La storia de L'Ulivo: IL PROGRAMMA

La società istruita.
Perché il futuro italiano si gioca in classe.

Complessa per definizione, la societa' industriale presenta problemi che sono molto piu' numerosi, e molto spesso piu' profondi, quando non addirittura radicali, di quelli che vengono percepiti dall'opinione pubblica e che emergono nella discussione quotidiana. E' il modo stesso con cui il dibattito prende corpo, suscitato e scandito dalle contingenze politiche o dall'asprezza delle emergenze economiche, a porre in ombra le tendenze di lungo periodo, le dinamiche strutturali, cio' che attraversa le difficolta' immediate senza condensarsi in una fase tanto critica da essere immediatamente individuabile.

Una simile constatazione vale in generale, ma risulta essenziale nel caso dell'istruzione. Negli Stati Uniti, quando la discussione politica si accende (soprattutto nelle vicinanze delle elezioni presidenziali) si usa accennare alla 'questione dei ponti e delle scuole'. Cioe' di quelle infrastrutture che in apparenza non necessitano di alcuna manutenzione, che sembrerebbero in grado di resistere all'usura del tempo senza interventi particolari; ma che all'improvviso, se sono state trascurate troppo a lungo, possono entrare in una fase estremamente critica, al cui termine ci puo' essere il collasso (il crollo del ponte, o la sua temporanea inutilizzabilita') oppure la rivelazione della loro sopraggiunta inadeguatezza rispetto al mutare delle esigenze. Il sistema scolastico puo' rivelarsi non piu' all'altezza delle richieste e delle aspettative che la societa' nutre nei suoi confronti. Al culmine della fase critica, si viene colti da una vertigine al pensiero che un manufatto cosi' apparentemente stabile, definitivo, apparentemente senza costi come un ponte necessita di investimenti straordinari per assicurare la banalissima funzione per cui e' stato costruito. E che la scuola, di cui nessuno sembrava occuparsi, deve essere riprogettata. Essa non puo' piu' continuare a essere un'organizzazione impegnata soltanto a perpetuare se stessa ingoiando energie, risorse, intelligenza a dispetto dei risultati e del particolarissimo 'prodotto' che dovrebbe realizzare. In realta', non abbiamo nemmeno uno strumento efficace di misura per definire la qualita' della formazione scolastica in una societa' post-industriale. E quindi corriamo almeno due rischi strettamente intrecciati: di continuare in primo luogo ad alimentare inerzialmente una "macchina inutile", un sistema educativo sempre piu' sfasato rispetto al mutare della societa', del lavoro, della politica, dell'economia, con il risultato di produrre una specie di nuovo analfabetismo di massa. L'analfabetismo del giorno d'oggi, naturalmente, non e' soltanto l'incapacita' di leggere e scrivere. Se dovessimo darne la definizione piu' concisa possibile potremmo dire che consiste nell'incapacita' di comprendere gli elementi fondamentali della complessita' di un sistema o della complessita' di un lavoro.

Si e' parlato spesso, finche' a un certo punto e' diventata una moda, di qualita' totale. Al di la' dell'uso pubblicitario che se ne e' fatto, o del logoramento che l'espressione ha subito, si dovrebbe tuttavia essere ben coscienti che qualita' totale significa che dentro a una fabbrica, a qualsiasi organizzazione produttiva, tutti, compresi il portinaio e l'operaio di qualifica inferiore, debbono capire gli elementi fondamentali non solo del loro lavoro di routine, ma di tutto l'ambiente in cui operano. E non possono non conoscere gli elementi fondamentali della matematica e della statistica. Perche', quale che sia la loro funzione, devono fare i conti con problemi anche minimi in cui tuttavia matematica e statistica hanno un ruolo. In questo senso, la giornata di un dirigente e la giornata di un operatore di basso livello sono differenti soltanto per la responsabilita' rispettivamente assunta e per la profondita' della competenza, ma l'ambito in cui la competenza si esplica e' inevitabilmente lo stesso. Non appaia troppo impegnativa, questa primissima constatazione. La tentazione di tradurla nella freddura per cui occorrerebbero uscieri con la laurea va evitata. Perche' se ci si pensa con un minimo di attenzione, risulta chiaro che in una struttura altamente informatizzata, anche il personale meno qualificato deve sapere usare un computer: altrimenti non puo' neppure comunicare, muoversi nella rete operativa, orientarsi nel piu' semplice lavoro quotidiano. L'apparente paradosso si rivela quindi una semplice verita'. Dovrebbe risultare doveroso adeguarsi a essa. Invece si direbbe che purtroppo stiamo andando incontro a una progressiva e sempre piu' profonda scissione tra i concetti che ormai dovrebbero fare parte del nostro modo di vedere la realta' e le risorse umane di cui poi in pratica riusciamo a disporre. E' qualcosa di simile a una schizofrenia. Non ci viene in mente, ne' tantomeno riflettiamo, che di fronte ai metodi, agli obiettivi, ai problemi imposti oggi dal mondo del lavoro, il diplomato di scuola media inferiore equivale perfettamente all'analfabeta di due generazioni fa. Cio' malgrado, in Italia continuiamo ad avere un sistema scolastico che prevede l'obbligo soltanto fino a 14 anni: un'eccezione colpevolmente negativa tra i paesi occidentali e non solo occidentali.

