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Il Documento di Programmazione Economica e Finanziaria di quest'anno è un documento importante. Non è sempre così. Governi deboli e che sentono nell'aria una fine imminente si accingono al compito nello spirito di un penoso e comunque irrilevante adempimento burocratico. Anche nei DPEF di governi solidi, ma vicini alla loro naturale scadenza, i tempi della previsione non coincidono con quelli in cui il governo in carica avrà un effettivo potere di intervento e dunque il Documento contiene un auspicio affidato ad un governo futuro, più che un reale impegno del governo presente. Ed è infine piuttosto raro che la scadenza del DPEF coincida con un momento periodizzante della vita economica e politica di un paese. Il DPEF di cui stiamo discutendo è invece il prodotto di un governo solido, espresso da una legislatura la cui ulteriore durata legale coincide esattamente coll'arco di tempo cui il documento si riferisce. E il momento nel quale il documento viene formulato difficilmente potrebbe essere più discriminante: è il momento in cui un risultato straordinario è stato raggiunto e altri obiettivi incalzano con urgenza. Per alcune delle forze che sostengono il governo si tratta di un momento di svolta, dopo il quale il grande risultato raggiunto dovrebbe essere sì preservato, ma tutte le energie e tutte le risorse dovrebbero essere dedicate ad affrontare gli obiettivi che in passato si sono trascurati, e sopra tutti quello di una maggiore occupazione. L'architettura essenziale del DPEF è molto semplice. Anche se il nostro paese non ha (ancora?) sottoscritto alcun impegno vincolante circa i tempi di riduzione del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo, è nel suo interesse impegnarsi per una riduzione in tempi solleciti: e questo sia per evitare una eccessiva sensibilità della spesa pubblica rispetto a variazioni dei tassi di interesse (la variazione di un punto nel tasso medio di interesse pagato sul debito, con un debito di quasi due milioni e mezzo di miliardi, comporta una maggiore o minore spesa corrente di 25 mila miliardi all'anno); sia per mantenere relazioni corrette con gli altri paesi dell'UE. Il rapporto tra la somma dei debiti pubblici e il PIL per l'UE nel suo complesso sarà un parametro importante nella politica economica dell'Unione ed è difficilmente accettabile che un singolo paese detenga a lungo una frazione del debito sproporzionata, tenendo owiamente conto della sua dimensione economica, rispetto a quella degli altri. Sull'impegno alla riduzione del debito, asserito in termini così generali, non credo ci sia conflitto tra i partiti che sostengono il governo. Il conflitto sorge, naturalmente, quando si cerca di stabilire una tabella di marcia, e nel DPEF questo bisogna farlo: quanto veloce e vincolante dev'essere questa tabella? Quali sono le conseguenze, in termini di occupazione, di una sua accelerazione o di un suo rallentamento? Questo, naturalmente, è il problema del (presunto?) conflitto tra rigore fiscale, da una parte, e sviluppo e occupazione, dall'altra, e su di esso torneremo. Prima, però, è utile chiarire alcuni punti in tema di architettura. Il Debito, prima in rapporto al PIL e poi anche in valori assoluti, si può ridurre tanto più velocemente quanto maggiore è l'avanzo (minore il disavanzo) del bilancio complessivo delle pubbliche amministrazioni, cioè la differenza tra entrate e spese. Le spese possono essere distinte in tre voci principali: spese correnti per consumi pubblici e trasferimenti, esclusi gli interessi; spese per interessi; spese per investimenti. Nell'anno appena trascorso siamo stati in disavanzo, anche se molto minore dell'anno precedente: si è trattato di quel 2,7% rispetto al PIL (ó,7 nel 1996) che ci ha consentito di rispettare il più critico dei parametri di Maastricht. Questo disavanzo è destinato a permanere per tutto il periodo di previsione del DPEF, riducendosi all'1% nel 2001. Com'è ben noto, è la spesa per interessi a provocare il disavanzo: al netto di tale spesa, che nel 1997 è stata superiore a 183.000 miliardi, quasi il 9,5% del PIL, il bilancio delle amministrazioni pubbliche sarebbe stato in avanzo, in avanzo primario, come si dice. L'anno passato, a seguito dello sforzo per "rientrare" nel parametro del 3%, l'avanzo primario è stato particolarmente elevato: