Il Movimento per L'Ulivo: LA SCUOLA QUADRI
Come rendere un pò più confortevole il purgatorio
di Michele Salvati
Venezia, Limes, Seminario italo-francese, 27-28 febbraio 1998

 

Giusto un anno fa, quando ancora era del tutto incerto se il nostro paese sarebbe riuscito a rispettare entro la fine dell'anno le principali condizioni del trattato di Maastricht, pubblicai sulla rivista "ll Mulino" un saggio dal titolo: "I'ltalia nell'Unione Monetaria Europea: una rivoluzione copernicana". In quel saggio sostenevo che le possibilità di sfruttare le grandi occasioni che la moneta unica e il mercato unico ci offrivano dipendeva essenzialmente da noi, dalla capacità del governo e dalle forze politiche e sociali italiane di affrontare una rivoluzione copernicana: dopo il lavoro di sciabola del risanamento macro-economico, il lavoro di bisturi del risanamento micro-economico, per creare ovunque condizioni competitive e affrontare un confronto con il resto del mondo senza la rete di sicurezza di periodiche svalutazioni. Fornivo esempi per quattro settori rilevanti (settore pubblico, settore privato esposto alla concorrenza, settore privato protetto, mercato dei fattori e soprattuto del lavoro) e concludevo sottolineando che il compito era necessario, ma diffficile politicamente: diffficile per ogni tipo di governo e in particolare per un governo di sinistra e che dipendeva cosi fortemente dall'appoggio del sindacato.

Autocitarsi è sempre di pessimo gusto. L'ho fatto però non tanto per rivendicare la paternità di idee già allora piuttosto diffuse e in verità abbastanza ovvie. L'ho fatto per mettere le mani avanti. Oggi non parlerò dell'ltalia e dei compiti che l'attendono. Parlerò dell'Europa e mi chiederò se il trattato di Maastricht e le integrazioni successive costituiscano un quadro che consente di indirizzare e sfruttare al meglio gli sforzi che ogni paese deve fare. E siccome sarò parzialmente critico di questo quadro, e non mi manifesterò cosi entusiasta delle "magnifiche sorti e progressive" cui siamo destinati per il semplice fatto di partecipare alla moneta unica, non vorrei che questo atteggiamento venisse scambiato come quello di colui che esita di fronte alla "rivoluzione copernicana", di fronte alle diffcoltà politiche che un incessante lavoro di ristrutturazione richiede, di fronte alla necessità di mantenere in futuro rigorosi equilibri fiscali e inflazione nulla o quasi.

Rispetto all'anno scorso non ho cambiato idea. Mi pongo pero' il diverso problema che ricordavo prima: è il quadro delineato a Maastricht il migliore possibile per pilotare gli sforzi dei diversi paesi europei verso la soluzione di quello che in gran parte di essi costituisce il problema più grave: una disoccupazione che non soltanto riduce la ricchezza potenziale dell'Europa, ma ne mina anche la coesione sociale? Bisogna fare qualcosa per integrare o modificare questo quadro? Procederò in questo modo:

  1. Darò prima una rapida rassegna sul consenso degli economisti circa le conseguenze, in via generale, di un processo di integrazione monetaria;
  2. in secondo luogo mi chiederò quali siano le previsioni più ragionevoli circa il comportamento dell'Unione europea (del Consiglio, della Commissione e, fra poco della Banca) nelle principali aree di politica economica: le politiche strutturali, quelle fiscali e quelle monetarie;
  3. in terzo luogo e in conclusione mi chiederò se queste previsioni siano soddisfacenti, se non si possa fare di più e di meglio.

Di più e di meglio rispetto a che cosa? Rispetto all'esigenza - ovviamente - di stimolare un forte sviluppo e una maggiore occupazione. La priorità di questa esigenza è ovvia, ma come soddisfarla non è per nulla semplice e la natura dell'obiettivo "occupazione" esigerebbe un'analisi che qui non posso fare. Da questa analisi deriverebbero, mi sembra, due conclusioni per noi rilevanti e mi limito ad affermarle apoditticamente. La prima è che la disoccupazione europea di oggi è una disoccupazione che proviene da un insufficiente adattamento alle trasformazioni strutturali richieste dalla fase di sviluppo in cui viviamo: insomma, è più una disoccupazione "schumpeteriana" che "keneysiana" e non è per nulla curabile scavando buche per terra e poi riempiendole… E tuttavia, - e questa è la seconda conclusione - anche se si tratta di disoccupazione schumpeteriana, anche se (anzi, proprio perchè) sono necessarie trasformazioni strutturali, è indispensabile una forte ripresa degli investimenti e un tono sostenuto della domanda aggregata. Non è lo Stato che deve scavare buche e riempirle, ma sono le imprese che devono essere contente del tono della domanda aggregata e delle prospettive di profitto. L'Europa di Maastricht fornirà questo "tono" e queste prospettive?

