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di Michele Salvati
Se facciamo una correlazione tra le ricette per creare nuovo impiego proposte dalla destra e dalla sinistra - dalla destra e sinistra che ci sono effettivamente, nei paesi avanzati - i risultati che troviamo sono piuttosto ambigui: destra e sinistra, quelle che ci sono, hanno una ricetta molto simile nel Regno Unito e questa ricetta è piuttosto diversa da quella della destra e della sinistra continentali europee. Più in generale, tutte le ricette dei paesi anglosassoni, sia quelle della destra che quelle della sinistra, hanno una forte aria di famiglia: in Australia, Nuova Zelanda, Canada, Stati Uniti, tutti predicano flessibilità di mercato come ricetta dominante. Le cose stanno in modo diverso nell'Europa continentale, dove i "flessibilizzatori" convinti non sono predominanti né nella destra, né nella sinistra. E sono ancora diverse in Giappone: anche qui i flessibilizzatori sono in minoranza sia al Governo che nel principale partito di opposizione: per quest'ultimo, poi, parlare di sinistra mi sembra eccessivo anche se questo termine tollera forti stiracchiamenti. Così stando le cose parlerò prima di occupazione e di politiche per stimolarla, in Europa e in Italia, oggi, alla vigilia dell'Unione Monetaria. Una volta definite queste, mi porrò il problema se esista una sinistra in Italia che sia in grado di sostenerle. Ciò mi condurrà a sottolineare le due caratteristiche che fanno dell'Italia un caso particolare, anche all'interno della "specie" delle sinistre continentali europee: il peso del tutto eccezionale che ha il sindacato nella definizione delle principali politiche pubbliche e, per converso, la divisione e la relativa debolezza dei partiti che si collocano tra la sinistra e il centro. Ciò ha per conseguenza che quelle politiche strutturali che devono accompagnarsi ad una strategia di rilancio dell'occupazione debbono anche appoggiarsi sul consenso del sindacato, un gruppo di interesse che spesso avrebbe buone ragioni organizzative per opporvisi. Si tratta di una situazione anormale, probabilmente non duratura e che dovrà essere oggetto di riflessione e di iniziativa politica in tempi brevi. Veniamo alla disoccupazione europea. Sulle sue cause, e sulle differenze tra la situazione europea e quella americana, sono state scritte biblioteche e non posso neppure a volo d'uccello entrare nel merito tecnico degli argomenti che si contrappongono. Quello che farò è una rapidissima menzione delle principali tesi interpretative che si contrappongono, per descrivere poi un po' più diffusamente quella che trovo più convincente. Prima, però, vorrei sottolineare un paio di elementi di contesto che non bisogna mai perdere di vista. Il primo è che - anche lasciando fuori il Regno Unito, che ha seguito una politica economico-sociale alquanto diversa dagli altri paesi europei - la disoccupazione e i tassi di attività in Europa (e questi due aspetti del mercato del lavoro vanno sempre valutati insieme) sono molto diversi a seconda dei diversi paesi e, soprattutto, a seconda delle diverse regioni in ogni paese. Vi sono paesi, ma soprattutto regioni, in cui i tassi di attività sono alti e la disoccupazione non è un problema. E vi sono regioni e paesi - tra i paesi la Spagna, tra le regioni il nostro Mezzogiorno e i Lander orientali tedeschi - in cui i livelli di attività sono bassi e la disoccupazione è alta. In altri ancora, la disoccupazione è alta, ma il tasso di attività è abbastanza elevato da neutralizzare parzialmente gli effetti della disoccupazione sul reddito famigliare. Il secondo elemento di contesto è quello dell'Unione Monetaria. Per gran parte degli anni '90, l'esigenza di rispettare i criteri di convergenza del trattato di Maastricht ha imposto a molti paesi - soprattutto a quelli che provenivano da, diciamo così, situazioni più disordinate - politiche fiscali e monetarie molto restrittive. Questo ha prodotto un rallentamento