quasi 133.000 miliardi, il 6,8% del PIL, insufficiente a coprire tutta la spesa per interessi, ma più che sufficiente per rispettare il parametro di Maastricht relativo al disavanzo. Il DPEF non prevede la continuazione di uno sforzo così ingente, e fissa un obiettivo di avanzo primario del 5,5 % nei prossimi tre anni: insieme con la crescita (stimata) del reddito e l'andamento (stimato) dei tassi di interesse, è questo obiettivo di avanzo primario che determina il disavanzo complessivo e dunque la "tabella di marcia" nel processo di riduzione del rapporto Debito/PIL, che dovrebbe scendere di quasi 12 punti in tre anni e sotto il 100% nel 2003. Insomma, esiste un evidente contrasto tra quattro valori che, opportunamente qualificati, potrebbero rappresentare obiettivi importanti dell'azione pubblica: un elevato avanzo primario (e dunque una veloce riduzione del rapporto debito/PIL), una riduzione della pressione fiscale, un aumento della spesa per investimenti e -...se molto qualificato - un aumento della spesa corrente. Non si può ottenere un elevato avanzo primario se si riduce fortemente la pressione fiscale e si aumenta la spesa pubblica, corrente o per investimenti. Oppure: fissato un obiettivo di avanzo primario (una tabella di marcia), la riduzione della pressione fiscale entra in contrasto con la permanenza o l'aumento della spesa. Oppure: fissato l'avanzo primario e la pressione fiscale, la spesa corrente entra in contrasto con la spesa per investimenti. Nella sua architettura più schematica, è questo l'insieme di trade-off che il DPEF era chiamato a sciogliere e che ha sciolto. L'ha sciolto con una piccola manovra, con una piccola rettifica delle poste tendenziali di bilancio (13.500 miliardi nel 1999). Dell'avanzo primario e dunque della "tabella di marcia" abbiamo già detto. La spesa corrente è ridotta di quasi 10 mila miliardi (senza incidere sulla spesa sociale) e la pressione fiscale dovrebbe ridursi di 1,2 punti, con riduzioni ulteriori previste negli anni successivi. La novità più significativa è costituita dall'inversione di tendenza degli investimenti pubblici: più in generale, le spese in conto capitale dovrebbero crescere di quasi il 10% all'anno nei prossimi tre anni. Va bene così? Ragionare su grandi aggregati, sull'"architettura", non consente di affrontare le questioni politicamente più spinose, quelle che possono essere discusse alla luce della legge finanziaria, e più in generale dell'intero programma del governo, per ognuno degli anni cui il DPEF si estende. Alcune scelte di massima sono però sono piuttosto chiare e a queste conviene limitare l'attenzione. Non prima di aver premesso una nota di cautela. Gran parte delle stime del DPEF si basano su previsioni di eventi che sono o al di fuori del controllo del governo, oppure, quando formalmente lo sono, non sono facili da controllare nei fatti. Tra i primi, i più cruciali sono la crescita del reddito e la dinamica dei tassi di interesse. In questi mesi le previsioni di crescita sono state continuamente riviste al rialzo: al di là di eventi straordinari, si è tenuto conto in misura adeguata del perdurare delle difficoltà economiche in estremo oriente, del fatto che la crisi strutturale del Giappone sembra ben lontana da uno scioglimento, di un possibile rallentamento dello sviluppo degli Stati Uniti? E quanto sono affidabili le stime sull'andamento dei tassi? Tenerli fissi al 4,5% fino al 2001, come fa il DPEF, è una "previsione" che dà più peso alla speranza che alla cautela. Tra i secondi, quanto sono solidi e controllabili i dati relativi al gettito e alla spesa? Il governo ha attuato una vera e propria rivoluzione fiscale (Visco) e amministrativa (Bassanini): quando mutano le regole non è per nulla facile fare previsioni e bisogna tenersi pronti anche a forti scostamenti. E se scostamenti si verificano, sia nelle previsioni degli eventi esterni e incontrollabili, sia in quelle di eventi controllabili ma di fatto non controllati, che cosa si fa? Quali sono gli obiettivi che si sacrificano? Gli obiettivi di avanzo primario? O quelli di gettito? O quelli di spesa corrente e per investimenti? Anche in un documento di "architettura" questo problema -una vera e propria clausola di salvaguardia- dovrebbe essere affrontato e risolto con chiarezza, dicendo, per esempio, che l'obiettivo di avanzo primario è