Una lingua per dialogare

Una riflessione sistematica sul sistema formativo richiederebbe studi pazienti, confronti delle varie realta' internazionali, verifiche puntuali e rigorose dei rapporti tra il prodotto della scuola, cioe' gli studenti diplomati, e il mercato del lavoro. Ma prima ancora dei riscontri empirici e' opportuno e necessario sollevare esplicitamente il problema dell'istruzione come problema essenzialmente politico. Qualcuno e' in grado di citare quali riforme significative sono state realizzate nel nostro Paese dopo la riforma della scuola media? Ci sono stati dibattiti pubblici significativi e prolungati a proposito della questione scolastica? Dopo il caso della Pantera, si vedono pagine di quotidiani e settimanali dedicate a un problema cosi' cruciale? Qualcuno ricorda mobilitazioni pubbliche per la scuola inferiore? Non si direbbe. Per questo, anche una riflessione legata ad alcune impressioni immediate puo' risultare di qualche significato. Naturalmente e' una riflessione che guarda la scuola con la lente dell'economia, e questo puo' apparire un limite: il compito dell'educazione non consiste soltanto nel preparare operatori capaci. Tuttavia economia significa lavoro, e il lavoro e' l'ambito nel quale le competenze si misurano, le culture si applicano, la cittadinanza scende dall'astrazione delle formule alla realta' concreta, dai diritti presunti ai doveri e ai compiti effettuali. E il lavoro non e' piu', non dovrebbe essere piu' qualcosa di racchiuso in se stesso, limitato ai confini provinciali di un'azienda, e neppure di un paese. Occorrono strumenti per poter lavorare su un piano molto ampio, a partire da un linguaggio con cui comunicare. Pensiamo al caso piu' immediato, quello dell'inglese. Siamo ormai davanti a un un dato di fatto: chi non conosce l'inglese sta diventando analfabeta. Perche' non e' in grado di dialogare. Altrove, nell'Europa del Nord, in Germania, nella stessa Francia che siamo abituati a considerare una patria dell'orgoglio linguistico nazionale, lo hanno capito da tempo. Dovrebbe essere chiaro anche per noi: quando viene rammentato il don Milani della Lettera a una professoressa, non si dovrebbe ricordare soltanto un messaggio di riscatto sociale, ma forse anche una suggestione di metodo. Dovrebbe stare a noi comprendere che quell'ormai lontano discorso sull'italiano come 'lingua dei signori' di fronte alla lingua dei poveri, il dialetto, muro simbolico e pratico per attestare la differenza di classe, vale anche oggi per attestare il dislivello fra il 'dialetto' italiano e l'ormai acquisita universalita' dell'inglese.

Il nostro sistema scolastico non sembra essersi accorto dell'importanza strategica di questi temi. Inglese, obbligo scolastico esteso e conoscenza della matematica e della statistica sono essenziali per la qualita' del sistema complessivo. Sono considerazioni elementari, ma dovrebbero essere sufficienti, almeno intuitivamente, per sottolineare che la scuola e' a tutti gli effetti l'elemento cardine dello sviluppo economico, molto piu' di qualsiasi altro fattore. Dovrebbe essere facile essere d'accordo su questo punto: e in teoria lo sarebbero tutti; nella pratica, pero', esiste una specie di cecita' di fronte a queste esigenze basilari di adeguamento del sistema educativo.

