da AGGIORNAMENTI SOCIALI n. 3 - Marzo

 

IL CORAGGIO DI PERCORRERE VIE NUOVE

Non vi è dubbio che le elezioni regionali del prossimo 16 aprile costituiranno un test particolarmente significativo per la vita politica italiana. Non solo perché i risultati faranno conoscere gli orientamenti di fondo dell’elettorato, a un anno appena di distanza dalle elezioni politiche del 2001; ma soprattutto perché, dopo la recente riforma costituzionale, le Regioni che nasceranno dalle prossime elezioni, grazie al nuovo statuto che esse stesse si daranno, potranno scegliere ognuna la propria forma di governo, la propria organizzazione e il proprio funzionamento. Sarà possibile, cioè, realizzare dal basso e dalla periferia quella svolta politica, che non si è riusciti finora ad attuare neppure con le leggi n. 59/97 e n.127/97 (le cosiddette "leggi Bassanini"), che, attraverso il decentramento amministrativo, puntavano al superamento del centralismo statale e della burocrazia elefantiaca e a riavvicinare i cittadini alle istituzioni.

In questo contesto, è importante chiedersi, in primo luogo, perché sia stato interrotto il tentativo di rinnovamento messo in atto in questa Legislatura. In secondo luogo, occorre prendere coscienza dei pericoli a cui espongono la conseguente sfiducia dei cittadini e la loro disaffezione verso la politica. Infine, va messo in evidenza che le prossime elezioni regionali offrono obiettivamente l’occasione di riprendere il cammino interrotto e di rinnovare la politica a partire dal basso.

1. Il rinnovamento interrotto

La XIII Legislatura era cominciata bene. La maggioranza che si era formata il 21 aprile 1996 aveva portato nel Paese una ventata di ottimismo e di novità, che faceva sperare finalmente nella possibilità di realizzare la riforma dello Stato cominciando dal Governo centrale. La "filosofia", che aveva unito tra loro le forze politiche dell’Ulivo, era in aperta discontinuità con il passato, e prometteva stabilità alla nuova intesa. Infatti, i partner dell’Ulivo non si erano limitati a stringere un patto elettorale in vista delle elezioni, come si usava nella Prima Repubblica; la novità era che essi, mantenendo ciascuno la propria identità, si erano trovati d’accordo su un programma comune di cose da fare, la cui attuazione era garantita da un leader riconosciuto da tutti.

Questa fu la "filosofia" vincente, in coerenza con le esigenze della democrazia maggioritaria bipolare: chi vince le elezioni governa e chi le perde va all’opposizione; il leader della maggioranza diviene capo del Governo e forma l’esecutivo, senza essere legato da logiche spartitorie o clientelari.

Così, appunto, nacque il Governo Prodi nel 1996. I risultati positivi di questo rinnovamento non tardarono a seguire e, dopo aver rimesso energicamente in sesto i conti pubblici, il 2 maggio 1998 l’Italia faceva il suo ingresso nell’Euro tra i primi undici Paesi dell’Unione Europea. Cosicché si può dire che l’esperienza dell’Ulivo non fu soltanto nuova, ma anche feconda. Perciò, la sua brusca interruzione, il 9 ottobre 1998, giunse imprevista e inspiegabile. In realtà, se la caduta del Governo Prodi si spiega, da un punto di vista "tecnico", con la defezione di Rifondazione Comunista, tuttavia dal punto di vista politico si deve dire che essa fu una prova di immaturità democratica. Gli eventi successivi confermano questo giudizio severo.

Infatti, la fine traumatica dell’Ulivo fu percepita dall’opinione pubblica come un passo verso l’attuazione dell’accordo che Marini (segretario del ppi) e D’Alema (segretario dei ds) avrebbero stretto tra loro. Il piano venne alla luce in occasione della elezione del nuovo Presidente della Repubblica, quando Marini giunse ad accusare pubblicamente D’Alema di non essere stato ai patti, i quali — disse — prevedevano la staffetta Prodi-D’Alema a Palazzo Chigi (senza passare attraverso la legittimazione elettorale) in cambio di un Popolare al Quirinale. L’elezione di Carlo Azeglio Ciampi alla suprema magistratura dello Stato (13 maggio 1999) mandò in fumo quell’accordo; tuttavia, il solo fatto di averlo previsto era un chiaro segno di inversione di rotta e di un ritorno ai metodi della Prima Repubblica. Del resto, un altro segnale nella medesima direzione era già venuto il 18 aprile 1999, quando mancò il quorum al referendum sulla legge elettorale, indetto per abrogare la quota proporzionale residua.