1. Conseguenze dell'Unione Monetaria: il consenso degli economisti.

Il consenso degli economisti, con un po'di buona volontà, può essere riassunto nei seguenti quattro punti.

(a) Un passo decisivo nel processo di integrazione com'è quello della moneta unica ha effetti di lungo periodo diffficilmente accertabili a priori, sia per l'Unione nel suo complesso, sia per le singole parti. E' ragionevole presumere che gli effetti siano favorevoli per l'Unione nel suo insieme, se soltanto la politica dell'Unione e dei singoli stati non sarà permanentemente recessiva sul piano fiscale. Tali effetti favorevoli non derivano dalla moneta unica di per se stessa, che ha vantaggi modesti e una tantum. Derivano dall'estensione, dall'approfondimento, dalla garanzia di permanenza del Mercato Unico. Insomma da "one market. one money", per citare il famoso manifesto: questo è il motore di tutti i vantaggi dinamici.

(b) Effetti favorevoli per l'Unione, se ci saranno, non equivalgono ad effetti uniformemente distribuiti. Come si distribuiranno le tendenze alla concentrazione e alla diffusione dello sviluppo che sono proprie di ogni passaggio verso una più stretta integrazione è un punto del tutto aperto, che dipende dalla capacità dei singoli paesi (e Regioni) di creare nuclei competitivi di "economie esterne", di condizioni ambientali favorevoli allo sviluppo. Al di là di questa scatola nera - è una scatola nera per gli economisti, perchè ci stanno dentro molte cose che gli economisti non sanno analizzare - uno dei pochi fatti stilizzati che l'evidenza empirica consente di costruire è che, normalmente, le differenze internazionali e interregionali nel reddito pro capite si riducono durante le fasi di crescita intensa: ciò che è avvenuto in Italia tra Nord e Sud nel periodo di più forte sviluppo solitamente avviene ovunque. Ed è questo un altro motivo per cui c'è da essere preoccupati per l'attuale fase restrittiva delle politiche fiscali europee e c'è da augurarsi che sia presto superata.

(c) Per molti anni a venire, I'Unione non disporrà di una struttura fiscale accentrata dalle dimensioni paragonabili a quelle di una federazione, e forse non ne disporrà mai. Questo significa che l'Unione non avrà stabilizzatori automatici uniformi a livello sovranazionale, poiché le politiche di trasferimento internazionale e interregionale dell'Unione europea non hanno e non avranno effetti di stabilizzazioni congiunturale rilevanti (e ciò sia per la loro entità relativamente modesta, sia per la loro discrezionalità, sia per la loro finalizzazione).

Di fronte a shocks asimmetrici, allora il compito di stabilizzazione è afffidato ai singoli stati nazionali. Se lo Stato (o le Regioni) avessero la possibilità di sostenere cospicui disavanzi, sarebbe indifferente se la spesa di stabilizzazione è sostenuta a livello centrale o locale. Ma questa possibilità non c'è. Anzi, Stati e Regioni - quanto meno nei prossimi anni - saranno sottoposti a vincoli di bilancio più stringenti che in passato, fino a quando la memoria della trascorsa rilassatezza fiscale non minaccerà la credibilità dell'euro. Da questo consegue che la solidarietà rimane e rimarrà un affare nazionale, se almeno lo Stato nazionale continua a restare l'unità territoriale di base della solidarietà, il che, per l'ltalia, non è cosi sicuro.

