Giusto un anno fa, quando ancora era del tutto
incerto se il nostro paese sarebbe riuscito a rispettare entro
la fine dell'anno le principali condizioni del trattato di Maastricht,
pubblicai sulla rivista "ll Mulino" un saggio dal titolo: "I'ltalia
nell'Unione Monetaria Europea: una rivoluzione copernicana".
In quel saggio sostenevo che le possibilità di sfruttare
le grandi occasioni che la moneta unica e il mercato unico ci
offrivano dipendeva essenzialmente da noi, dalla capacità
del governo e dalle forze politiche e sociali italiane di affrontare
una rivoluzione copernicana: dopo il lavoro di sciabola del
risanamento macro-economico, il lavoro di bisturi del risanamento
micro-economico, per creare ovunque condizioni competitive e
affrontare un confronto con il resto del mondo senza la rete
di sicurezza di periodiche svalutazioni. Fornivo esempi per
quattro settori rilevanti (settore pubblico, settore privato
esposto alla concorrenza, settore privato protetto, mercato
dei fattori e soprattuto del lavoro) e concludevo sottolineando
che il compito era necessario, ma diffficile politicamente:
diffficile per ogni tipo di governo e in particolare per un
governo di sinistra e che dipendeva cosi fortemente dall'appoggio
del sindacato.
Autocitarsi è sempre di pessimo gusto.
L'ho fatto però non tanto per rivendicare la paternità
di idee già allora piuttosto diffuse e in verità
abbastanza ovvie. L'ho fatto per mettere le mani avanti. Oggi
non parlerò dell'ltalia e dei compiti che l'attendono.
Parlerò dell'Europa e mi chiederò se il trattato
di Maastricht e le integrazioni successive costituiscano un
quadro che consente di indirizzare e sfruttare al meglio gli
sforzi che ogni paese deve fare. E siccome sarò parzialmente
critico di questo quadro, e non mi manifesterò cosi entusiasta
delle "magnifiche sorti e progressive" cui siamo destinati per
il semplice fatto di partecipare alla moneta unica, non vorrei
che questo atteggiamento venisse scambiato come quello di colui
che esita di fronte alla "rivoluzione copernicana", di fronte
alle diffcoltà politiche che un incessante lavoro di
ristrutturazione richiede, di fronte alla necessità di
mantenere in futuro rigorosi equilibri fiscali e inflazione
nulla o quasi.
Rispetto all'anno scorso non ho cambiato idea.
Mi pongo pero' il diverso problema che ricordavo prima: è
il quadro delineato a Maastricht il migliore possibile per pilotare
gli sforzi dei diversi paesi europei verso la soluzione di quello
che in gran parte di essi costituisce il problema più
grave: una disoccupazione che non soltanto riduce la ricchezza
potenziale dell'Europa, ma ne mina anche la coesione sociale?
Bisogna fare qualcosa per integrare o modificare questo quadro?
Procederò in questo modo:
- Darò prima una rapida rassegna sul consenso degli
economisti circa le conseguenze, in via generale, di un processo
di integrazione monetaria;
- in secondo luogo mi chiederò quali siano le previsioni
più ragionevoli circa il comportamento dell'Unione
europea (del Consiglio, della Commissione e, fra poco della
Banca) nelle principali aree di politica economica: le politiche
strutturali, quelle fiscali e quelle monetarie;
- in terzo luogo e in conclusione mi chiederò se queste
previsioni siano soddisfacenti, se non si possa fare di più
e di meglio.
Di più e di meglio rispetto a che cosa?
Rispetto all'esigenza - ovviamente - di stimolare un forte sviluppo
e una maggiore occupazione. La priorità di questa esigenza
è ovvia, ma come soddisfarla non è per nulla semplice
e la natura dell'obiettivo "occupazione" esigerebbe un'analisi
che qui non posso fare. Da questa analisi deriverebbero, mi
sembra, due conclusioni per noi rilevanti e mi limito ad affermarle
apoditticamente. La prima è che la disoccupazione europea
di oggi è una disoccupazione che proviene da un insufficiente
adattamento alle trasformazioni strutturali richieste dalla
fase di sviluppo in cui viviamo: insomma, è più
una disoccupazione "schumpeteriana" che "keneysiana" e non è
per nulla curabile scavando buche per terra e poi riempiendole…
E tuttavia, - e questa è la seconda conclusione - anche
se si tratta di disoccupazione schumpeteriana, anche se (anzi,
proprio perchè) sono necessarie trasformazioni strutturali,
è indispensabile una forte ripresa degli investimenti
e un tono sostenuto della domanda aggregata. Non è lo
Stato che deve scavare buche e riempirle, ma sono le imprese
che devono essere contente del tono della domanda aggregata
e delle prospettive di profitto. L'Europa di Maastricht fornirà
questo "tono" e queste prospettive?
1. Conseguenze dell'Unione Monetaria: il
consenso degli economisti.
Il consenso degli economisti, con un po'di
buona volontà, può essere riassunto nei seguenti
quattro punti.
(a) Un passo decisivo nel processo di integrazione
com'è quello della moneta unica ha effetti di lungo periodo
diffficilmente accertabili a priori, sia per l'Unione nel suo
complesso, sia per le singole parti. E' ragionevole presumere
che gli effetti siano favorevoli per l'Unione nel suo insieme,
se soltanto la politica dell'Unione e dei singoli stati non
sarà permanentemente recessiva sul piano fiscale. Tali
effetti favorevoli non derivano dalla moneta unica di per se
stessa, che ha vantaggi modesti e una tantum. Derivano dall'estensione,
dall'approfondimento, dalla garanzia di permanenza del Mercato
Unico. Insomma da "one market. one money", per citare il famoso
manifesto: questo è il motore di tutti i vantaggi dinamici.