significativo nella crescita economica, rallentamento più forte nei paesi provenienti dalle situazioni più "disordinate", se vogliamo continuare a usare questo eufemismo. In Italia, nel corso degli anni '90, si è perso almeno un punto annuo medio rispetto agli altri paesi europei e quasi due rispetto agli Stati Uniti: su un periodo che ormai è quasi decennale, si tratta di otto-quindici punti percentuali di arretramento relativo nel reddito pro capite, a seconda del paese con il quale ci confrontiamo, e non è una piccola cosa. Fa sempre parte del contesto che stiamo descrivendo il realistico timore che i patti di stabilità - cioè i vincoli sulla politica fiscale dei singoli paesi chela Germania ha imposto al vertice di Amsterdam - protraggano una situazione di scarso sviluppo per tutti i prossimi anni; per tutti gli anni, e non saranno pochi, in cui la credibilità dell'Euro sarà avvertita come il problema dominante. Un articolo anonimo uscito sulla rivista "Mulino-Europa" nel maggio dell'anno scorso, dal titolo significativo: "Un'era glaciale per l'economia europea", spiega molto bene, anche a non tecnici, come questa conseguenza di patti di stabilità sia, più che un timore, una previsione piuttosto realistica. Fatte queste osservazioni di contesto veniamo alle principali interpretazioni del fenomeno. Queste sono tre: quella dominante, neo-classica nel suo impianto di base; quella keynesiana, e quella strutturalistica, se vogliamo dare a quest'ultima l'onore di una interpretazione coerente, ciò che solitamente non avviene, ma credo invece si meriti.
Sono stato vergognosamente apodittico, ma forse ciò basta a dare un'idea di quel che bolle in pentola tra gli economisti. Due osservazioni sono necessarie. La prima è che, per ragioni di chiarezza, ho presentato le diverse interpretazioni come molto divergenti. Quando si tratta di dare suggerimenti pratici, tuttavia, prevalgono interpretazioni meno contrapposte, spesso addirittura eclettiche. Tra i keynesiani ragionevoli, per esempio, tutti sono d'accordo che un bel po' di flessibilità di mercato ci vuole: caso tipico di riconoscimento, che sfiora quasi l'eclettismo, è il Libro Bianco di Delors, che è ancora la Bibbia delle sinistre moderate europee. Ma questo atteggiamento è più generale e si può ritrovare negli interventi di Fitoussi o persino in quello, presentato con molta nettezza, di Modigliani e La Malfa nella loro lettera al Corriere del 3 gennaio scorso. La seconda osservazione può forse sorprendere: tra gli economisti delle tre grandi scuole, nessuno condivide la preoccupazione che, a seguito del progresso tecnico e della concorrenza di paesi a bassi costi salariali, il lavoro sia venuto a mancare nei paesi ricchi e sia dunque necessario suddividere quel poco che resta. Le ricette per l'occupazione possono essere diverse (accettare salari più bassi e flessibilità più spinta; fare più investimenti e politiche più espansive; produrre innovazione, istruzione e investimenti in settori strategici), ma la convinzione è la stessa tra tutti gli economisti "seri", o che tra loro si riconoscono come tali anche se appartengono a scuole diverse: il lavoro non manca mai e i vari Rifkin e compagni sono, al meglio, degli esagerati o, al peggio, dei ciarlatani. Queste sono le interpretazioni che offre il convento degli economisti e non posso ora entrare in un'analisi critica più dettagliata. Ma anche da questa sommaria presentazione è subito evidente come alla sinistra (ma in realtà anche alla destra: insomma, ad ogni politico che abbia a cuore il consenso elettorale) piacerebbe molto che l'interpretazione giusta fosse quella keynesiana. Nella sua versione pura, infatti, essa produce una politica economica che non ha alcun costo politico, che fa contenti impresi e sindacati, produttori e consumatori: più investimenti, più sviluppo, politiche monetarie fiscali meno restrittive. Peccato che in questa versione pura oggi non funzioni, e che persino i