(d) Se confrontata con gli Stati Uniti, I'Europa è oggi caratterizzata da una bassissima mobilità del lavoro, a livello sia internazionale sia interregionale. In questo modo viene escluso un grande stabilizzatore dei redditi e dell'occupazione: negli Stati Uniti, di fronte a shocks asimmetrici regionali, si muovono i disoccupati e le loro famiglie, e questo conduce, in tempi tutto sommato modesti, a tassi di disoccupazione, ma anche di attività, piuttosto vicini tra regioni con diversi tassi di crescita. Le ragioni di queste diversita sono note. Al di là di cause culturali, importantissime, è lo sviluppo dello stato sociale "all'europea" che contribuisce in modo decisivo alla stabilizzazione della popolazione sul territorio. Ciò ha come conseguenza che, se le persone non possono essere portate verso i poli di sviluppo, nazionali o internazionali, i poli di sviluppo devono essere portati verso le persone; o meglio, se non vogliamo usare uno sgradevole tono dirigistico, devono sorgere vicino alle persone. Il che significa remare contro corrente, se viviamo in una fase in cui gli effetti di concentrazione dello sviluppo prevalgono su quelli di diffusione. Remare contro corrente vuol dire creare economie esterne laddove spontaneamente non si formano. E vuol dire compensare economie esterne mancanti con costi più bassi: insomma, lo si voglia o no, la flessibilita salariale (così come tutte le altre flessibilità del rapporto di lavoro e delle relazioni industriali) agisce come parziale sostituto della mancata mobilità del lavoro e della mancata diffusione spontanea dello sviluppo.

Quest'ultimo è un punto di cruciale importanza. In condizioni di moneta unica, gli Stati e le Regioni competono attraverso la qualità e i prezzi delle merci che producono. La qualità dipende da quel complesso di economie interne ed esterne di cui abbiamo detto: dal sistema dei trasporti, dal livello di formazione professionale, dalla dedizione al lavoro delle maestranze, dall'istruzione e dalla ricerca, dall'imprenditorialità, dall'effficacia dei sistemi legali e burocratici e via a seguire. E' del tutto ovvio che le singole regioni devono cercare di acquistare questo insieme di economie e competere sulla base di esse: questa è la "via alta" della concorrenza, quella compatibile con alti salari e alti redditi. Ma è altrettanto ovvio che, al momento, tali economie sono distribuite sul territorio europeo in modo diseguale e che recuperare le distanze, da parte delle regioni meno favorite, è un processo lungo e diffficile. Segue da ciò che la "disinflazione competitiva", come direbbe Jean Paul Fitoussi - che in larga misura è fatta da concorrenza salariale - costituisce uno strumento parziale ma inevitabile per stimolare la diffusione regionale dello sviluppo, qualora questa non avvenga spontaneamente: uno strumento che dev'essere accettato sia dalle regioni che l'adottano, sia dalle regioni più ricche e con alti salari. Dubito che le implicazioni e le dimensioni di questa "via bassa" alla competitività siano state colte pienamente. Come vedremo meglio in seguito, è essenziale al successo dell'Unione monetaria che le dinamiche dei salari e dei prezzi siano molto moderate anche nelle regioni più ricche e a sviluppo più intenso, perchè solo in queste condizioni una politica monetaria come quella che sicuramente farà la Banca centrale europea, rigorosamente mirata al controllo dell'inflazione, non diventa anche una politica deflazionistica e recessiva. Ma se salari e stipendi crescono molto lentamente nelle regioni centrali, una "disinflazione competitiva", una "concorrenza salariale" da parte delle regioni periferiche, significa che salari e stipendi monetari devono restare assolutamente fermi o addirittura diminuire. Quanto prima questa amara verità è "portata a casa" dall'opinione pubblica, dai partiti, dai sindacati, tanto meglio è.

2. Una previsione

Al di là di alcune accentuazioni che ho fatto per catturare l'attenzione degli ascoltatori, i quattro punti che ho appena esposto esprimono il consenso degli economisti che si sono dedicati a questi problemi: gli studiosi della geografia del commercio internazionale, gli economisti regionali e coloro, in particolare, che stanno seguendo il processo di unificazione monetaria europea. Tenendo conto di questi quattro punti, vorrei passare a un argomento più controverso: nell'ipotesi che il 1° gennaio dell'anno prossimo l'Unione monetaria parta come previsto (e che il nostro paese ci sia dentro), quali ragionevoli previsioni si possono fare circa le politiche che l'Unione perseguirà e indurrà gli stati membri a perseguire? A volo d'uccello passo in rassegna i tre principali spazi di queste politiche - lo spazio strutturale, quello monetario e quello fiscale - per ognuno di essi avanzando una previsione e qualche commento. Alla fine affronterò il problema se queste previsioni ci soddisfano; cioè se, senza uno sforzo di volontà politica straordinario (e dunque escluso dalle previsioni), i problemi dell'occupazione e dello sviluppo che affliggono l'Unione e buona parte degli stati membri potranno gradualmente risolversi per effetto della stessa dinamica virtuosa che l'U.E.M. avrà messo in moto.

