Il
Nostro modello di regionalismo
Sul terreno più propriamente istituzionale, il "regionalismo
che vogliamo" lo possiamo così articolare:
a) vogliamo, anzitutto, un Paese unito: è questo ciò che chiede
la nostra gente al nord come al sud;
b) vogliamo il progressivo spostamento di gettito fiscale
alle regioni (50-60% delle imposte);
c) da questo nasce però l'esigenza di istituire un "fondo
di solidarietà", che è ovunque una caratteristica essenziale
del regionalismo e del federalismo. Esso, infatti, il reddito
delle Regioni italiane profondamente diseguale, nasce un problema
di giustizia, di equità. Il "fondo", che va assolutamente creato
per aiutare le Regioni più svantaggiate, dovrà essere, così
come è nel modello tedesco, prefissato su base pluriennale al
fine di evitare i rimborsi a piè di lista;
d) vogliamo un reale spostamento di competenze fra il centro
e la periferia, con l'allargamento delle autonomie locali; deve
altresì finire quello che, da parte delle autorità centrali,
è stata una continua sovrapposizione delle competenze attribuite
alle Regioni (burocrazia parallela).
e) vogliamo la Camera delle Regioni, come naturale coronamento
di questo disegno;
f) vogliamo, infine, che ogni regione istituisca una task-force
per dialogare con Bruxelles composta da persone competenti:
tanti, troppi, fondi comunitari rimangono inutilizzati perché
le nostre regioni non presentano i progetti.
Vorrei fare un'ultima annotazione sul regionalismo: abbiamo
troppo trascurato il ruolo e la formazione della classe dirigente
regionale. Nella nuova Europa, sempre più la nostra classe dirigente
dovrà fare allenamento e dovrà essere messa alla prova nel governo
delle città e delle regioni. La sciagura del regionalismo così
come noi, in Italia, l'abbiamo conosciuto è stata l'irresponsabilità
fiscale, la non responsabilità nell'imporre le tasse alle proprie
comunità. Ma una classe dirigente cresce soltanto se deve riconciliare
i mezzi e i fini, se deve commisurare i servizi prestati alle
risorse disponibili. Ecco perché la progressiva autonomia impositiva
degli enti locali e delle regioni, di cui più sopra si è parlato,
riveste anche un fortissimo significato etico.
Il riscatto possibile del Mezzogiorno
La riflessione sul regionalismo mi porta a dedicare un approfondimento
particolare al Mezzogiorno, al suo possibile riscatto.
L'intreccio fra la disoccupazione e la criminalità organizzata
é la cosa più preoccupante delle regioni meridionali:
Il tasso di disoccupazione nel Centro Nord é dell'8 per cento,
mentre ha raggiunto il 21% nel Mezzogiorno. Nel Mezzogiorno
il numero attuale degli occupati é largamente inferiore a quello
dell'inizio degli anni '80. Per la prima volta, negli ultimi
due anni, cominciano a calare anche i consumi.
Si è sempre detto che la mafia e la criminalità organizzata,
sono figli del sottosviluppo economico.
Quello che é accaduto in questi decenni nelle regioni del
"triangolo criminale" ci dice, in verità, un'altra cosa: la
mafia non è la figlia ma la madre del sottosviluppo.
La criminalità organizzata non mette in moto risorse produttive
prima inutilizzate. Essa, si sostituisce agli imprenditori preesistenti.
Vi sono imprenditori eliminati dalla competizione tramite attentati,
estorsioni, omicidi, esclusioni dai mercati di vendita e dagli
appalti.
Le grandi imprese estere annullano i loro progetti di investimento
nel Mezzogiorno e li dirottano verso altri Paesi del Mediterraneo,
proprio a causa dei fenomeni di criminalità organizzata (oltrechè
di una Pubblica Amministrazione incapace di offrire un unico
interlocutore agli imprenditori stranieri).
L'ultimo grande investimento estero nel Mezzogiorno risale
a sette anni fa: è un prezzo troppo alto che noi paghiamo alla
criminalità ed alla disorganizzazione dello Stato.
E questo mentre gli altri "mezzogiorni d'Europa" (come Spagna,
Grecia, Portogallo e Turchia) riducono la distanza dalle regioni
più avanzate.
Questa è la tragedia del Sud.
Non è il caso di coltivare l'illusione che vi si possano ,
d'un tratto, localizzare tante nuove grandi iniziative produttive.