Come investire nella scuola

Eppure, se si guarda a qualche esperienza fuori dai nostri confini, se ne possono trarre insegnamenti piuttosto significativi. E non solo nel caso dei paesi avanzati. Anche nel Terzo Mondo si registra ormai una correlazione strettissima tra spese destinate alla scuola e sviluppo. Se ad esempio prendiamo i bilanci della scuola della Corea del Sud e' facile capire perche' questo paese, ormai una delle economie forti del mondo asiatico, ha compiuto passi in avanti cosi' vistosi. Non e' solo questione di manodopera a basso costo o di ipersfruttamento. Se esaminiamo lo sforzo che ha fatto e sta facendo la Thailandia negli ultimi anni per un'istruzione di massa si comincia a capire qual e' l'origine dello sviluppo.

Dunque la scuola e' un investimento, e come tutti gli investimenti non puo' essere illimitato, svincolato dalle compatibilita' di un paese. Come si puo' dunque finanziare oggi, nelle nostre difficolta' di bilancio statale, un obbligo piu' esteso? Innanzitutto occorre chiarezza: non c'e' alcuna ragione perche' il numero dei nostri insegnanti debba essere cosi' superiore a quello degli altri paesi europei. Non c'e' nessuna spiegazione plausibile del fato che le nostre classi debbano avere in media dieci studenti in meno delle classi francesi o delle classi tedesche. I problemi dell'occupazione, se e' questo che preoccupa tutti, devono essere risolti in un altro modo. Alcuni mesi fa, un voto della Commissione finanze del Senato aveva portato a 22 il numero minimo di studenti per ciascuna classe. Immediatamente, il governo ha cancellato con un emendamento questa proposta: eppure ventidue e' un numero nettamente inferiore alla media europea. Il fatto e' che quando facciamo il discorso delle risorse che mancano non diciamo la verita' tutta intera. Se noi mettiamo uno studente per classe le risorse mancheranno sempre. Il problema e' di capire che quello scolastico e' un settore in cui dobbiamo impiegare le risorse razionalmente, esattamente come, seppure ancora a fatica, si fa o si dovrebbe fare negli altri settori. L'altro aspetto su cui dobbiamo meditare a fondo e' che stiamo per essere emarginati dai sistemi scolastici che attraggono gente dall'estero. Come conseguenza, non riusciamo ad attrarre studenti stranieri se non in qualche programma di arte, letteratura, poc'altro. Puo' apparire un aspetto marginale; nella realta' e' uno degli elementi piu' dannosi nell'economia di un paese. Alcuni esempi lo rivelano. L'industria elettromedicale americana si e' affermata sul piano mondiale per gli effetti del grande numero di medici di altri paesi che fanno pratica negli ospedali americani. Con la squadra degli studenti stranieri che frequentano le sue scuole tecniche, la Germania sta riempiendo dei propri beni strumentali tutto il Terzo Mondo. Come si vede, anche aspetti che sembrano avere un rilievo minore hanno effetti di grande importanza.

Un'istruzione per un nuovo tipo di sviluppo

La riflessione sul sistema scolastico investe nella sua completezza il rapporto fra scuola e industria. Il nostro paese ha conosciuto uno sviluppo industriale con una forte imprenditorialita' anche senza essere dotato di una larghissima professionalita' diffusa. Tutta la nostra piccola e media industria ha largamente approfittato di questo periodo. Ma adesso stiamo giungendo a una situazione che si profila completamente diversa. Se vogliamo essere competitivi, praticare una concorrenza ad alto livello, dobbiamo avere alle spalle un'elevata competenza professionale.