keynesiani, quantomeno i più consapevoli, ci attacchino una sgradevole coda di interventi strutturali, di flessibilità da assicurare affinché il mulino dello sviluppo, una volta messo in moto, macini prodotti e non prezzi, ricchezza reale e non inflazione. Come gli economisti che ho prima ricordato, come i keynesiani, anch'io sono convinto che l'era in cui Maastricht e i patti di stabilità ci hanno introdotto corra seriamente il rischio di trasformarsi in un'era glaciale; che dunque un compito importante per la sinistra sia quello di "scongelarla". In altre parole, accanto agli obiettivi di convergenza fiscale e finanziaria, accanto all'obiettivo di un Euro credibile (lasciamo stare se forte o debole), la sinistra deve porsi con forza un obiettivo di investimenti, di sviluppo e di occupazione. E deve insistere con forza su un comitato Euro-x (com'è stato abbozzato al vertice del Lussemburgo) nel quale questi obiettivi reali possano essere formulati e controllati. Torno a dire: questi sono obiettivi sia per la sinistra, sia per la destra, ed è una distorsione prevalentemente italiana che una finalità di rilancio dell'economia e un atteggiamento di preoccupazione verso Maastricht e le attuali politiche europee sembrino di più una bandiera della destra che della sinistra. Si leggano le interviste che Luca Paolazzi ha fatto a Ciampi e Martino in un recente libretto del Sole 24 Ore ("Euro", si intitola) e si provi a indovinare, dagli argomenti, chi è più di sinistra dei due. La realtà è che la destra italiana, un po' per convinzione (è il caso di Martino), un po' per opportunismo (per dare l'illusione di creare il famoso milione di posti di lavoro; per accontentare nell'immediato imprese e commercianti), ha sbagliato le priorità nazionali nel momento cruciale: nel '94-'95, in un paese sfasciato com'era allora l'Italia, l'ingresso nell'Unione Monetaria Europea costituiva la priorità nazionale, anche a costo di sofferenze immediate sul piano dell'occupazione. A differenza di Berlusconi-Martino, la coppia Prodi-Ciampi ha interpretato perfettamente questa priorità nazionale e ha vinto. Una volta entrati nell'Unione Monetaria, la musica può cambiare e la sinistra deve tirar fuori, in Italia, e in Europa, il pezzo di analisi keynesiana (o meglio, strutturalistica) che le è più congeniale, deve reagire all'esasperazione oltre ogni ragionevole limite del punto di vista dominante. Capisco e rispetto una posizione di opportunità politica: fino al 2 gennaio 1999, fino a quando il nostro paese non entrerà effettivamente nella moneta unica e sarà scomparso ogni pericolo di speculazione, la consegna è "non fate onde", non diffondete opinioni che potrebbero essere fraintese come insofferenza alla dura politica fiscale cui dobbiamo sottoporci. Dubito però che sia questo il motivo per il quale non si discute: autorevoli esponenti della sinistra sono intervenuti non sulle questioni di principio di Modigliani-La Malfa, sulle quali potevano esprimere il loro giudizio senza alcuna conseguenza negativa, ma sulle simulazioni di possibili percorsi del rapporto debito/PIL che il Tesoro ha prodotto proprio per presentarsi nella luce migliore ai propri partners europei, e questo è stato quantomeno incauto. I motivi per i quali non si discute, purtroppo, sono altri. Da un lato è il tradizionale disinteresse della politica italiana per questioni di principio, per problemi di strategia, e invece la predisposizione a reagire in modo immediato alle più minute increspature del dibattito del giorno per giorno; dall'altro lato, anche quando si è consapevoli dei gravi dilemmi cui ci conduce la politica che abbiamo intrapreso, gioca l'italianissima speranza dello "Stellone" e quell'atteggiamento così bene espresso dal detto: "Non fasciatevi la testa prima che sia rotta". Se la discussione conduce ai problemi di fondo, se non si limita a banali contrapposizioni ("E' troppo", "E' troppo poco") su proiezioni simulative prodotte per altri scopi, salta fuori