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da l'Espresso: http://www.espressoedit.kataweb.it/cgi-bin/spd-salute_gettext.sh?ft_cid=4143 2 CANCRO / LA VERGOGNA DEL MEZZOGIORNO Non ci resta che san Gennaro Niente radioterapia. Niente oncologi e diagnosi precoce. Così al Sud si muore di tumore più che al Nord. Un rapporto fotografa le due Italie. E spiega perché i malati credono nei miracoli di Giovanni Padovani Se dieci donne si ammalano di tumore della mammella, a cinque anni dalla diagnosi otto sono ancora in vita, nelle regioni del Centro-nord della penisola. Ma se ad essere colpite dalla stessa malattia sono le donne del Sud, dopo cinque anni dalla diagnosi ne restano vive sei. Un divario dello stesso tipo (la differenza percentuale tra le due zone del paese è del 20 per cento circa) si registra anche per altri tumori, per lo più per quelli che rispondono meglio alle cure. E la forbice tra settentrione e meridione è ancora più ampia (sfiora il 50 per cento) per le leucemie, il più diffuso tumore del sangue. Sono i dati dello studio Eurocare 2, che ha valutato la sopravvivenza da malattie neoplastiche di oltre tre milioni di pazienti appartenenti ai paesi europei. E ha rilevato lo squilibrio italiano mostrando un paese spaccato tra un Nord moderno e medicalmente avanzato e un Sud abbandonato. Nel linguaggio tecnico degli statistici la quota dei malati di cancro che restano in vita a un quinquennio dalla diagnosi si chiama indice di sopravvivenza e dall'oncologia internazionale viene considerata come la spia più attendibile della qualità delle cure che sono disponibili in una determinata regione. «Per quanto riguarda l'Italia», spiega Andrea Micheli, uno degli epidemiologi dell'Istituto dei Tumori di Milano che ha studiato il problema, «le differenze tra Nord e Sud sono un dato importante. Nella classifica europea della sopravvivenza al cancro, infatti, il nostro paese occupa complessivamente una posizione medio-alta. Per la gran parte dei tumori i nostri dati sono analoghi a quelli di Francia e Germania e più favorevoli, quanto a indice di sopravvivenza, a quel che si registra in Gran Bretagna e Danimarca. Non solo: in alcune aree della penisola, e in particolare in Emilia-Romagna, la sopravvivenza, e di conseguenza, la qualità delle terapie, è la stessa di Svezia, Finlandia e Svizzera, i tre paesi europei che vantano i risultati migliori nella lotta contro il cancro». Insomma, confrontati a quelli di altri paesi, i dati italiani indicano uno standard di qualità complessivamente soddisfacente in uno dei settori più complessi di tutta la medicina contemporanea. Ma come sono possibili, allora, differenze territoriali così vistose? Come mai, anche dopo essersi fatti operare, come avviene spesso, in uno dei grandi centri oncologici del Nord, i malati di cancro che provengono dalla regioni meridionali hanno meno speranze di guarire, a parità di diagnosi, rispetto a quelli del Centro-nord? I dati di sopravvivenza al tumore nelle diverse regioni della penisola erano stati indagati per la prima volta in una serie di studi editi nel '97 da Andrea Micheli e Gemma Gatta dell'Istituto dei Tumori di Milano e da Andrea Verdecchia dell'Istituto Superiore di Sanità di Roma sotto il nome di Itacare. Però è soltanto ora che si cominciano a capire i perché dello squilibrio territoriale. Ed è possibile fare delle ipotesi. La prima individua un motivo dello squilibrio nella diversa dotazione di impianti di radioterapia nelle due aree della penisola. Secondo un Rapporto redatto dal Tribunale dei diritti del malato e da "L'Espresso" l'anno scorso ("Cancro? Torni tra un anno", 15/04/1999, disponibile su www.espressoedit.it), nel Nord ci sarebbe un centro di radioterapia ogni 966 abitanti contro uno ogni 2.375 abitanti nel Sud e nelle isole. Così su 45 mila nuovi malati che hanno bisogno di radioterapia ogni anno, al Sud nel 1995 (ultimo anno su cui si ha disponibilità di dati) hanno potuto curarsi solo 8.606 persone. Sono dati di qualche anno fa, ma è possibile che recentemente, con l'avvento di tecnologie più efficaci ma anche più costose, il divario tra Nord e Sud sia aumentato. Già nel rapporto dell'Espresso si dava conto di strutture vetuste chiuse perché facevano più danni che altro (come l'impianto del 1972 chiuso a Napoli l'anno scorso) mentre le liste d'attesa si allungavano. Mario De Lena, oncologo medico all'Istituto dei Tumori di Bari, precisa: «Nel 1999 si trovavano nel meridione nove acceleratori lineari, una delle più moderne attrezzature usate in tutto il mondo per l'irradiazione dei tumori: ce n'erano altrettanti nella sola Regione Veneto. Una differenza di questo tipo non può non riflettersi sulla qualità delle cure». Ma