Nel nostro paese il dibattito su questi temi e' esoterico. Non infiamma l'opinione pubblica. Non provoca titoli sui giornali ne' talk-show televisivi. Chi invece ha osservato il dibattito sulla scuola che si e' svolto negli ultimi anni negli Stati Uniti ne ha notato la fortissima intensita'. Che cosa ha spaventato l'America? Che cosa l'ha indotta a interrogarsi sulla qualita' del proprio settore educativo? E' stato qualcosa di simile a cio' che avvenne all'epoca dello Sputnik, il timore del confronto. Sulla base di test condotti in parallelo in diversi paesi, l'America ha verificato con angoscia che i suoi ragazzi sono nella media assai piu' ignoranti della maggior parte dei ragazzi dei paesi europei. Si e' creato un vivo allarme, dovuto anche al fatto che il livello riscontrato appariva significativamente piu' basso di quello dei piu' inquietanti competitors economici degli Stati Uniti, vale a dire il Giappone, Singapore e diversi altri paesi asiatici.

Teniamo anche conto di un altro aspetto: la struttura della nostra impresa si e' formata, molto piu' che in altri paesi, su 'grappoli' informali di apprendimento, non su strutture di conoscenza costruite e consolidate in vista di un definito itinerario di sviluppo. Se confrontiamo, come ha fatto M.E. Porter nel suo libro sul vantaggio competitivo, lo sviluppo industriale in Italia, Giappone, Stati Uniti, emerge un dato di estrema importanza: il 'meraviglioso sviluppo' italiano e' avvenuto senza che vi fossero i supporti scolastici presenti negli altri paesi. Di solito questi supporti sono quattro. 1)JJUna 'scuola continua' dentro le imprese. 2)JJLaboratori di ricerca applicati che lavorano insieme alle imprese (e quindi, sia chiaro, non legati a valori di tipo strettamente universitario: da noi invece Cnr ed Enea nella maggior parte dei casi si sono sviluppati sulla linea della ricerca universitaria, non sulla linea delle imprese). 3)JJI laboratori universitari per le ricerche di punta legati ai settori produttivi che dominano in una determinata area territoriale (anche questi sono mancati in Italia, o perlomeno non sono stati creati in modo sistematico). 4)JJLe scuole tecniche post-diploma che alternano una preparazione generale a una specifica preparazione di settore. Qualcosa e' stato tentato in questa direzione negli ultimi anni, ma cio' malgrado e' indubbio che questo modello e' risultato al di fuori della nostra tradizione. Come si e' detto, le nostre strutture di piccole imprese hanno proceduto mediante un addestramento in prevalenza informale; con la caccia al tecnico come singolo, sottratto alla concorrenza, preso sul mercato gia' preparato e portato di peso nell'azienda. Senza rapporti con le universita', se non per questioni di semplice routine. Senza i rapporti con il Cnr e l'Enea, dato che questi ultimi erano attratti soprattutto dalla logica universitaria.

Fino a oggi il sistema ha funzionato, ma lo sviluppo che si prospetta ha la caratteristica di essere radicalmente diverso da quello che abbiamo vissuto finora. E' necessario quindi che ogni attore del processo produttivo comprenda le linee guida del progetto a cui partecipa. Solo cosi' ci si puo' aspettare di poter reggere alla concorrenza internazionale. Ci sono molti settori in Italia in cui il costo del lavoro e' altissimo rispetto a paesi in via di sviluppo, ma che continuano a essere competitivi. Il segreto risiede in un tasso di produttivita' talmente alto da compensare il maggiore costo del lavoro nella produzione di beni di elevatissima qualita'. In Germania il costo del lavoro e' ancora piu' alto che in Italia, ma la Germania e' il paese delle scuole tecniche che abbiamo descritto in precedenza (e' anche il paese in cui i grandi tecnici non si vergognano di lavorare accanto e dentro a un'impresa). Si puo' anche spiegare su questa base la scarsa propensione che il sistema produttivo ha mostrato rispetto al finanziamento del sistema universitario. Universita' come quella di Oxford arrivano tranquillamente a 350 milioni di sterline di raccolta nei finanziamenti. Sono piu' di 800 miliardi di lire. Nessun rettore di un'universita' italiana se lo puo' sognare.

Il motivo lo abbiamo gia' individuato. Attenzione, pero': il discorso e' reciproco. L'universita' ha bisogno dell'industria, ma anche il mondo dell'industria ha bisogno dell'universita'. Il tracciato non puo' essere che a due vie. Il mondo dell'impresa ha bisogno di confrontarsi con una societa' che e' composta non solo di professori ma e' fatta anche di strutture produttive che sono necessarie alla scuola stessa per progredire.

