Complessa per definizione,
la societa' industriale presenta problemi che sono molto piu'
numerosi, e molto spesso piu' profondi, quando non addirittura
radicali, di quelli che vengono percepiti dall'opinione pubblica
e che emergono nella discussione quotidiana. E' il modo stesso
con cui il dibattito prende corpo, suscitato e scandito dalle
contingenze politiche o dall'asprezza delle emergenze economiche,
a porre in ombra le tendenze di lungo periodo, le dinamiche strutturali,
cio' che attraversa le difficolta' immediate senza condensarsi
in una fase tanto critica da essere immediatamente individuabile.
Una simile constatazione vale in generale, ma risulta essenziale
nel caso dell'istruzione. Negli Stati Uniti, quando la discussione
politica si accende (soprattutto nelle vicinanze delle elezioni
presidenziali) si usa accennare alla 'questione dei ponti e
delle scuole'. Cioe' di quelle infrastrutture che in apparenza
non necessitano di alcuna manutenzione, che sembrerebbero in
grado di resistere all'usura del tempo senza interventi particolari;
ma che all'improvviso, se sono state trascurate troppo a lungo,
possono entrare in una fase estremamente critica, al cui termine
ci puo' essere il collasso (il crollo del ponte, o la sua temporanea
inutilizzabilita') oppure la rivelazione della loro sopraggiunta
inadeguatezza rispetto al mutare delle esigenze. Il sistema
scolastico puo' rivelarsi non piu' all'altezza delle richieste
e delle aspettative che la societa' nutre nei suoi confronti.
Al culmine della fase critica, si viene colti da una vertigine
al pensiero che un manufatto cosi' apparentemente stabile, definitivo,
apparentemente senza costi come un ponte necessita di investimenti
straordinari per assicurare la banalissima funzione per cui
e' stato costruito. E che la scuola, di cui nessuno sembrava
occuparsi, deve essere riprogettata. Essa non puo' piu' continuare
a essere un'organizzazione impegnata soltanto a perpetuare se
stessa ingoiando energie, risorse, intelligenza a dispetto dei
risultati e del particolarissimo 'prodotto' che dovrebbe realizzare.
In realta', non abbiamo nemmeno uno strumento efficace di misura
per definire la qualita' della formazione scolastica in una
societa' post-industriale. E quindi corriamo almeno due rischi
strettamente intrecciati: di continuare in primo luogo ad alimentare
inerzialmente una "macchina inutile", un sistema educativo sempre
piu' sfasato rispetto al mutare della societa', del lavoro,
della politica, dell'economia, con il risultato di produrre
una specie di nuovo analfabetismo di massa. L'analfabetismo
del giorno d'oggi, naturalmente, non e' soltanto l'incapacita'
di leggere e scrivere. Se dovessimo darne la definizione piu'
concisa possibile potremmo dire che consiste nell'incapacita'
di comprendere gli elementi fondamentali della complessita'
di un sistema o della complessita' di un lavoro.
Si e' parlato spesso, finche' a un certo punto e' diventata
una moda, di qualita' totale. Al di la' dell'uso pubblicitario
che se ne e' fatto, o del logoramento che l'espressione ha subito,
si dovrebbe tuttavia essere ben coscienti che qualita' totale
significa che dentro a una fabbrica, a qualsiasi organizzazione
produttiva, tutti, compresi il portinaio e l'operaio di qualifica
inferiore, debbono capire gli elementi fondamentali non solo
del loro lavoro di routine, ma di tutto l'ambiente in cui operano.
E non possono non conoscere gli elementi fondamentali della
matematica e della statistica. Perche', quale che sia la loro
funzione, devono fare i conti con problemi anche minimi in cui
tuttavia matematica e statistica hanno un ruolo. In questo senso,
la giornata di un dirigente e la giornata di un operatore di
basso livello sono differenti soltanto per la responsabilita'
rispettivamente assunta e per la profondita' della competenza,
ma l'ambito in cui la competenza si esplica e' inevitabilmente
lo stesso. Non appaia troppo impegnativa, questa primissima
constatazione. La tentazione di tradurla nella freddura per
cui occorrerebbero uscieri con la laurea va evitata. Perche'
se ci si pensa con un minimo di attenzione, risulta chiaro che
in una struttura altamente informatizzata, anche il personale
meno qualificato deve sapere usare un computer: altrimenti non
puo' neppure comunicare, muoversi nella rete operativa, orientarsi
nel piu' semplice lavoro quotidiano. L'apparente paradosso si
rivela quindi una semplice verita'. Dovrebbe risultare doveroso
adeguarsi a essa. Invece si direbbe che purtroppo stiamo andando
incontro a una progressiva e sempre piu' profonda scissione
tra i concetti che ormai dovrebbero fare parte del nostro modo
di vedere la realta' e le risorse umane di cui poi in pratica
riusciamo a disporre. E' qualcosa di simile a una schizofrenia.