quello rigido e che tutti o alcuni degli altri sono flessibili. Ma tocchiamo ferro e speriamo che tutto proceda secondo le previsioni. L'impressione generale che si ritrae dalle linee di indirizzo che ho prima descritto è quella di un documento equilibrato e che prevede un'evoluzione priva di ulteriori interventi traumatici: "ce l'abbiamo fatta, ora si tratta di continuare, di consolidare, di rettificare, di indirizzare; ma i grandi aggiustamenti macrocconomici, e anche le più pesanti trasformazioni strutturali (Visco e Bassanini, per intenderci), sono dietro le nostre spalle". Se questa impressione è condivisa da imprese, lavoratori e consumatori, se si trasforma in un "messaggio" recepito dall'intero paese, allora il DPEF ha raggiunto un importante risultato: quello di stabilire un quadro di certezze e di convenienze sulla base del quale gli operatori privati possono prendere le loro decisioni. Una parte non piccola dei guai del recente passato, della stentatezza della domanda privata, è discesa dalla turbolenza dell'ambiente, dalla traumaticità e dalle continue variazioni delle misure di politica economica: queste creavano un orizzonte incerto e ostacolavano un'ordinata programmazione di consumi e di investimenti. Per questo aspetto del DPEF, molto generale ma importantissimo, la valutazione non può che essere positiva, ...se il messaggio viene creduto. Positiva, con le qualificazioni che vedremo, è anche la valutazione sull'entità dell'avanzo primario (la "clausola di salvaguardia" di cui dicevamo più sopra dev'essere però stabilita con chiarezza): con questo avanzo la tabella di marcia verso rapporti debito /PIL più ragionevoli è sollecita quanto basta a portarci rapidamente fuori dai maggiori pericoli di instabilità, a garantire i paesi dell'Unione che la nostra quota nel debito pubblico europeo è destinata a raggiungere in tempi certi una dimensione accettabile, e tuttavia non è così alta da paralizzare in pratica ogni possibilità di manovra da parte del governo. E qui si apre il discorso sul (presunto) contrasto tra rigore e sviluppo (e occupazione). Che il rigore fiscale, in alcune circostanze, possa entrare in contrasto collo sviluppo, è una considerazione del tutto corretta ... se si precisano le circostanze. Nel corso degli anni novanta, per esempio, è possibile che politiche fiscali restrittive in quasi tutti i paesi dell'Unione abbiano esacerbato le conseguenze deprimenti degli elevati tassi d'interesse, dovute alla scelta sciagurata di non rivalutare il marco (scelta di cui la Francia porta una grossa responsabilità). Oggi però le cose stanno in modo diverso e per sostenere la tesi di un effetto deprimente del rigore fiscale (di elevati avanzi primari) occorrerebbe argomentare che scelte pubbliche conseguenti a un minor rigore (per esempio, una minore pressione fiscale, o maggiori investimenti pubblici) avrebbero conseguenze più espansive, nel medio-lungo periodo, che non scelte più rigorose, miranti ad abbattere più rapidamente il rapporto Debito/PIL. L'argomentazione è plausibile, ma non è così ovvia: la ripresa sembra bene avviata, anche in condizioni "rigorose", e si potrebbe sostenere che una ripresa più forte urterebbe contro vincoli di capacità dovuti ai deboli investimenti del recente passato; o che i mercati finanziari penalizzerebbero una politica percepita come abbandono di una priorità di risanamento; o che -se il rigore è attenuato a favore di una politica di investimenti pubblici- l'urgenza potrebbe indurre iniziative debolmente programmate e scarsamente redditizie. Questi argomenti non sono palesemente insensati e complicano notevolmente il "keynesismo semplice" di chi mette necessariamente in contrasto rigore fiscale e sviluppo. Non ho il modo di discutere seriamente, in questa sede, le due tesi contrapposte. Resto dell'idea (un po' meglio sviluppata in un articolo sull'ultimo numero de Il Mulino, "Per creare lavoro, cambiare anche la sinistra") che si sarebbe potuto sollecitare un po' di più la domanda interna - ad esempio limitandosi ad un avanzo primario del 4,5 o del 5, invece che del 5,5% - se si fosse avuto il coraggio di contenere maggiormente la spesa corrente e insieme ridurre la pressione fiscale più che in proporzione. Tornerò subito su questo punto: qui mi limito ad asserire che l'opinione pubblica interna, l'Europa e i mercati internazionali