Bisogna però dare un segno che qualcosa si sta muovendo. Bisogna,
cioè, che le Organizzazioni degli imprenditori (a cominciare
da Confindustria) e sindacati si mettano immediatamente al lavoro
per trasferire al Sud attività produttive che, soprattutto al
Nord Est, non hanno alcuna possibilità di essere realizzate
per mancanza di mano d'opera.
Bisogna poi riprendere gli investimenti pubblici già iniziati
e sospesi ormai da anni. Bisogna creare nel Sud le nuove autostrade
elettroniche che lo legano indissolubilmente all'Europa che
corre.
E bisogna pensare a un turismo moderno, a un'agricoltura moderna.
Un fatto è certo: non possiamo continuare con un Paese così
diviso, con la piena occupazione al Nord e con oltre il 20%
di disoccupazione al Sud, e con le attività più direttamente
produttive che vanno restringendosi sempre più.
Se il trasferimento di produzione dal Nord al Sud è una prima
risposta ai problemi delle regioni meridionali, soltanto la
nascita di una diffusa imprenditoria locale può consentirne
un vero decollo.
Qui siamo nell'ambito di analisi che vanno ben oltre l'economia.
Una diffusa imprenditoria locale, o detto in altri termini,
un modello di industrializzazione fondato su tanti protagonisti,
è stata la principale ragione del successo di tutte le regioni
del Nord-est italiano.
Vengo da una regione -l'Emilia-Romagna- portata a modello
di questo sentiero di sviluppo; ma lo stesso lo possiamo ripetere
per il Triveneto, la Toscana, le Marche. Anche il Piemonte e
la Lombardia, pur con la presenza delle uniche grandi imprese
italiane, sono economie regionali piene di "distretti industriali",
ovvero di insiemi di piccole imprese fra loro collegate.
L'aspetto positivo di questo tipo di sviluppo è nel rapporto
tra una società civile ricca e un sistema produttivo
ricco. E' un circolo virtuoso quello che si è creato fra
questi due ambiti. Un circolo che vede continuamente la nascita
dalla società civile di nuovi imprenditori che, a loro volta,
fanno più ricca la società civile.
Al Sud questo circolo virtuoso, oggi non c'è; quello che c'è
è invece una nuova leva di Sindaci ed amministratori capaci
ed onesti, quelli risultati vincitori alle elezioni amministrative
di questi ultimi tempi. Non è poco per sperare.
La scuola base di ogni ricchezza
Da dove ricominciare allora per ricostruire una società civile?
Dalla scuola; non ho dubbi su questo.
In una società democratica è dalla scuola che, insieme alla
Famiglia, passa la formazione dei giovani; è dalla scuola che
deve passare la selezione della classe dirigente.
Quando questa selezione avviene al di fuori di essa c'è qualcosa,
che non va. Vuol dire che la selezione è fatta dalle "consorterie"
del potere, o da qualcosa di peggio.
Noi vogliamo una scuola che sia davvero la base di ogni ricchezza,
l'elemento cardine dello sviluppo sociale ed economico del Paese.
"Il futuro si gioca in classe" -ho avuto modo di dire
più volte. Ecco perché dobbiamo rifare la scuola.
E' vero: gli effetti di un buon sistema scolastico si fanno
immediatamente sentire sul ritmo di crescita economica di un
Paese (e basta pensare all'esperienza di questo secondo dopoguerra
di Germania e Giappone).
Tuttavia, è in gioco qualcosa di più grande: il compito dell'educazione
non consiste soltanto nel preparare operatori capaci.
Non è in gioco, in altri termini, soltanto l'efficienza di
un sistema, bensì anche la sua equità.
Nelle nostre moderne democrazie è la scuola che deve difendere
e promuovere i diritti d'accesso di tutti alla società civile.
Tutti i cittadini , non mi stancherò mai di ripeterlo, hanno
diritto di fare la loro corsa per affermarsi proprio come cittadini.
La scuola così come è oggi in Italia non va. Si sta troppo
poco in classe (8 anni nella scuola d'obbligo) e troppi non
ci stanno affatto (la dispersione scolastica, in Italia, è altissima);
il risultato è un enorme spreco di energie giovanili.
Fra le riforme da farsi con urgenza, ne voglio segnalare due:
l'innalzamento dell'età dell'obbligo (da subito, almeno dieci
anni di scuola) e l'istituzione - su base regionale - di una
rete di scuole tecniche superiori, legate alla vocazione produttiva
del territorio in cui sorgono.
A questo punto dobbiamo guardare più da vicino al rapporto
fra formazione ed occupazione.