Non ci viene in mente, ne' tantomeno riflettiamo, che di fronte
ai metodi, agli obiettivi, ai problemi imposti oggi dal mondo
del lavoro, il diplomato di scuola media inferiore equivale
perfettamente all'analfabeta di due generazioni fa. Cio' malgrado,
in Italia continuiamo ad avere un sistema scolastico che prevede
l'obbligo soltanto fino a 14 anni: un'eccezione colpevolmente
negativa tra i paesi occidentali e non solo occidentali.
Una lingua per dialogare
Una riflessione sistematica sul sistema formativo richiederebbe
studi pazienti, confronti delle varie realta' internazionali,
verifiche puntuali e rigorose dei rapporti tra il prodotto della
scuola, cioe' gli studenti diplomati, e il mercato del lavoro.
Ma prima ancora dei riscontri empirici e' opportuno e necessario
sollevare esplicitamente il problema dell'istruzione come problema
essenzialmente politico. Qualcuno e' in grado di citare quali
riforme significative sono state realizzate nel nostro Paese dopo
la riforma della scuola media? Ci sono stati dibattiti pubblici
significativi e prolungati a proposito della questione scolastica?
Dopo il caso della Pantera, si vedono pagine di quotidiani e settimanali
dedicate a un problema cosi' cruciale? Qualcuno ricorda mobilitazioni
pubbliche per la scuola inferiore? Non si direbbe. Per questo,
anche una riflessione legata ad alcune impressioni immediate puo'
risultare di qualche significato. Naturalmente e' una riflessione
che guarda la scuola con la lente dell'economia, e questo puo'
apparire un limite: il compito dell'educazione non consiste soltanto
nel preparare operatori capaci. Tuttavia economia significa lavoro,
e il lavoro e' l'ambito nel quale le competenze si misurano, le
culture si applicano, la cittadinanza scende dall'astrazione delle
formule alla realta' concreta, dai diritti presunti ai doveri
e ai compiti effettuali. E il lavoro non e' piu', non dovrebbe
essere piu' qualcosa di racchiuso in se stesso, limitato ai confini
provinciali di un'azienda, e neppure di un paese. Occorrono strumenti
per poter lavorare su un piano molto ampio, a partire da un linguaggio
con cui comunicare. Pensiamo al caso piu' immediato, quello dell'inglese.
Siamo ormai davanti a un un dato di fatto: chi non conosce l'inglese
sta diventando analfabeta. Perche' non e' in grado di dialogare.
Altrove, nell'Europa del Nord, in Germania, nella stessa Francia
che siamo abituati a considerare una patria dell'orgoglio linguistico
nazionale, lo hanno capito da tempo. Dovrebbe essere chiaro anche
per noi: quando viene rammentato il don Milani della Lettera a
una professoressa, non si dovrebbe ricordare soltanto un messaggio
di riscatto sociale, ma forse anche una suggestione di metodo.
Dovrebbe stare a noi comprendere che quell'ormai lontano discorso
sull'italiano come 'lingua dei signori' di fronte alla lingua
dei poveri, il dialetto, muro simbolico e pratico per attestare
la differenza di classe, vale anche oggi per attestare il dislivello
fra il 'dialetto' italiano e l'ormai acquisita universalita' dell'inglese.
Il nostro sistema scolastico non sembra essersi accorto dell'importanza
strategica di questi temi. Inglese, obbligo scolastico esteso
e conoscenza della matematica e della statistica sono essenziali
per la qualita' del sistema complessivo. Sono considerazioni
elementari, ma dovrebbero essere sufficienti, almeno intuitivamente,
per sottolineare che la scuola e' a tutti gli effetti l'elemento
cardine dello sviluppo economico, molto piu' di qualsiasi altro
fattore. Dovrebbe essere facile essere d'accordo su questo punto:
e in teoria lo sarebbero tutti; nella pratica, pero', esiste
una specie di cecita' di fronte a queste esigenze basilari di
adeguamento del sistema educativo.