il vero problema, quello che né la destra né la sinistra in cerca di consensi elettorali vogliono affrontare. In futuro si potrà fare la voce grossa in Europa; a casa propria si potrà fare una politica fiscale più coraggiosa e convincere l'Europa ad accettarla: ma questo si riuscirà a fare tanto più credibilmente quanto più si è spietati e decisi nelle riforme strutturali e nella liberalizzazione dei mercati. E' questo il punto che Modigliani-La Malfa non sottolineano abbastanza, il grosso limite della loro lettera; non lo sottolineano abbastanza forse perché, così facendo, la ricetta keynesiana aggregata si trasforma in una ricetta strutturalistica disaggregata, e anche piuttosto costosa politicamente. Ma si tratta di una ricetta molto più credibile in Europa, e molto più efficace in termini di crescita futura e occupazione in Italia. Il dibattito vero si sposta allora, come si deve spostare, dalle poste aggregate e generiche delle entrate e uscite totali e dei saldi di finanza pubblica a quello che c'è dietro e dentro queste cifre. Com'è ovvio, per ridurre le tasse (promessa fatta e che credo vada rispettata, perché è utile sia politicamente sia economicamente) non c'è affatto bisogno di compromettere l'avanzo primario. Innanzi tutto si possono ridurre le aliquote - che è ciò che conta per le persone oneste - senza ridurre il gettito e la pressione fiscale, se la lotta all'evasione e il miglioramento dell'amministrazione finanziaria procedono in modo spedito. Secondariamente, anche se si riduce il gettito, si possono ridurre le spese; e di spese correnti da ridurre ce ne sono moltissime a cominciare da quelle previdenziali. Fatte queste cose, e messe in cantiere tutte le riforme di aggiustamento strutturale e di liberalizzazione a cui ci siamo impegnati, si può avere il credito necessario per chiedere all'Europa di non insistere su una raccomandazione di rientro precipitoso al rapporto debito/PIL di Maastricht, ciò che ci imporrebbe avanzi primari nell'ordine del 5,5-ó% per tutto il prossimo decennio. Lo ripeto ancora: nessuna esitazione anche rispetto ad esami e impegni europei circa le riforme strutturali; nessuna esitazione rispetto a vincoli sul saldo corrente: nel '98 noi saremo in avanzo corrente e questo può anche aumentare. Ma in cambio di questa nostra determinazione, noi dobbiamo ottenere dall'Europa (...quando saremo nell'Unione Monetaria, perché fino al primo gennaio dell'anno prossimo dovremo stare molto quieti) due cose. (a) Una politica comune, una politica europea contro la disoccupazione e per grandi investimenti strutturali. Probabilmente il programma del Libro Bianco va ritoccato, ma nella sua intuizione di fondo e per il suo valore simbolico andava benissimo. (b) La possibilità di rientrare dal debito meno precipitosamente di quanto sarebbe astrattamente possibile, e questo significa prevedere avanzi primari meno jugulatori e deflazionistici. Se accettiamo vincoli, anche pesanti, sulla necessità di stare in avanzo corrente, avanzi primari meno jugulatori si trasformano in maggiori risorse per investimenti pubblici e proprio questo è lo scopo dell'esercizio. Guai se diamo all'Europa l'impressione di non voler rientrare velocemente dal debito perché non intendiamo fare riforme o ridurre la spesa corrente per motivi di consenso. Ma se vogliamo fare investimenti, e investimenti pubblici plausibili - investimenti che i privati non farebbero, ma che sono palesemente utili - io credo che l'Europa lo debba concedere. Lo deve concedere se prevale a livello europeo un impegno di lotta contro la disoccupazione: in questo caso avere nel continente un grande paese che rema contro, che fa una politica fiscale deflazionistica per rientrare il più rapidamente possibile al 60% nel rapporto debito/PIL è palesemente un controsenso. Una ultima nota, per non lasciare equivoci. Ho appena detto che gli investimenti pubblici devono essere plausibili; tali cioè che non possano essere fatti meglio dai