Così, dopo aver interrotto il processo di rinnovamento iniziato dall’Ulivo, con il Governo D’Alema si ritornava in qualche modo al vecchio modello di centro-sinistra. Non a caso, il principale responsabile di questo salto all’indietro fu il sen. Francesco Cossiga, sognatore nostalgico e impenitente di quel "Grande Centro" alla Kohl, che appartiene ormai — e non solo in Italia — al tempo che fu. Infatti, fu proprio l’ex Presidente della Repubblica a concedere a D’Alema la collaborazione che il giorno prima aveva negata a Prodi. L’intento del "Picconatore" è chiaro: perseguire la nascita in Italia di un blocco moderato di centro; ma ovviamente, per raggiungere questo fine, occorre spaccare i due Poli: da una parte, è necessario interrompere l’intesa organica tra popolarismo e sinistra riformista; dall’altra parte, occorre dividere al suo interno anche il Polo di destra, attirando verso il "Grande Centro" i moderati di Forza Italia e spingendo ai margini Alleanza Nazionale. Sfasciare, dunque, sembra la vocazione, l’impegno del "Picconatore". La cosa più incredibile è che vi sia ancora qualcuno disposto a seguirlo, da una rottura all’altra, inseguendo un progetto che, nell’Italia bipolare, è fuori da ogni realtà.

Nello stesso tempo, se il Governo D’Alema è riuscito ad assicurare una certa stabilità e a mantenere una certa continuità programmatica con l’Ulivo, tuttavia esso manifesta molte delle contraddizioni tipiche delle vecchie coalizioni di centro-sinistra, che rendono impervio il cammino del Governo. Esso è già stato costretto al "rimpasto", proprio perché poggia sulla fragile base degli accordi tra i vertici di partito, sui giochi di equilibrio tra i gruppi parlamentari della coalizione, sulla spartizione dei posti di ministro e di sottosegretario. Tutto, secondo il copione già visto nella Prima Repubblica. In altre parole, invece di andare avanti siamo andati indietro e il cammino del rinnovamento, iniziato con tanta speranza, è stato interrotto inspiegabilmente.

Si comprendono dunque la delusione e lo sconcerto dell’elettorato, che si traducono nel distacco dalla politica e nel crescente assenteismo elettorale: alle ultime elezioni europee (13 giugno 1999), trenta italiani su cento non sono andati a votare. A questo punto, è importante che tutti ci rendiamo conto dei gravi pericoli a cui può condurre questa situazione di stallo.

2. I pericoli della situazione

I rischi maggiori sono due. Il primo è quello della deriva plebiscitaria. Infatti, quando entra in crisi la rappresentanza democratica, viene presto la tentazione di affidarsi a un "Uomo forte"; e non manca mai l’uno o l’altro leader pronto ad arringare direttamente il popolo, cercando di screditare le istituzioni e il loro funzionamento. I segnali in questa direzione non mancano oggi in Italia: il frequente ricorso al referendum, che in certa misura esautora sempre più il Parlamento; il diffondersi tra la gente di atteggiamenti "anti-politici" e "anti-partitici", che contrappongono sempre più la società civile alle istituzioni; la crescente frammentazione politica, che favorisce il formarsi di oligarchie e l’emergere dei "poteri forti".

In questa situazione, è politicamente e moralmente irresponsabile che un leader politico (chiunque egli sia) ostenti apertamente insofferenza per le regole della democrazia. Ora, non si può dimenticare che, già nel 1994, l’attuale capo dell’opposizione definì la Corte Costituzionale come una "cupola mafiosa", e non esitò a dichiarare "delegittimato" il Parlamento, quando il 25 gennaio 1995 — dopo la defezione della Lega Nord — dovette lasciare il posto al Governo Dini. Oggi giunge a dichiarare moralmente "illegittime" le prossime elezioni, solo perché il Parlamento ha approvato la legge sulla par condicio. Siamo di fronte a un ennesimo caso di conflitto di interessi. Nessun politico potrebbe mai tutelare equamente l’interesse comune, quando questo fosse in contrasto con un rilevante interesse personale. Ponendo il problema in termini più espliciti: un leader politico che detenga di fatto il monopolio delle tv private a diffusione nazionale, come potrebbe garantire a tutti un uguale uso della televisione a fini di propaganda elettorale, rinunciando al privilegio di cui gode? Si spiegano allora sia l’accusa assurda di "persecuzione politica", rivolta indistintamente a partiti, a magistrati e a istituzioni, sia la denigrazione sistematica delle regole democratiche.

Purtroppo — come la storia insegna — simili comportamenti sono molto pericolosi. Preoccupa, sotto questo aspetto, la svogliata reazione dell’opinione pubblica di fronte al fatto che chi ha come proprio simbolo il Tricolore vada a braccetto con chi lo calpesta e lo disprezza. E, se è vero che la Lega Nord non è il partito di Haider, nessuno però ignora le "affinità elettive" (xenofobia, razzismo, populismo) che esistono tra i due.

Il secondo pericolo della presente situazione è che si finisca col guardare indietro e col tornare a fare politica con i metodi della Prima Repubblica. Anche in questo caso, non mancano i segnali allarmanti: si moltiplicano i casi di trasformismo e di riciclaggio, i "ribaltoni" e i "ribaltini"; ha cambiato direzione il vento, che fino a ieri soffiava a favore del pool di "Mani pulite"; il fossato tra cittadini e politica si allarga ogni giorno più; il cammino delle riforme è praticamente bloccato.