Come investire nella scuola
Eppure, se si guarda a qualche esperienza fuori dai nostri
confini, se ne possono trarre insegnamenti piuttosto significativi.
E non solo nel caso dei paesi avanzati. Anche nel Terzo Mondo
si registra ormai una correlazione strettissima tra spese destinate
alla scuola e sviluppo. Se ad esempio prendiamo i bilanci della
scuola della Corea del Sud e' facile capire perche' questo paese,
ormai una delle economie forti del mondo asiatico, ha compiuto
passi in avanti cosi' vistosi. Non e' solo questione di manodopera
a basso costo o di ipersfruttamento. Se esaminiamo lo sforzo
che ha fatto e sta facendo la Thailandia negli ultimi anni per
un'istruzione di massa si comincia a capire qual e' l'origine
dello sviluppo.
Dunque la scuola e' un investimento, e come tutti gli investimenti
non puo' essere illimitato, svincolato dalle compatibilita'
di un paese. Come si puo' dunque finanziare oggi, nelle nostre
difficolta' di bilancio statale, un obbligo piu' esteso? Innanzitutto
occorre chiarezza: non c'e' alcuna ragione perche' il numero
dei nostri insegnanti debba essere cosi' superiore a quello
degli altri paesi europei. Non c'e' nessuna spiegazione plausibile
del fato che le nostre classi debbano avere in media dieci studenti
in meno delle classi francesi o delle classi tedesche. I problemi
dell'occupazione, se e' questo che preoccupa tutti, devono essere
risolti in un altro modo. Alcuni mesi fa, un voto della Commissione
finanze del Senato aveva portato a 22 il numero minimo di studenti
per ciascuna classe. Immediatamente, il governo ha cancellato
con un emendamento questa proposta: eppure ventidue e' un numero
nettamente inferiore alla media europea. Il fatto e' che quando
facciamo il discorso delle risorse che mancano non diciamo la
verita' tutta intera. Se noi mettiamo uno studente per classe
le risorse mancheranno sempre. Il problema e' di capire che
quello scolastico e' un settore in cui dobbiamo impiegare le
risorse razionalmente, esattamente come, seppure ancora a fatica,
si fa o si dovrebbe fare negli altri settori. L'altro aspetto
su cui dobbiamo meditare a fondo e' che stiamo per essere emarginati
dai sistemi scolastici che attraggono gente dall'estero. Come
conseguenza, non riusciamo ad attrarre studenti stranieri se
non in qualche programma di arte, letteratura, poc'altro. Puo'
apparire un aspetto marginale; nella realta' e' uno degli elementi
piu' dannosi nell'economia di un paese. Alcuni esempi lo rivelano.
L'industria elettromedicale americana si e' affermata sul piano
mondiale per gli effetti del grande numero di medici di altri
paesi che fanno pratica negli ospedali americani. Con la squadra
degli studenti stranieri che frequentano le sue scuole tecniche,
la Germania sta riempiendo dei propri beni strumentali tutto
il Terzo Mondo. Come si vede, anche aspetti che sembrano avere
un rilievo minore hanno effetti di grande importanza.
Un'istruzione per un nuovo tipo di sviluppo
La riflessione sul sistema scolastico investe nella sua completezza
il rapporto fra scuola e industria. Il nostro paese ha conosciuto
uno sviluppo industriale con una forte imprenditorialita' anche
senza essere dotato di una larghissima professionalita' diffusa.
Tutta la nostra piccola e media industria ha largamente approfittato
di questo periodo. Ma adesso stiamo giungendo a una situazione
che si profila completamente diversa. Se vogliamo essere competitivi,
praticare una concorrenza ad alto livello, dobbiamo avere alle
spalle un'elevata competenza professionale.
Nel nostro paese il dibattito su questi temi e' esoterico.
Non infiamma l'opinione pubblica. Non provoca titoli sui giornali
ne' talk-show televisivi. Chi invece ha osservato il dibattito
sulla scuola che si e' svolto negli ultimi anni negli Stati
Uniti ne ha notato la fortissima intensita'. Che cosa ha spaventato
l'America? Che cosa l'ha indotta a interrogarsi sulla qualita'
del proprio settore educativo? E' stato qualcosa di simile a
cio' che avvenne all'epoca dello Sputnik, il timore del confronto.