anche dove l'acceleratore è stato installato il disservizio rimane. Racconta Lorenzo Gafà, direttore del Registro-tumori di Ragusa, l'unico centro-studi del meridione che, così come ogni Registro-tumori, ha il compito di elencare e seguire nel tempo tutti i casi di cancro che si verificano nel territorio provinciale: «L'anno scorso l'acceleratore lineare l'abbiamo finalmente installato ma è stato difficile, subito dopo, trovare gli esperti che lo sapessero far funzionare». Nel Sud gli organici dei servizi specialistici sono sottodimensionati rispetto a quelli del Nord e il personale viene assunto in buona parte a tempo determinato, magari con una borsa di studio di un anno o due: allora capita che la struttura funzioni a singhiozzo ed anche (è una conseguenza non meno grave) che ai chirurghi, agli endoscopisti oppure ai medici che fanno le biopsie per indagare su un sospetto di tumore non sia concesso il tempo necessario a specializzarsi. «Nel meridione», aggiunge Gafà, «molti centri, formalmente aperti al pubblico, in realtà vengono disertati perché la gente si accorge della situazione di precarietà». Col risultato che i malati, non fidandosi, corrono al Nord: a Milano, Aviano, Forlì dove si cura bene e ci sono gli impianti. Ma, racconta Silvio Monfardini, direttore della Divisione di Oncologia medica dell'ospedale di Padova: «Spesso arrivano malati in fase già avanzata. Ed è molto difficile che si riesca ad aiutarli al meglio». D'altra parte, continua Monfardini che per due anni ha diretto l'Istituto dei Tumori di Napoli: «La differenza di sopravvivenza sta in buona parte nel ritardo con cui al Sud si diagnostica la malattia». La conferma di questa osservazione clinica viene anche da un'analisi dei dati epidemiologici europei fatta da Franco Berrino, responsabile del Servizio di epidemiologia dell'Istituto dei Tumori di Milano e capo dell'équipe che ha firmato Eurocare 1 (1995) e Eurocare 2 (1999) che ha confrontato tra loro i dati di sopravvivenza di 17 paesi europei, dall'Islanda alla Slovacchia, dalla Polonia alla Spagna. «La spiegazione della diversità esistente tra i dati di sopravvivenza dei diversi paesi ma anche all'interno di uno stesso paese risale in buona parte al fatto che la diagnosi di tumore è più o meno precoce». I dati portati a sostegno di questa tesi appartengono già a Eurocare 3 (lo studio, in corso, vedrà la luce nel 2002) e si riferiscono anche all'Italia. Milena Sant, collaboratrice di Berrino per Eurocare, spiega: «Nei nostri studi abbiamo osservato due tipi di collegamento che sono molto significativi. In primo luogo, nelle aree anche italiane in cui i malati di cancro vivono meno, la cosiddetta stadiazione del tumore è più avanzata: è maggiore, per esempio, il numero dei linfonodi che al momento della diagnosi risultano infiltrati da cellule cancerose. In secondo luogo, dove la sopravvivenza è minore il numero di decessi che si verificano nei primi sei mesi dopo la diagnosi è più alto: questo si verifica anche per malattie, come i tumori della mammella oppure quelli del colon, i decessi precoci sono solitamente molto rari». Sono questi i dati che hanno spostato l'attenzione sul momento della diagnosi e sulla sua importanza. Precisa la Sant: «Per molti tumori gran parte delle differenze territoriali di sopravvivenza si verifica nei primi mesi dell'osservazione». Insomma, se in certe zone le cose vanno peggio che altrove è anche perché la diagnosi viene mediamente fatta troppo tardi, quando il tumore è già così avanzato che diventa difficile curarlo e evitare il peggio. Quello del ritardo diagnostico come fattore che riduce la sopravvivenza è un tema su cui tutta l'oncologia europea ha acceso i riflettori. Gli inglesi, scottati più di altri dai risultati insoddisfacenti ottenuti finora, hanno preso anche qualche decisione operativa. Nel 1995 hanno lanciato una campagna per lo screening del tumore al seno. E qualche settimana fa il governo di Tony Blair si è impegnato a aumentare del 40 per cento in cinque anni il numero degli specialisti in oncologia e ha fissato in 15 giorni l'intervallo massimo di tempo che può trascorrere tra il sospetto di malattia formulato dal medico di base e il referto specialistico necessario per la diagnosi. A lungo andare queste iniziative dovrebbero migliorare la situazione soprattutto nelle aree dove il tumore uccide di più. E in Italia ? Osserva Berrino. «Le indagini per capire meglio i motivi dello squilibrio territoriale proseguono. Ma non dobbiamo nasconderci dietro gli studi che mancano. L'esempio dell'Inghilterra deve fare scuola. Sono convinto che Veronesi non starà con le mani in mano: lui conosce bene gli squilibri dell'oncologia nazionale». (22.06.2000) ![]() |