privati e indispensabili per allentare vincoli e porre basi per un forte sviluppo. E' il caso di insistere su questo punto perché gran parte degli investimenti pubblici ad un livello avanzato di progettazione nei diversi Ministeri non hanno queste caratteristiche, e si pone dunque un compito urgente di sfrondamento e riprogettazione. Non possiamo permetterci il lusso di fare buche per terra e poi riempirle,... o fare ponti sullo stretto di Messina. Io non so se questo programma, che a me sembra ragionevole, sia di destra o di sinistra. So soltanto che, per entrambe, si tratta di un programma costoso in termini di consenso. E' costoso perché comprime la spesa corrente e promette liberalizzazioni e ristrutturazioni che feriscono numerosissimi interessi. Ma è l'unico programma che è compatibile con una posizione negoziale forte in Europa, con un rilancio degli investimenti e dunque, nel medio periodo, con la ripresa dell'occupazione. Un po' per onestà intellettuale e un po' per suscitare dibattito ho mischiato con l'analisi di una possibile strategia per lo sviluppo e l'occupazione due affermazioni intenzionalmente provocatorie. Avviandomi alla conclusione, vorrei riprendere queste affermazioni, qualificarle e, così facendo, aprire il discorso ad una riflessione esplicitamente politica. La prima affermazione provocatoria è costituita dalla giustificazione delle politiche di riforma strutturale e di flessibilità nei mercati come uno "scotto da pagare" affinché gli stimoli all'investimento e all'espansione possano dar frutti in termini di maggior reddito reale e occupazione (ovvero - ma si tratta del lato diplomatico della stessa cosa - affinché il nostro paese possa acquistare in Europa una posizione negoziale credibile quando propone misure di rilancio dell'occupazione). La seconda affermazione provocatoria è quella di avere considerato destra e sinistra come egualmente esitanti di fronte a misure di trasformazione strutturale e di flessibilizzazione dei mercati; misure che sarebbero, per entrambe, impopolari e costose. Le due affermazioni sono collegate, e la carica provocatoria deriva, almeno in parte, dalla loro genericità, dal fatto che non siamo entrati nel dettaglio delle misure di innovazione strutturale e di liberalizzazione dei mercati che sono necessarie per favorire lo sviluppo economico e l'occupazione. Quando vi entreremo, con le relazioni di Ichino e Morando, vedremo che tali riforme costituiscono effettivamente dei costi da pagare, delle possibili minacce alla popolarità e al successo elettorale di tutte le forze politiche. Per un altro lato, tuttavia, esse rappresentano degli obiettivi, dei valori, che le forze politiche si propongono come elementi costitutivi della propria identità. E se è così, necessariamente si creano (o dovrebbero crearsi) divaricazioni tra le misure strutturali e i processi di liberalizzazione che propone la destra e quelli che propone la sinistra. Per la sinistra le misure di trasformazione strutturale e liberalizzazione dovrebbero sì mirare ad un rapido adattamento della struttura economica a nuove condizioni di sviluppo, ma dovrebbero anche garantire condizioni di rigorosa equità tra tutti i partecipanti al mercato. E' questo il modo in cui Ichino difenderà le sue proposte di avvicinamento tra le condizioni di tutela degli "insiders" nel mercato del lavoro con quelle degli "outsiders"; ed è questo il modo con cui Morando criticherà i risultati della riforma previdenziale, mettendo in rilievo le iniquità che permangono tra titolari di diversi regimi e soprattutto tra generazioni. In via generale, in tema di equità, non dovrebbe esser difficile una intesa di principio con un centro destra genuinamente liberale: la concorrenza, la lotta contro i privilegi indotti da condizioni monopolistiche naturali o artificiali, può consentire un bel pezzo di strada insieme. Dove le strade si divaricano, almeno in linea di principio, è a proposito di un altro valore cardine della