ci avrebbero "perdonato" un rientro dal debito un po' più lento se avessero visto una maggior determinazione nell'affrontare alcuni nodi strutturali che si annidano nella spesa corrente e la cui soluzione ci ostiniamo a rinviare. Tutto considerato, tuttavia, il 5,5 % di avanzo primario, nelle attuali condizioni di ripresa economica, di fiducia dei mercati e di sicurezza degli agenti (e dati i vincoli politici che si frappongono a soluzioni preferibili), mi sembra un buon punto di equilibrio. Un punto di equilibrio che consente spazi non piccoli di politica economica, equii anche a livello macro. Di questi il governo, in parte, sembra voler approfittare saggiamente, invertendo la tendenza che ci aveva condotto ad una quota insostenibilmente bassa degli investimenti pubblici (e della spesa in conto capitale) sul PIL. Preoccupazioni sono legittime, e le abbiamo già espresse: la fretta può essere cattiva consigliera e condurre a riproporre vecchi progetti, vecchie iniziative (giustamente) non realizzate che i ministeri e gli enti pubblici conservano nei loro archivi e che interessi potenti si affretteranno a reclamare. E' un pericolo, certo: ma, date le spaventose esigenze di infrastrutturazione che si sono accumulate, 5.500 miliardi nel '99 (e poi una crescita del 10% all'anno) sono una piccola cosa, e dovrebbe essere possibile una selezione molto oculata delle priorità. Ben venga la partecipazione dei privati e tutto il project financing possibile: ma non si possono fare tutti gli investimenti pubblici con i quattrini dei privati e con i rendimenti di mercato che questi richiedono. E' sul bilancio di parte corrente che le scelte del governo possono essere criticate. In termini di immagine politica - ma anche di efficacia economica, per stimolare una ripresa che dovrà largamente basarsi sui consumi e gli investimenti privati - una riduzione più decisa della pressione fiscale, in parte o del tutto compensata da una riduzione strutturale della spesa corrente, sarebbe stata una scelta molto apprezzabile. Il problema fondamentale, come ho appena ricordato, è quello della spesa corrente. I vincoli che si frappongono ad una sua riduzione (specie nel settore dove i risparmi possibili sono più consistenti e dove potrebbero essere sorretti da forti ragioni di equità: la previdenza) sono politicamente così stringenti e ormai così interiorizzati dai partiti di maggioranza che nessuno ne parla, e chi lo fa viene guardato con fastidio. Questi sono i costi (ovviamente ci sono anche vantaggi, e notevoli) di "governare col sindacato", e vi è solo da attendere che i rappresentanti dei lavoratori si rendano conto che, se vogliono giocare fino in fondo il ruolo politico che stanno svolgendo, il ruolo di una forza che ha a cuore gli interessi del paese e non solo quelli dei suoi rappresentati, presto o tardi dovranno tornare sulla loro decisione di considerare come definitivo l'accordo in tema di pensioni che è stato stipulato ai tempi dell'ultima legge finanziaria. Meglio presto che tardi. Tornando alla pressione fiscale, io non credo -come va martellando Panebianco sul Corriere- che il governo dell'Ulivo abbia nei suoi geni una predilezione per un livello particolarrnente elevato; oltre al problema (italiano e belga) di ridurre il debito pubblico, esso ha il problema, questo comune a tutti i governi dell'Europa continentale, di contenere la dinamica della spesa sociale, e dagli ostacoli che si incontrano al suo contenimento derivano, come abbiamo appena sottolineato, gran parte dei vincoli che si incontrano a ridurre le tasse. Gioca poi una considerazione specifica, anche questa già ricordata. Visco ha attuato una vera e propria rivoluzione nell'architettura fiscale del nostro paese e le stime di gettito per il 1999 sono molto aleatorie: non è dunque da escludere che la pressione fiscale cali per ragioni del tutto inintenzionali, o comunque sia piuttosto diversa rispetto alle stime. In questa situazione, promettere una riduzione e soprattutto specificare i modi in cui si intende attuarla potrebbe essere imprudente. Quel che importa è che la determinazione ci sia e che il calo della pressione fiscale sia economicamente e politicamente percettibile entro il triennio del DPEF. E l'occupazione? Non dovrebbe essere, questo, il DPEF dell'occupazione? Dato il ruolo politico del documento, di occupazione e