[RIFORMANDO:550] Non ci resta che san Gennaro
Mobiglia  Martedi`, 20 Giugno 2000

da l'Espresso:
http://www.espressoedit.kataweb.it/cgi-bin/spd-salute_gettext.sh?ft_cid=4143
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CANCRO / LA VERGOGNA DEL MEZZOGIORNO 
Non ci resta che san Gennaro 
Niente radioterapia. Niente oncologi e diagnosi precoce. Così al Sud si
muore di tumore più che al Nord. Un rapporto fotografa le due Italie. E
spiega perché i malati credono nei miracoli 
di Giovanni Padovani 
Se dieci donne si ammalano di tumore della mammella, a cinque anni dalla
diagnosi otto sono ancora in vita, nelle regioni del Centro-nord della
penisola. Ma se ad essere colpite dalla stessa malattia sono le donne del
Sud, dopo cinque anni dalla diagnosi ne restano vive sei. Un divario dello
stesso tipo (la differenza percentuale tra le due zone del paese è del 20
per cento circa) si registra anche per altri tumori, per lo più per quelli
che rispondono meglio alle cure. E la forbice tra settentrione e meridione è
ancora più ampia (sfiora il 50 per cento) per le leucemie, il più diffuso
tumore del sangue. Sono i dati dello studio Eurocare 2, che ha valutato la
sopravvivenza da malattie neoplastiche di oltre tre milioni di pazienti
appartenenti ai paesi europei. E ha rilevato lo squilibrio italiano
mostrando un paese spaccato tra un Nord moderno e medicalmente avanzato e un
Sud abbandonato.

Nel linguaggio tecnico degli statistici la quota dei malati di cancro che
restano in vita a un quinquennio dalla diagnosi si chiama indice di
sopravvivenza e dall'oncologia internazionale viene considerata come la spia
più attendibile della qualità delle cure che sono disponibili in una
determinata regione. «Per quanto riguarda l'Italia», spiega Andrea Micheli,
uno degli epidemiologi dell'Istituto dei Tumori di Milano che ha studiato il
problema, «le differenze tra Nord e Sud sono un dato importante. Nella
classifica europea della sopravvivenza al cancro, infatti, il nostro paese
occupa complessivamente una posizione medio-alta. Per la gran parte dei
tumori i nostri dati sono analoghi a quelli di Francia e Germania e più
favorevoli, quanto a indice di sopravvivenza, a quel che si registra in Gran
Bretagna e Danimarca. Non solo: in alcune aree della penisola, e in
particolare in Emilia-Romagna, la sopravvivenza, e di conseguenza, la
qualità delle terapie, è la stessa di Svezia, Finlandia e Svizzera, i tre
paesi europei che vantano i risultati migliori nella lotta contro il
cancro». Insomma, confrontati a quelli di altri paesi, i dati italiani
indicano uno standard di qualità complessivamente soddisfacente in uno dei
settori più complessi di tutta la medicina contemporanea.

Ma come sono possibili, allora, differenze territoriali così vistose? Come
mai, anche dopo essersi fatti operare, come avviene spesso, in uno dei
grandi centri oncologici del Nord, i malati di cancro che provengono dalla
regioni meridionali hanno meno speranze di guarire, a parità di diagnosi,
rispetto a quelli del Centro-nord? I dati di sopravvivenza al tumore nelle
diverse regioni della penisola erano stati indagati per la prima volta in
una serie di studi editi nel '97 da Andrea Micheli e Gemma Gatta
dell'Istituto dei Tumori di Milano e da Andrea Verdecchia dell'Istituto
Superiore di Sanità di Roma sotto il nome di Itacare. Però è soltanto ora
che si cominciano a capire i perché dello squilibrio territoriale. Ed è
possibile fare delle ipotesi.

La prima individua un motivo dello squilibrio nella diversa dotazione di
impianti di radioterapia nelle due aree della penisola. Secondo un Rapporto
redatto dal Tribunale dei diritti del malato e da "L'Espresso" l'anno scorso
("Cancro? Torni tra un anno", 15/04/1999, disponibile su
www.espressoedit.it), nel Nord ci sarebbe un centro di radioterapia ogni 966
abitanti contro uno ogni 2.375 abitanti nel Sud e nelle isole. Così su 45
mila nuovi malati che hanno bisogno di radioterapia ogni anno, al Sud nel
1995 (ultimo anno su cui si ha disponibilità di dati) hanno potuto curarsi
solo 8.606 persone. Sono dati di qualche anno fa, ma è possibile che
recentemente, con l'avvento di tecnologie più efficaci ma anche più costose,
il divario tra Nord e Sud sia aumentato. Già nel rapporto dell'Espresso si
dava conto di strutture vetuste chiuse perché facevano più danni che altro
(come l'impianto del 1972 chiuso a Napoli l'anno scorso) mentre le liste
d'attesa si allungavano. 

Mario De Lena, oncologo medico all'Istituto dei Tumori di Bari, precisa:
«Nel 1999 si trovavano nel meridione nove acceleratori lineari, una delle
più moderne attrezzature usate in tutto il mondo per l'irradiazione dei
tumori: ce n'erano altrettanti nella sola Regione Veneto. Una differenza di
questo tipo non può non riflettersi sulla qualità delle cure». 