(a) Per quanto riguarda le politiche strutturali - le politiche agricole, le politiche di coesione, le politiche regionali, le politiche di armonizzazione fiscale, le politiche della concorrenza, per citare le aree più importanti - un buon predittore degli sviluppi futuri sono i trend del recente passato. La stessa Agenda 2000 prevede sviluppi significativi ma non tali da ampliare gli spazi decisionali della commissione, e soprattutto il suo bilancio, in modo da avvicinarli a quelli di uno stato federale. Nella buona sostanza, i sistemi fiscali, i sistemi previdenziali, le istituzioni e le regole del mercato del lavoro subiranno sicuramente modifiche a seguito degli interventi della Commissione, e soprattutto a seguito della concorrenza tra i diversi paesi, ma rimarranno ancora profondamente diversi e sotto lo stretto controllo dei parlamenti e degli stati nazionali. L'avvicinamento alle condizioni di un'area monetaria ottimale sarà probabilmente molto lento.

(b) Circa le politiche fiscali indotte dall'Unione Europea e dunque, fondamentalmente, circa i patti di stabilità, qui non riepilogo le principali obiazioni. Da un punto di vista strettamente economico, essi non sono "nè necessari, nè desiderabili": così Barry Eichengreen conclude il suo recente libro sull'unificazione monetaria europea. La gabbia decisionale imposta e accettata ad Amsterdam può essere tollerata se le cose vanno bene, se non si danno rilevanti shocks negativi e soprattutto shocks asimmetrici. Cosi come i patti di stabilità sono formulati, e se vengono effettivamente applicati, essi sono invece pericolosi in caso di recessioni, generali o localizzate. Insomma, e questo è il giudizio prevalente, la presenza di una Banca centrale con un obiettivo dominante di lotta all'inflazione e singolarmente libera - almeno nella sua fase iniziale - da condizionamenti politici, avrebbe consigliato di non porre restrizioni effettive sulle politiche fiscali degli stati membri: questi hanno basi imponibili autonome a cui ricorrere e sembra del tutto improbabile che la Banca centrale possa essere indotta a salvataggi (bailing-out) di stati membri che si sono comportati in modo incauto: non c'era dunque alcun timore di una perdita di controllo dell'offerta di moneta. Ma, naturalmente, tutti conosciamo le ragioni politiche che hanno indotto la Germania a insistere per questi patti.

(c) Per quanto riguarda le politiche monetarie, la Banca centrale europea è investita della missione esclusiva di garantire la stabilità dei prezzi e c'è da ritenere che nei primi anni del suo funzionamento - quando il suo problema dominante sarà quello di fondare la propria reputazione - la missione sarà presa molto sul serio, stroncando con forza ogni tensione inflazionistica che emergesse nelle aree centrali dello sviluppo economico europeo. Un'Euro ragionevolmente forte e la costruzione di una reputazione elevata della BCE non sono obiettivi in contrasto con quello di un sostenuto ritmo di sviluppo economico europeo: se lo sviluppo mondiale è intenso e le altre principali valute non sono troppo sottovalutate è possibile raggiungerli entrambi. Problemi di incompatibilità si possono creare in due principali circostanze. (c.1) In condizioni di stentatezza della domanda mondiale e/o di sottovalutazione delle altre valute, che potrebbero richiedere un comportamento della BCE attento non solo all'inflazione ma anche alle condizioni di competitività per l'economia europea. (c.2) In condizioni di tensioni inflazionistiche sui mercati europei: in questo caso un obiettivo antiinflazionistico preso sul serio provocherebbe una immediata reazione da parte della banca, un rialzo dei tassi di interesse e un rallentamento della crescita.