sinistra, la solidarietà. Per la sinistra la concorrenza è sicuramente apprezzabile, sia come strumento che favorisce un maggior benessere per i consumatori e un miglior adattamento dell'economia a nuove piste di sviluppo, sia come strumento che garantisce parità di accesso a tutti, almeno in via di principio. Ma si tratta di uno strumento che non viene idealizzato. In situazioni storiche concrete esso può provocare differenze nelle condizioni di vita così grandi - e, in particolare, situazioni di esclusione così inaccettabili dai beni che garantiscono benessere minimo e autostima - che i poteri pubblici devono intervenire per ragioni di solidarietà. Quali siano le condizioni essenziali di cittadinanza, quelle condizioni minime di benessere e autostima, è una questione aperta. E sicuramente concezioni troppo "livellatrici" della solidarietà e strumenti troppo statalistici e regolativi per attuarla possono essere controproducenti per gli stessi obiettivi che ci si propone e contrastanti con le esigenze di adattamento del sistema economico. Ma senza una forte spinta verso la solidarietà e forti strumenti regolativi per renderla concreta, la sinistra non esiste. Oggi, in Gran Bretagna, è in corso un esperimento straordinario per ridurre al minimo, da parte di un governo che si autoproclama di sinistra, l'uso di strumenti regolativi e di trasferimenti a carico del bilancio statale, al fine di indurre il più possibile coloro che ne erano i beneficiari ad aiutarsi da soli: "Welfare-to-work", è il nuovo slogan. E' un esperimento i cui primi passi stanno provocando polemiche furiose (si veda ad esempio l'articolo su Frank Field, l'innovativo ministro per le politiche sociali del governo laburista, sul New Statesman del 30 gennaio) e che dobbiamo seguire con grande attenzione. L'equità presa sul serio può essere altrettanto costosa in termini di popolarità che non l'efficienza: essa minaccia un numero molto grande di piccole "rendite regolative" - nel mercato del lavoro, nel welfare - che normalmente la sinistra ha difeso quando non ha addirittura prodotto. E la solidarietà presa sul serio - ad esempio, un efficace sistema di reddito minimo - o non è finanziariamente sostenibile, oppure, per esserlo, essa deve sfrondare pesantemente l'attuale sistema pensionistico-assistenziale, e dunque urtarsi contro le rendite regolative di cui dicevo. In via generale qui non posso dire altro, se non consigliare a tutti la lettura del bellissimo libro di Maurizio Ferrera (Le trappole del Welfare), appena pubblicato dal Mulino. Ferrera analizza la questione a livello comparativo, mostrando quanto vi è di comune e quanto di diverso nei problemi che le forze politiche devono affrontare nei vari casi nazionali. Noi siamo in Italia e ci poniamo dal punto di vista della sinistra italiana. Com'è messa la nostra sinistra nell'affrontare le "Trappole del Welfare", del mercato del lavoro, e in generale i problemi di aggiustamento e trasformazione strutturale che occorre risolvere per lanciarsi in una nuova e sostenibile fase di sviluppo? Le tradizioni, le culture, le condizioni di forza della sinistra sono tra loro diverse in Europa, come ho suggerito all'inizio di questa relazione. All'interno del genere "sinistra" e della specie "sinistra continentale", il caso italiano si segnala per un tratto caratteristico di cui è difficile sopravvalutare l'importanza, e a questo vorrei dedicare le mie ultime osservazioni. Nella crisi che ha scosso il sistema politico italiano negli anni '90, il sindacato ha giocato un ruolo di stabilizzazione straordinario e la sua influenza sulla formazione della politica economica è cresciuta a dismisura. La "sinistra-che-c'è" oggi include il sindacato come sua parte costitutiva: non come un poderoso gruppo di interesse, non come una "organizzazione di massa" legata ai partiti da una cinghia di trasmissione, bensì come attore politico in prima persona; anzi, come attore predominante nella definizione di un