Ma anche dove l'acceleratore è stato installato il disservizio rimane.
Racconta Lorenzo Gafà, direttore del Registro-tumori di Ragusa, l'unico
centro-studi del meridione che, così come ogni Registro-tumori, ha il
compito di elencare e seguire nel tempo tutti i casi di cancro che si
verificano nel territorio provinciale: «L'anno scorso l'acceleratore lineare
l'abbiamo finalmente installato ma è stato difficile, subito dopo, trovare
gli esperti che lo sapessero far funzionare». Nel Sud gli organici dei
servizi specialistici sono sottodimensionati rispetto a quelli del Nord e il
personale viene assunto in buona parte a tempo determinato, magari con una
borsa di studio di un anno o due: allora capita che la struttura funzioni a
singhiozzo ed anche (è una conseguenza non meno grave) che ai chirurghi,
agli endoscopisti oppure ai medici che fanno le biopsie per indagare su un
sospetto di tumore non sia concesso il tempo necessario a specializzarsi.
«Nel meridione», aggiunge Gafà, «molti centri, formalmente aperti al
pubblico, in realtà vengono disertati perché la gente si accorge della
situazione di precarietà». Col risultato che i malati, non fidandosi,
corrono al Nord: a Milano, Aviano, Forlì dove si cura bene e ci sono gli
impianti. Ma, racconta Silvio Monfardini, direttore della Divisione di
Oncologia medica dell'ospedale di Padova: «Spesso arrivano malati in fase
già avanzata. Ed è molto difficile che si riesca ad aiutarli al meglio».
D'altra parte, continua Monfardini che per due anni ha diretto l'Istituto
dei Tumori di Napoli: «La differenza di sopravvivenza sta in buona parte nel
ritardo con cui al Sud si diagnostica la malattia».

La conferma di questa osservazione clinica viene anche da un'analisi dei
dati epidemiologici europei fatta da Franco Berrino, responsabile del
Servizio di epidemiologia dell'Istituto dei Tumori di Milano e capo
dell'équipe che ha firmato Eurocare 1 (1995) e Eurocare 2 (1999) che ha
confrontato tra loro i dati di sopravvivenza di 17 paesi europei,
dall'Islanda alla Slovacchia, dalla Polonia alla Spagna. «La spiegazione
della diversità esistente tra i dati di sopravvivenza dei diversi paesi ma
anche all'interno di uno stesso paese risale in buona parte al fatto che la
diagnosi di tumore è più o meno precoce». I dati portati a sostegno di
questa tesi appartengono già a Eurocare 3 (lo studio, in corso, vedrà la
luce nel 2002) e si riferiscono anche all'Italia.

Milena Sant, collaboratrice di Berrino per Eurocare, spiega: «Nei nostri
studi abbiamo osservato due tipi di collegamento che sono molto
significativi. In primo luogo, nelle aree anche italiane in cui i malati di
cancro vivono meno, la cosiddetta stadiazione del tumore è più avanzata: è
maggiore, per esempio, il numero dei linfonodi che al momento della diagnosi
risultano infiltrati da cellule cancerose. In secondo luogo, dove la
sopravvivenza è minore il numero di decessi che si verificano nei primi sei
mesi dopo la diagnosi è più alto: questo si verifica anche per malattie,
come i tumori della mammella oppure quelli del colon, i decessi precoci sono
solitamente molto rari». 

Sono questi i dati che hanno spostato l'attenzione sul momento della
diagnosi e sulla sua importanza. Precisa la Sant: «Per molti tumori gran
parte delle differenze territoriali di sopravvivenza si verifica nei primi
mesi dell'osservazione». Insomma, se in certe zone le cose vanno peggio che
altrove è anche perché la diagnosi viene mediamente fatta troppo tardi,
quando il tumore è già così avanzato che diventa difficile curarlo e evitare
il peggio. 

Quello del ritardo diagnostico come fattore che riduce la sopravvivenza è un
tema su cui tutta l'oncologia europea ha acceso i riflettori. Gli inglesi,
scottati più di altri dai risultati insoddisfacenti ottenuti finora, hanno
preso anche qualche decisione operativa. Nel 1995 hanno lanciato una
campagna per lo screening del tumore al seno. E qualche settimana fa il
governo di Tony Blair si è impegnato a aumentare del 40 per cento in cinque
anni il numero degli specialisti in oncologia e ha fissato in 15 giorni
l'intervallo massimo di tempo che può trascorrere tra il sospetto di
malattia formulato dal medico di base e il referto specialistico necessario
per la diagnosi. A lungo andare queste iniziative dovrebbero migliorare la
situazione soprattutto nelle aree dove il tumore uccide di più. 

E in Italia ? Osserva Berrino. «Le indagini per capire meglio i motivi dello
squilibrio territoriale proseguono. Ma non dobbiamo nasconderci dietro gli
studi che mancano. L'esempio dell'Inghilterra deve fare scuola. Sono
convinto che Veronesi non starà con le mani in mano: lui conosce bene gli
squilibri dell'oncologia nazionale». 

(22.06.2000)
 



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