disoccupazione si parla molto. Non soltanto vengono fornite stime sull'aumento dell'occupazione e la diminuzione del tasso di disoccupazione nel corso del triennio, ma sono anche ricordate con bell'ordine e comprensibile enfasi le numerosissime (...troppe) misure che il governo ha preso per promuovere l'occupazione o alleviare la disoccupazione, soprattutto nel Mezzogiorno (scrivo sulla base delle anticipazioni della stampa e senza avere in mano il testo ufficiale). Circa le stime numeriche, suggerirei di prenderle con cautela: oggi è ancor più difficile che in passato derivare da stime di crescita del reddito o degli investimenti stime di crescita dell'occupazione (ipotizzare la creazione di 600 mila posti di lavoro in tre anni sulla base di una crescita media del PIL del 2,8 - 2,9, significa, owiamente, stimare una crescita della produttività piuttosto bassa, anche se non implausibile. Decisamente implausibile è invece la riduzione del tasso di disoccupazione al 10%, che è possibile solo se le Forze lavoro restano costanti). Circa gli effetti occupazionali aggiuntivi delle misure attuate o progettate, anche per questi è molto difficile fare previsioni: il governo si è impegnato a farlo per l'Unione Europea, e il Ministro Treu ha presentato le sue prime stime. Vedremo. Nella spesa corrente rimangono margini sufficienti a consentire iniziative specifiche che possono favorire un maggior contenuto occupazionale dello sviluppo, solo che si abbia il coraggio di contenere spese che non hanno queste caratteristiche. A mio modo di vedere, tuttavia, non è dall'invenzione di nuovi meccanismi incentivanti gestiti dalla mano pubblica che può derivare una spinta forte e diffusa verso una maggiore occupazione. Questa può provenire da un contesto macrocconomico sano, capace di creare certezze per gli operatori, orientato alla convenienza degli investimenti reali e dell'attività produttiva: e qui, col DPEF, grossomodo ci siamo, anche se la manovra più espansiva prima suggerita sarebbe stata preferibile. Ma essa proviene anche da un contesto microccomico caratterizzato da buoni servizi pubblici, da semplicità amministrativa, da flessibilità nell'uso dei fattori, da oneri fiscali bassi quanto è possibile e comunque di facile adempimento: ma in questo contesto difficilmente il DPEF può addentrarsi. Non è possibile dire di più in via generale e sulla base delle anticipazioni di stampa. Sulla base del testo ufficiale avremmo potuto essere più precisi, ma gran parte delle considerazioni che abbiamo svolto non esigono una grande precisione e saranno egualmente valide (o discutibili) anche nei confronti di quel testo. Anche perche -e torno in conclusione al problema che ho appena accennato- un DPEF è una semplice intelaiatura macro-economica; importantissima, certo, ma che nulla può dire dei problemi più spinosi del prossimo triennio. Questi problemi -microcconomici, micropolitici, microsociali- sono inevitabilmente nascosti nelle poste aggregate di cui tratta il documento e, se vengono identificate poste più fini, o se si discute di molti problemi "micro", non è su questi che viene assunto un impegno politico, bensì sulle poste generali, sull'architettura economico-finanziaria dell'insieme. Nel rispetto di questa architettura, la "rivoluzione copernicana", il lavoro di bisturi, la soluzione di innumerevoli problemi "micro" (quelli che è necessario risolvere per trasformare un paese ancora ingessato, corporativo e ingiusto in un paese più liberale, più giusto e competitivo quanto è necessario per prosperare nel nuovo regime di moneta unica) sono stati appena avviati e tre anni sono un periodo terribilmente breve. Quanto è stato fatto nei primi due non deve essere sottovalutato: il paese è stato rimesso coraggiosamente e fortunosamente in squadra, in un assetto "macro" accettabile; il paese (e i mercati internazionali) hanno capito la determinazione del governo e la loro risposta -una impressionante alterazione delle aspettative- è stata e continuerà ad essere un ingrediente essenziale del processo di risanamento; molte riforme strutturali, che si muovono nella direzione giusta, sono state attuate o impostate, e i frutti dovrebbero maturare. Moltissimo rimane ancora da fare, ma non è l'occasione del DPEF quella che può fornirci la materia per discuterne.
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