(c.2) Le due circostanze sono piuttosto diverse. Nel secondo caso, quello delle tensioni inflazionistiche interne all'Unione, la responsabilità appartiene alle istituzioni e ai mercati che determinano salari e prezzi dei singoli paesi: specie reputazione della banca che ostacolano "l'attenzione" allo sviluppo: quand'anche il Consiglio o uno speciale comitato Euro-x potessero e volessero intervenire, essi sarebbero probabilmente paralizzati da dissensi interni, che riflettono gli interessi e le preoccupazioni di diversi governi, opinioni pubbliche ed elettorati. Non c'è paragone rispetto a una Fed che ha come interlocutore un presidente eletto dal popolo e che parla con una voce sola.

Conclusione

Come possiamo riassumere le previsioni che abbiamo avanzato? In condizioni internazionali molto favorevoli i difetti di costruzione istituzionale e la carenza di omogeneità sociale e politica dell'Unione europea non costituiscono un ostacolo insormontabile a che l'Unione Europea consenta un più ampio sviluppo delle grandi potenzialità del mercato unico: una riduzione sensibile della disoccupazione; un avvicinamento delle condizioni economiche tra le diverse regioni europee. Se tali condizioni favorevoli perdurano, è anche ragionevole aspettarsi che il coordinamento tra le politiche economiche dei governi e la costruzione di istituzioni che riducono la distanza tra l'attuale stato di cose e un lontano ideale federale faccia notevoli passi avanti.

Queste previsioni e aspettative sono però fortemente dipendenti da ipotesi di sviluppo mondiale intenso, omogeneo e senza shocks, ipotesi che è molto difficile avanzare per un periodo sufficientemente lungo. Come direbbero gli econometrici, si tratta di una previsione che non è sufficientemente robusta rispetto a variazioni del contesto esterno: nel caso di rallentamento dello sviluppo mondiale o di shocks che provengono dall'economia internazionale e sono distribuite in modo asimmetrico, quelle debolezze nella costruzione istituzionale e quelle carenze nella omogeneità sociale e politica che caratterizzano l'Unione europea e la rendono cosl lontana da una vera federazione o anche da un'area monetaria ottimale avrebbero le gravi conseguenze cui ho fatto cenno nella esposizione precedente. Una conclusione mi sembra allora inevitabile: se abbiamo a cuore i problemi di occupazione e di sviluppo che travagliano l'Europa, di queste previsioni non possiamo accontentarci. Passato il giro di boa del 1° gennaio del prossimo anno, inevitabilmente si devono porre all'ordine del giorno una riflessione radicale sul futuro dell'Europa, un nuovo progetto europeo e una nuova leadership europea. La moneta unica e i patti di stabilità non bastano: essi devono essere accompagnati da un progetto, da una visione fortemente positiva, da qualcosa che renda allo stesso tempo conveniente e fonte di orgoglio e d'identità l'essere cittadini deli'Unione europea. Non vorrei essere frainteso e ritorno a mettere le mani avanti.

Non solo è perfettamente possibile, ma è necessario crescere in condizioni di stabilità dei prezzi. Non solo è perfettamente possibile, ma è necessario crescere con bilanci pubblici sostenibili e facendo leva sulla imprenditorialità privata: se si cresce, oltretutto, i bilanci pubblici si equilibrano assai facilmente. E dev'essere del tutto chiaro che ogni nazione, anzi, ogni regione, è da ultimo responsabile del suo sviluppo: è responsabile della quantità e qualità dei fattori umani che riesce a mobilitare. Questo è lo spirito del federalismo, quello che cerchiamo di introdurre con la riforma costituzionale anche all'interno del nostro paese. Ma una volta esclusa ogni tentazione di voler creare artificialmente lo sviluppo mediante bilanci pubblici in disavanzo o inflazione, I'obiettivo di sviluppo dev'essere centrale nelle politiche economiche europee: nessuna nazione o regione europea deve rimpiangere di avere aderito all'Unione monetaria; deve avere il sospetto che l'adesione alla moneta unica gli è costato anche mezzo punto percentuale di crescita in meno o mezzo punto in più di disoccupazione

Si potrebbe obiettare che, già ora, tutte le politiche di riforma strutturale e di sollecitazione della concorrenza contribuiscono allo sviluppo, nella misura in cui estendono e approfondiscono il Mercato Unico. E contribuiscono sicuramente allo sviluppo delle regioni più periferiche i fondi di coesione e i fondi strutturali. E' vero: questi strumenti indiretti sono importanti. Essi però non trasmettono l'idea che l'obiettivo numero uno dell'Europa è lo sviluppo, uno sviluppo intenso, forte e stabile. Questa insistenza, questa vera ossessione deve manifestarsi in una grande varietà di modi.