Copiare, copiare, copiare

Restiamo alla situazione europea. Si dice ormai generalmente che sui politecnici ci giochiamo la battaglia del nostro futuro. Li chiamiamo politecnici (e non semplicemente universita'), sono le scuole tecniche applicate dopo il diploma di scuola media superiore. In Gran Bretagna oggi vengono frequentate da 550 mila studenti. C'e' stato uno sviluppo impressionante: una generazione fa gli iscritti solo 120 mila; nel primo dopoguerra semplicemente non esistevano.

A un processo analogo si e' assistito in Francia. Come hanno fatto? hanno deliberatamente copiato le scuole tecniche tedesche. Senza dichiararlo nei programmi di governo, naturalmente, tuttavia hanno capito perfettamente che li' c'era un modello adeguato alla societa' nuova. Se i francesi hanno copiato, perche' non dovremmo copiare anche noi? Il modello tedesco ha funzionato in modo eccellente, ed e' stato perfezionato con una legge federale nel 1979. Si tratta di scuole che posseggono uno spiccato orientamento applicativo. Si collocano dopo la media superiore e offrono ai ragazzi una scelta autentica, e non un menu' unico come l'universita'. Non siamo ancora in grado di reagire a come si stanno realizzando (e di valutare come funzionano o funzioneranno) i 'cicli brevi' da poco introdotti nel nostro paese. Finora tuttavia si deve registrare che l'Italia e' stata l'unico paese europeo dotata di una sola scelta sostanziale: l'universita'. Il che implica qualcosa di intrinsecamente assurdo, dal momento che esiste una gamma di vocazioni, di intelligenze applicative diverse da quelle teoriche, che potrebbero trovare piena valorizzazione in un politecnico anziche' una frustrazione talvolta drammatica nell'universita'.

Occorre chiarire un altro aspetto: le scuole tecniche tedesche non sono scuole di serie inferiore. Rappresentano scelte alternative che tuttavia coinvolgono, poiche' presentano diversi livelli e diverse specializzazioni, l'intera societa'. Hanno una durata di alcuni semestri, di cui almeno due passati in stage nella realta' del lavoro sul campo. E, si noti bene, i docenti delle materie applicate non sono mai docenti di scuola ma operatori nelle imprese. La prima obiezione che si potrebbe formulare e': costano molto. Ecco un errore: in realta' costano moltissimo. Il Baden-Wrttemberg, un Land tedesco che mostra livelli di produttivita' di tipo giapponese, ha speso nell'ultimo bilancio 210 milioni di marchi, circa duecento miliardi di lire. E tuttavia si tratta di importi assolutamente irrisori se li paragoniamo all'importo dei sussidi che le nostre regioni offrono all'agricoltura o ad attivita' che sono in perdita e sulle quali non si puo' nutrire alcuna aspettativa che ritornino a essere produttive. Oppure se ne confrontiamo i risultati con i costosissimi corsi di finto aggiornamento professionale; Quindi, se tanto ci da' tanto, siamo autorizzati a pensare che bilanci per le scuole applicate come quelli dei nder tedeschi siano alla portata anche dei bilanci delle nostre regioni. Nel Baden-Wrttemberg c'e' un 'sistema di scuola tecnica superiore'; ma a Mannheim c'e' l'indirizzo meccanico, a Reutlingen il marketing internazionale, altrove l'indirizzo economico, ecc. Ogni zona ha la sua scuola tecnica, a cui gli studenti si rivolgono a grappolo dalle aree vicine. Possibile che non ci sia ancora venuto in mente che questo modello possa essere traducibile anche in italiano, proprio come e' stato tradotto in versione inglese e francese? A Prato ci sarebbe la scuola della tecnologia tessile, a Pistoia (citta' dei vivai) quella dei tecnici agrari, a Firenze quella della gestione economica o del marketing internazionale, o del turismo. Cosi' in Emilia, cosi' in Lombardia.