Sulla base di test condotti in parallelo in diversi paesi, l'America
ha verificato con angoscia che i suoi ragazzi sono nella media
assai piu' ignoranti della maggior parte dei ragazzi dei paesi
europei. Si e' creato un vivo allarme, dovuto anche al fatto
che il livello riscontrato appariva significativamente piu'
basso di quello dei piu' inquietanti competitors economici degli
Stati Uniti, vale a dire il Giappone, Singapore e diversi altri
paesi asiatici.
Teniamo anche conto di un altro aspetto: la struttura della
nostra impresa si e' formata, molto piu' che in altri paesi,
su 'grappoli' informali di apprendimento, non su strutture di
conoscenza costruite e consolidate in vista di un definito itinerario
di sviluppo. Se confrontiamo, come ha fatto M.E. Porter nel
suo libro sul vantaggio competitivo, lo sviluppo industriale
in Italia, Giappone, Stati Uniti, emerge un dato di estrema
importanza: il 'meraviglioso sviluppo' italiano e' avvenuto
senza che vi fossero i supporti scolastici presenti negli altri
paesi. Di solito questi supporti sono quattro. 1)JJUna 'scuola
continua' dentro le imprese. 2)JJLaboratori di ricerca applicati
che lavorano insieme alle imprese (e quindi, sia chiaro, non
legati a valori di tipo strettamente universitario: da noi invece
Cnr ed Enea nella maggior parte dei casi si sono sviluppati
sulla linea della ricerca universitaria, non sulla linea delle
imprese). 3)JJI laboratori universitari per le ricerche di punta
legati ai settori produttivi che dominano in una determinata
area territoriale (anche questi sono mancati in Italia, o perlomeno
non sono stati creati in modo sistematico). 4)JJLe scuole tecniche
post-diploma che alternano una preparazione generale a una specifica
preparazione di settore. Qualcosa e' stato tentato in questa
direzione negli ultimi anni, ma cio' malgrado e' indubbio che
questo modello e' risultato al di fuori della nostra tradizione.
Come si e' detto, le nostre strutture di piccole imprese hanno
proceduto mediante un addestramento in prevalenza informale;
con la caccia al tecnico come singolo, sottratto alla concorrenza,
preso sul mercato gia' preparato e portato di peso nell'azienda.
Senza rapporti con le universita', se non per questioni di semplice
routine. Senza i rapporti con il Cnr e l'Enea, dato che questi
ultimi erano attratti soprattutto dalla logica universitaria.
Fino a oggi il sistema ha funzionato, ma lo sviluppo che si
prospetta ha la caratteristica di essere radicalmente diverso
da quello che abbiamo vissuto finora. E' necessario quindi che
ogni attore del processo produttivo comprenda le linee guida
del progetto a cui partecipa. Solo cosi' ci si puo' aspettare
di poter reggere alla concorrenza internazionale. Ci sono molti
settori in Italia in cui il costo del lavoro e' altissimo rispetto
a paesi in via di sviluppo, ma che continuano a essere competitivi.
Il segreto risiede in un tasso di produttivita' talmente alto
da compensare il maggiore costo del lavoro nella produzione
di beni di elevatissima qualita'. In Germania il costo del lavoro
e' ancora piu' alto che in Italia, ma la Germania e' il paese
delle scuole tecniche che abbiamo descritto in precedenza (e'
anche il paese in cui i grandi tecnici non si vergognano di
lavorare accanto e dentro a un'impresa). Si puo' anche spiegare
su questa base la scarsa propensione che il sistema produttivo
ha mostrato rispetto al finanziamento del sistema universitario.
Universita' come quella di Oxford arrivano tranquillamente a
350 milioni di sterline di raccolta nei finanziamenti. Sono
piu' di 800 miliardi di lire. Nessun rettore di un'universita'
italiana se lo puo' sognare.
Il motivo lo abbiamo gia' individuato. Attenzione, pero':
il discorso e' reciproco. L'universita' ha bisogno dell'industria,
ma anche il mondo dell'industria ha bisogno dell'universita'.
