato da Massimo D'Alema nel suo intervento
introduttivo.
Questi tre elementi di un progetto funzionerebbero come altrettanti rasoi di
Occam, eliminando superfluità e ridondanze. Non si tratta soltanto di
elementi tecnici. Come è stato giustamente ricordato da D'Alema, da
Veltroni, da Amato, abbiamo bisogno di legare le nostre proposte a valori
etici; di esprimere il senso di una missione; di mobilitare le forze di un
vasto consenso sociale; di parlare alla società, e non solo di sparlare tra
noi.
Per questo abbiamo bisogno di un progetto di ghiaccio bollente, che sappia
coniugare il rigore della proposta con la sua passione.
Rolando A.B.




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