A ognuno secondo la sua vocazione, si potrebbe dire. Ogni regione puo' allestire un quadro di questo tipo. Cio' che e' certo e' che bisogna avere una idea chiara delle necessita', della gerarchia di priorita'; e in primo luogo sapere esattamente che cosa e' una scuola tecnica superiore adatta a una societa' industriale. Definiamola nel modo seguente: e' un'istruzione non universitaria successiva al diploma di scuola media superiore (o parallela agli ultimi due anni della scuola media superiore), di durata almeno biennale, che comprende almeno 1800 ore di attivita' didattica e che fa acquistare abilita' professionali tecniche, industriali, amministrative e commerciali. Realizzata con la collaborazione di aziende, organismi espressione di settori produttivi di beni e servizi, dei sindacati, del mondo professionale e con la partecipazione di comunita' locali, delle camere di commercio, delle universita' e delle scuole superiori.

Abbiamo accennato solo di sfuggita al diploma universitario di primo livello. E' stata un'innovazione utile, importante, necessaria: che aiutera' a diminuire lo spreco vistoso e drammatico dei 70 studenti su cento che non riescono a laurearsi, cioe' uno dei piu' singolari drammi civili del nostro paese. Tuttavia, lo sappiamo gia', il diploma universitario non e' la stessa cosa delle scuole tecniche. Ci sono ancora oggi preoccupazioni sulla sorte di questi corsi, ma almeno una preoccupazione non c'e': quella relativa all'incompatibilita' con le scuole di cui abbiamo discusso prima.

Scuola uguale solidarieta'

In conclusione: viviamo nell'unico paese europeo caratterizzato dal non avere il doppio sistema di istruzione superiore, quello accademico e quello pratico. Non si vede come la societa' civile si possa preoccupare di questo problema se coloro che ne avrebbero piu' bisogno, cioe' gli industriali, e il sistema produttivo nel suo complesso, non lo fanno capire in modo determinato, continuo, incessante. Non e' facile: siamo stati abituati per anni a proporre il nostro paese come il luogo dell'inventiva, dell'adattabilita', della flessibilita'. Mentre dobbiamo essere consapevoli che oggi la creativita' non puo' esplicarsi senza strumenti concreti. L'immaginazione priva di basi solide provoca solo fantasie, abbellimenti artificiali della realta'.

Osservando direttamente alcune esperienze in varie zone d'Italia, ci si puo' accorgere che anche gli amministratori piu' intelligenti e lungimiranti hanno in mente un modello solo: vogliono l'universita' locale, fosse pure una facolta' minore trapiantata a freddo, perche' la spinta che avvertono dalla loro base e' orientata soltanto verso l'universita'. Dobbiamo impegnarci a riformare questa cultura, perche' se non lo facciamo non entreremo in Europa con tutta la nostra societa', ma soltanto con una sua piccola parte, quella che va nell'universita'. Si profila per noi, anche se a un livello infinitamente inferiore, il problema di fondo degli Stati Uniti: dove ci sono le migliori universita' del mondo, che pero' formano soltanto il 3 per cento della popolazione; con contraccolpi pesantissimi sul settore economico, perche' con il 3 per cento delle generazioni giovani non si fa un'industria ad alto livello. L'industria ad alto livello si fa curando fino all'eta' matura il 90 per cento della popolazione, come avviene in Germania. Non e' soltanto una questione di efficienza: in fondo, se ci si pensa bene e' questione di applicare in modo dinamico un modello di solidarieta'. Per dirla con Dahrendorf, la scuola deve difendere i diritti d'accesso di tutti alla societa' civile. Sono queste le regole della societa' moderna, sono le regole nuove, e quindi di un nuovo modello educativo. E' un nuovo decalogo: fra i suoi principi di base, alta dipendenza dal mercato, ampio ricorso a docenti provenienti dal mondo del lavoro, profondo impegno del mondo delle imprese e delle amministrazioni locali, una durata da due a quattro anni.

Ma il primo dovere, il primo atto di modernita' e di consapevolezza, consiste nell'elevare l'obbligo scolastico miglioramento va costruito dal basso, creando abitudini, consolidando una tradizione. E l'abitudine alla scuola, alla formazione, a una crescita collettiva per via istituzionale, dovremmo averlo ormai capito a nostre spese, non si improvvisa. PER TUTTO L'ULIVO

Il futuro ha radici antiche