Il tracciato non puo' essere che a due vie. Il mondo dell'impresa
ha bisogno di confrontarsi con una societa' che e' composta
non solo di professori ma e' fatta anche di strutture produttive
che sono necessarie alla scuola stessa per progredire.
Copiare, copiare, copiare
Restiamo alla situazione europea. Si dice ormai generalmente
che sui politecnici ci giochiamo la battaglia del nostro futuro.
Li chiamiamo politecnici (e non semplicemente universita'),
sono le scuole tecniche applicate dopo il diploma di scuola
media superiore. In Gran Bretagna oggi vengono frequentate da
550 mila studenti. C'e' stato uno sviluppo impressionante: una
generazione fa gli iscritti solo 120 mila; nel primo dopoguerra
semplicemente non esistevano.
A un processo analogo si e' assistito in Francia. Come hanno
fatto? hanno deliberatamente copiato le scuole tecniche tedesche.
Senza dichiararlo nei programmi di governo, naturalmente, tuttavia
hanno capito perfettamente che li' c'era un modello adeguato
alla societa' nuova. Se i francesi hanno copiato, perche' non
dovremmo copiare anche noi? Il modello tedesco ha funzionato
in modo eccellente, ed e' stato perfezionato con una legge federale
nel 1979. Si tratta di scuole che posseggono uno spiccato orientamento
applicativo. Si collocano dopo la media superiore e offrono
ai ragazzi una scelta autentica, e non un menu' unico come l'universita'.
Non siamo ancora in grado di reagire a come si stanno realizzando
(e di valutare come funzionano o funzioneranno) i 'cicli brevi'
da poco introdotti nel nostro paese. Finora tuttavia si deve
registrare che l'Italia e' stata l'unico paese europeo dotata
di una sola scelta sostanziale: l'universita'. Il che implica
qualcosa di intrinsecamente assurdo, dal momento che esiste
una gamma di vocazioni, di intelligenze applicative diverse
da quelle teoriche, che potrebbero trovare piena valorizzazione
in un politecnico anziche' una frustrazione talvolta drammatica
nell'universita'.
Occorre chiarire un altro aspetto: le scuole tecniche tedesche
non sono scuole di serie inferiore. Rappresentano scelte alternative
che tuttavia coinvolgono, poiche' presentano diversi livelli
e diverse specializzazioni, l'intera societa'. Hanno una durata
di alcuni semestri, di cui almeno due passati in stage nella
realta' del lavoro sul campo. E, si noti bene, i docenti delle
materie applicate non sono mai docenti di scuola ma operatori
nelle imprese. La prima obiezione che si potrebbe formulare
e': costano molto. Ecco un errore: in realta' costano moltissimo.
Il Baden-Wrttemberg, un Land tedesco che mostra livelli di produttivita'
di tipo giapponese, ha speso nell'ultimo bilancio 210 milioni
di marchi, circa duecento miliardi di lire. E tuttavia si tratta
di importi assolutamente irrisori se li paragoniamo all'importo
dei sussidi che le nostre regioni offrono all'agricoltura o
ad attivita' che sono in perdita e sulle quali non si puo' nutrire
alcuna aspettativa che ritornino a essere produttive. Oppure
se ne confrontiamo i risultati con i costosissimi corsi di finto
aggiornamento professionale; Quindi, se tanto ci da' tanto,
siamo autorizzati a pensare che bilanci per le scuole applicate
come quelli dei nder tedeschi siano alla portata anche dei bilanci
delle nostre regioni. Nel Baden-Wrttemberg c'e' un 'sistema
di scuola tecnica superiore'; ma a Mannheim c'e' l'indirizzo
meccanico, a Reutlingen il marketing internazionale, altrove
l'indirizzo economico, ecc. Ogni zona ha la sua scuola tecnica,
a cui gli studenti si rivolgono a grappolo dalle aree vicine.
Possibile che non ci sia ancora venuto in mente che questo modello
possa essere traducibile anche in italiano, proprio come e'
stato tradotto in versione inglese e francese? A Prato ci sarebbe
la scuola della tecnologia tessile, a Pistoia (citta' dei vivai)
quella dei tecnici agrari, a Firenze quella della gestione economica
o del marketing internazionale, o del turismo. Cosi' in Emilia,
cosi' in Lombardia.