ampio spettro di politiche pubbliche, proprio quelle che insistono su gran parte delle trasformazioni strutturali e dei processi di liberalizzazione di cui abbiamo parlato. D'altra parte, però, il sindacato è una organizzazione privata che risponde ai suoi iscritti e ne deve verificare continuamente il consenso. I suoi iscritti sono lavoratori occupati - soprattutto in medie e grandi imprese e nella pubblica amministrazione - e sono, sempre di più, pensionati: insomma proprio quei soggetti che, dal punto di vista dei loro interessi economici di breve periodo, sarebbero svantaggiati da una parte delle riforme di trasformazione strutturale e di liberalizzazione. E soggetti che sarebbero anche svantaggiati da un programma rigoroso di equità, attento alle esigenze dei non tutelati e delle giovani generazioni. Come la mettiamo? E' possibile chiamare la volpe a fare la guardia al pollaio? Nel futuro prevedibile (diciamo: per tutto il tempo in cui l'Ulivo riuscirà a conservare il Governo) mi sembra improbabile un mutamento significativo della situazione attuale e probabilmente continueremo ad assistere al tiro alla fune cui abbiamo assistito nei due anni passati: partiti dell'Ulivo relativamente defilati, senza forti programmi autonomi, che affidano al sindacato il giudizio ultimo sulla sostenibilità delle politiche sociali proposte dal governo; un governo che cerca di difendere le ragioni del risanamento e delle politiche strutturali che le devono accompagnare e tratta in modo prevalente col sindacato, da una parte, e con Rifondazione Comunista, dall'altra; un sindacato che è frenato, da un lato, dagli interessi che rappresenta e dall'altro, in misura ancora maggiore, da Rifondazione Comunista. Uno scatto di autonomia e di orgoglio riformistici dei partiti dell'Ulivo all'interno di questo gioco è ostacolato dalla loro divisione e dalla presenza di opinioni discordi all'interno dei partiti più grandi (nei Popolari, ma soprattutto nel PDS); se il passaggio all'Unione Monetaria si compie senza traumi, è piuttosto ipotizzabile un rafforzamento del governo nei confronti di tutti gli altri soggetti del gioco. In queste condizioni, e se la debolezza relativa di Rifondazione dovuta all'esito della crisi di ottobre permane, si può nutrire la ragionevole speranza di uno sviluppo "quasi olandese": di fronte ad un governo più forte e a Rifondazione più debole, il sindacato potrebbe interiorizzare in modo più deciso i vincoli della situazione, riconoscere che sono necessari ulteriori passi in avanti in tema di flessibilità del mercato del lavoro, equità e sostenibilità del sistema di welfare. Il sindacato, insomma, potrebbe riconoscere che la stessa possibilità di politiche più espansive dipende dall'attuazione di riforme strutturali delle quali il welfare e il mercato del lavoro sono parti importanti. Finché il centro sinistra rimane frammentato, finché opinioni discordanti o personalità in conflitto si paralizzano a vicenda impedendo la formazione di un programma riformatore fortemente condiviso, è su una assunzione ancor più esplicita da parte del sindacato del suo ruolo di attore politico che sono affidate le nostre speranze. Non è certo una situazione normale e non può certo durare a lungo: ma la scarsa coesione del centro sinistra politico, di quello che dovrebbe essere il blocco omogeneo della maggioranza, la rende per ora quasi auspicabile. (1) Si tratta del testo della relazione introduttiva a un seminario del PDS tenutosi a Milano il 2 febbraio scorso: gli altri relatori erano Pietro Ichino, per le politiche del lavoro, ed Enrico Morando, per le politiche sociali e la previdenza. Mi dispiace di non aver avuto il tempo di modificare gli innumerevoli passaggi che rivelano la sua origine di comunicazione orale. Quanto al contesto in cui la relazione è stata tenuta, questo ha certamente influito sulla semplificazione dell'analisi, ma non sulle tesi sostenute.
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