(a) Deve manifestarsi favorendo e stimolando grandi progetti europei di investimento: può darsi che molte delle indicazioni del piano Delors non fossero attuabili; e può darsi anche che il loro impatto occupazionale sarebbe stato limitato. Tuttavia, ove fossero stati attuati, il loro impatto simbolico sarebbe stato fortissimo e potrebbe esserlo ancora.

(b) Deve manifestarsi attraverso una riconsiderazione dei patti di stabilità. E' vero che la diffdenza di cui essi sono figli, la sfducia nei confronti della scarsa virtù fiscale di alcuni paesi (e soprattutto del nostro) hanno robuste giustificazioni: e tuttavia non si può convivere a lungo sulla base del sospetto e non possono reggere a lungo patti che non riconoscono a sufficienza la sensibilità dei bilanci pubblici all'andamento del ciclo; patti che trattano in modo indifferenziato spese correnti e spese per investimento, e non riconoscono la profonda differenza dei due tipi ai fini dello sviluppo. Regole più flessibili sarebbero assai più opportune e il prezzo che queste possono comportare - un monitoraggio accurato della natura delle spese e delle entrate, alla luce della loro funzionalità a un disegno d'investimento e trasformazione strutturale - in realtà può costituire un aiuto importante per i ceti politici locali. Vincoli, anche forti, sulle spese correnti possono e devono essere accettati, purché si conceda la possibilità di indebitarsi per spese d'investimento.

(c) Deve infine manifestarsi prestando una estrema attenzione ai canali che legano lo sviluppo dell'attivita economica e l'occupazione all'inflazione (una volta si chiamava "curva di Phillips), in modo da non precipitare mai in una situazione nella quale il perseguimento della stabilità monetaria entra in contraddizione con lo sviluppo. La BCE dev'essere un guardiano inflessibile: proprio per questo non bisogna mai fornirle motivi per intervenire. Dunque, in un modo o nell'altro, la dinamica dei salari e dei prezzi dev'essere tenuta sotto controllo soprattutto negli epicentri dello sviluppo europeo e la Commissione deve in ogni modo stimolare la costruzione di istituzioni capaci di raggiungere questi risultati. Un punto in meno nei tassi di interesse, dovuto a un più favorevole trade-off tra inflazione e disoccupazione, vale di più di migliaia di miliardi spesi per misure specifiche di incentivo e di sostegno.

Ma al di là dei modi in cui l'obiettivo si manifesta, è l'obiettivo stesso che deve essere chiaro alle opinioni pubbliche e ai governi europei; e dev'essere parte di un messaggio che trascende sospetti, controlli ossessivi, bilanciamenti ragionieristici e tutta la minuta politica degli interessi di cui sembra essere fatta l'Unione europea di oggi. La minuta politica degli interessi, I'attenzione sospettosa al rispetto delle regole da parte degli altri partner, sono un elemento essenziale dell'Unione europea, cosi come lo sarebbero anche di una federazione più coesa socialmente e politicamente dell'Europa: si tratta di un necessario elemento competitivo, che stimola politiche efficaci e ben bilanciate tra le regioni. Ma una federazione, o anche la nostra Unione europea, non può reggere soltanto su una piattaforma competitiva e potenzialmente conflittuale. Deve basarsi, come Delors aveva perfettamente intuito, su un disegno che faccia appello a quanto di comune e di condiviso esiste tra i popoli europei. Deve proporre un obiettivo entusiasmante rivolto direttamente alle opinioni pubbliche dei paesi e delle regioni che compongono l'Unione. Senza un disegno condiviso, senza un obiettivo entusiasmante, senza qualcosa che rende orgogliosi di essere europei - oltre che conveniente esserlo - non sarà facile reggere alle tensioni sociali conseguenti all'inasprimento competitivo causato dalla moneta unica.


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