E che dire del modo come si è tentato di spostare indietro l’orologio della storia, in occasione della morte di Craxi? Era doveroso riconoscere gli aspetti positivi della sua azione di governo. Tuttavia il riconoscimento dei meriti non può fare dimenticare che Craxi con la sua latitanza si è sottratto alla giustizia dello Stato democratico, e che i tribunali lo hanno condannato per aver commesso precisi reati, accertati e sanzionati con giudizio definitivo. Perciò l’essersi serviti della emozione suscitata dalla sua morte, per rinverdire la nostalgia del passato e fare riemergere certi vecchi protagonisti, è stato chiaramente un altro segno di ritorno all’indietro.

Ora, di fronte al duplice rischio di una deriva plebiscitaria e di un ritorno alla Prima Repubblica, le prossime elezioni regionali rappresentano invece una importante occasione per guardare avanti, per superare la crisi e riprendere il cammino interrotto del rinnovamento. Ma come?

3. Percorrere vie nuove

Dopo la recente riforma costituzionale in materia di organi regionali (cfr P. Danuvola, F.Mioni, "Regioni e federalismo - Un progetto da rilanciare", in Aggiornamenti Sociali, 2 [febbraio] 2000, 100-113), per la prima volta — il prossimo 16 aprile — il Presidente della Regione verrà eletto direttamente dai cittadini; e per la prima volta ciascuna Regione potrà, attraverso lo strumento dello Statuto regionale, determinare in modo originale (e in armonia con la Costituzione) la propria forma di Governo, la propria organizzazione, la propria legge elettorale (cfr i nuovi artt. 122 e 123 Cost.). La vera novità, insomma, è che in futuro le Regioni avranno la possibilità di darsi non tanto una "giunta" o una "amministrazione", come era prima, ma un vero e proprio "governo". In pratica, i nuovi Consigli regionali che verranno eletti il 16 aprile avranno una sorta di responsabilità costituente, godendo di un potere non più ricevuto dall’alto, ma pensato e realizzato dal basso, espressione della ricchezza e dei valori di quanti vivono sul territorio.

Appare subito chiaro che siamo di fronte a una importante riforma costituzionale, che può segnare l’inizio della riforma dello Stato a cominciare dal basso, riscrivendo le norme che devono regolare il rapporto tra i cittadini e le istituzioni. La riforma delle Regioni renderà più agevole la partecipazione diretta dei cittadini alla costruzione e alla vita dello Stato, e potrà favorire il riavvicinamento della gente alla politica.

Probabilmente non tutte le Regioni sono pronte e preparate, nella stessa misura, a trarre il massimo vantaggio dalla prima applicazione della recente riforma costituzionale. È importante, però, che quelle che sono pronte non perdano tempo. È questo il caso, per esempio, della Regione Lombardia, dove ci si è impegnati a rinnovare l’esperienza dell’Ulivo a livello locale. Infatti, si tenta di dare vita e forma a un "governo" della Lombardia. Pertanto il Consiglio regionale diverrebbe una sorta di parlamento lombardo. Esso dovrebbe disegnare, entro le norme dello Stato, la costituzione della nuova autonomia regionale.

Ovviamente, affinché il tentativo riesca, occorre ritrovare le ragioni forti dell’alleanza, come già avvenne con la prima esperienza dell’Ulivo. Nonostante la diversità di culture politiche, spesso anche in contrasto su determinati punti, è possibile tuttavia incontrarsi in una comune cultura delle riforme, che garantisca insieme libertà ed equità. Perciò, il varo in Lombardia della lista unica dei partiti di centro-sinistra (anche per quanto riguarda la parte "proporzionale" della scheda, quella cioè che elegge i Consiglieri su base provinciale) non significa solamente il superamento del vecchio scenario della Prima Repubblica (che presentava le coalizioni come una mera somma di sigle e di simboli); la lista unica in Lombardia ha valore di un chiaro messaggio politico: sta a indicare l’esistenza di un progetto comune, fondato su una condivisa cultura politica delle riforme, che induce identità diverse a incontrarsi su valori umani di fondo, tali da rendere l’esercizio del potere un vero un servizio alla Regione e al Paese.

È auspicabile, perciò, che si colga questa occasione delle elezioni regionali per innescare una logica virtuosa del bipolarismo. Il tentativo di costruire uno schieramento politico coerente è già meritevole per se stesso. Esso costituisce un passo avanti verso quel "Polo delle solidarietà" (o Ulivo-2), che può condurre il Paese fuori dalle secche di questa transizione infinita. Al di là del risultato elettorale immediato (qualunque esso sia), è importante tentare una strada nuova all’incontro del cattolicesimo democratico con le diverse tradizioni del socialismo riformista e della cultura laica, con i nuovi fermenti della società civile, dell’associazionismo e del volontariato. Mentre il Paese cambia e si apre a nuove forme di partecipazione democratica, c’è bisogno di intelligenza e di coraggio per percorrere vie nuove.

BARTOLOMEO SORGE S.I.


 



Il futuro ha radici antiche