A ognuno secondo la sua vocazione, si potrebbe dire. Ogni
regione puo' allestire un quadro di questo tipo. Cio' che e'
certo e' che bisogna avere una idea chiara delle necessita',
della gerarchia di priorita'; e in primo luogo sapere esattamente
che cosa e' una scuola tecnica superiore adatta a una societa'
industriale. Definiamola nel modo seguente: e' un'istruzione
non universitaria successiva al diploma di scuola media superiore
(o parallela agli ultimi due anni della scuola media superiore),
di durata almeno biennale, che comprende almeno 1800 ore di
attivita' didattica e che fa acquistare abilita' professionali
tecniche, industriali, amministrative e commerciali. Realizzata
con la collaborazione di aziende, organismi espressione di settori
produttivi di beni e servizi, dei sindacati, del mondo professionale
e con la partecipazione di comunita' locali, delle camere di
commercio, delle universita' e delle scuole superiori.
Abbiamo accennato solo di sfuggita al diploma universitario
di primo livello. E' stata un'innovazione utile, importante,
necessaria: che aiutera' a diminuire lo spreco vistoso e drammatico
dei 70 studenti su cento che non riescono a laurearsi, cioe'
uno dei piu' singolari drammi civili del nostro paese. Tuttavia,
lo sappiamo gia', il diploma universitario non e' la stessa
cosa delle scuole tecniche. Ci sono ancora oggi preoccupazioni
sulla sorte di questi corsi, ma almeno una preoccupazione non
c'e': quella relativa all'incompatibilita' con le scuole di
cui abbiamo discusso prima.
Scuola uguale solidarieta'
In conclusione: viviamo nell'unico paese europeo caratterizzato
dal non avere il doppio sistema di istruzione superiore, quello
accademico e quello pratico. Non si vede come la societa' civile
si possa preoccupare di questo problema se coloro che ne avrebbero
piu' bisogno, cioe' gli industriali, e il sistema produttivo
nel suo complesso, non lo fanno capire in modo determinato,
continuo, incessante. Non e' facile: siamo stati abituati per
anni a proporre il nostro paese come il luogo dell'inventiva,
dell'adattabilita', della flessibilita'. Mentre dobbiamo essere
consapevoli che oggi la creativita' non puo' esplicarsi senza
strumenti concreti. L'immaginazione priva di basi solide provoca
solo fantasie, abbellimenti artificiali della realta'.
Osservando direttamente alcune esperienze in varie zone d'Italia,
ci si puo' accorgere che anche gli amministratori piu' intelligenti
e lungimiranti hanno in mente un modello solo: vogliono l'universita'
locale, fosse pure una facolta' minore trapiantata a freddo,
perche' la spinta che avvertono dalla loro base e' orientata
soltanto verso l'universita'. Dobbiamo impegnarci a riformare
questa cultura, perche' se non lo facciamo non entreremo in
Europa con tutta la nostra societa', ma soltanto con una sua
piccola parte, quella che va nell'universita'. Si profila per
noi, anche se a un livello infinitamente inferiore, il problema
di fondo degli Stati Uniti: dove ci sono le migliori universita'
del mondo, che pero' formano soltanto il 3 per cento della popolazione;
con contraccolpi pesantissimi sul settore economico, perche'
con il 3 per cento delle generazioni giovani non si fa un'industria
ad alto livello. L'industria ad alto livello si fa curando fino
all'eta' matura il 90 per cento della popolazione, come avviene
in Germania. Non e' soltanto una questione di efficienza: in
fondo, se ci si pensa bene e' questione di applicare in modo
dinamico un modello di solidarieta'. Per dirla con Dahrendorf,
la scuola deve difendere i diritti d'accesso di tutti alla societa'
civile. Sono queste le regole della societa' moderna, sono le
regole nuove, e quindi di un nuovo modello educativo. E' un
nuovo decalogo: fra i suoi principi di base, alta dipendenza
dal mercato, ampio ricorso a docenti provenienti dal mondo del
lavoro, profondo impegno del mondo delle imprese e delle amministrazioni
locali, una durata da due a quattro anni.
Ma il primo dovere, il primo atto di modernita' e di consapevolezza,
consiste nell'elevare l'obbligo scolastico miglioramento va
costruito dal basso, creando abitudini, consolidando una tradizione.
E l'abitudine alla scuola, alla formazione, a una crescita collettiva
per via istituzionale, dovremmo averlo ormai capito a nostre
spese, non si improvvisa.