(b) Effetti favorevoli per l'Unione, se ci
saranno, non equivalgono ad effetti uniformemente distribuiti.
Come si distribuiranno le tendenze alla concentrazione e alla
diffusione dello sviluppo che sono proprie di ogni passaggio
verso una più stretta integrazione è un punto
del tutto aperto, che dipende dalla capacità dei singoli
paesi (e Regioni) di creare nuclei competitivi di "economie
esterne", di condizioni ambientali favorevoli allo sviluppo.
Al di là di questa scatola nera - è una scatola
nera per gli economisti, perchè ci stanno dentro molte
cose che gli economisti non sanno analizzare - uno dei pochi
fatti stilizzati che l'evidenza empirica consente di costruire
è che, normalmente, le differenze internazionali e interregionali
nel reddito pro capite si riducono durante le fasi di crescita
intensa: ciò che è avvenuto in Italia tra Nord
e Sud nel periodo di più forte sviluppo solitamente avviene
ovunque. Ed è questo un altro motivo per cui c'è
da essere preoccupati per l'attuale fase restrittiva delle politiche
fiscali europee e c'è da augurarsi che sia presto superata.
(c) Per molti anni a venire, I'Unione non disporrà
di una struttura fiscale accentrata dalle dimensioni paragonabili
a quelle di una federazione, e forse non ne disporrà
mai. Questo significa che l'Unione non avrà stabilizzatori
automatici uniformi a livello sovranazionale, poiché
le politiche di trasferimento internazionale e interregionale
dell'Unione europea non hanno e non avranno effetti di stabilizzazioni
congiunturale rilevanti (e ciò sia per la loro entità
relativamente modesta, sia per la loro discrezionalità,
sia per la loro finalizzazione).
Di fronte a shocks asimmetrici, allora il compito
di stabilizzazione è afffidato ai singoli stati nazionali.
Se lo Stato (o le Regioni) avessero la possibilità di
sostenere cospicui disavanzi, sarebbe indifferente se la spesa
di stabilizzazione è sostenuta a livello centrale o locale.
Ma questa possibilità non c'è. Anzi, Stati e Regioni
- quanto meno nei prossimi anni - saranno sottoposti a vincoli
di bilancio più stringenti che in passato, fino a quando
la memoria della trascorsa rilassatezza fiscale non minaccerà
la credibilità dell'euro. Da questo consegue che la solidarietà
rimane e rimarrà un affare nazionale, se almeno lo Stato
nazionale continua a restare l'unità territoriale di
base della solidarietà, il che, per l'ltalia, non è
cosi sicuro.
(d) Se confrontata con gli Stati Uniti, I'Europa
è oggi caratterizzata da una bassissima mobilità
del lavoro, a livello sia internazionale sia interregionale.
In questo modo viene escluso un grande stabilizzatore dei redditi
e dell'occupazione: negli Stati Uniti, di fronte a shocks asimmetrici
regionali, si muovono i disoccupati e le loro famiglie, e questo
conduce, in tempi tutto sommato modesti, a tassi di disoccupazione,
ma anche di attività, piuttosto vicini tra regioni con
diversi tassi di crescita. Le ragioni di queste diversita sono
note. Al di là di cause culturali, importantissime, è
lo sviluppo dello stato sociale "all'europea" che contribuisce
in modo decisivo alla stabilizzazione della popolazione sul
territorio. Ciò ha come conseguenza che, se le persone
non possono essere portate verso i poli di sviluppo, nazionali
o internazionali, i poli di sviluppo devono essere portati verso
le persone; o meglio, se non vogliamo usare uno sgradevole tono
dirigistico, devono sorgere vicino alle persone. Il che significa
remare contro corrente, se viviamo in una fase in cui gli effetti
di concentrazione dello sviluppo prevalgono su quelli di diffusione.
Remare contro corrente vuol dire creare economie esterne laddove
spontaneamente non si formano. E vuol dire compensare economie
esterne mancanti con costi più bassi: insomma, lo si
voglia o no, la flessibilita salariale (così come tutte
le altre flessibilità del rapporto di lavoro e delle
relazioni industriali) agisce come parziale sostituto della
mancata mobilità del lavoro e della mancata diffusione
spontanea dello sviluppo.
Quest'ultimo è un punto di cruciale
importanza. In condizioni di moneta unica, gli Stati e le Regioni
competono attraverso la qualità e i prezzi delle merci
che producono. La qualità dipende da quel complesso di
economie interne ed esterne di cui abbiamo detto: dal sistema
dei trasporti, dal livello di formazione professionale, dalla
dedizione al lavoro delle maestranze, dall'istruzione e dalla
ricerca, dall'imprenditorialità, dall'effficacia dei
sistemi legali e burocratici e via a seguire. E' del tutto ovvio
che le singole regioni devono cercare di acquistare questo insieme
di economie e competere sulla base di esse: questa è
la "via alta" della concorrenza, quella compatibile con alti
salari e alti redditi. Ma è altrettanto ovvio che, al
momento, tali economie sono distribuite sul territorio europeo
in modo diseguale e che recuperare le distanze, da parte delle
regioni meno favorite, è un processo lungo e diffficile.
Segue da ciò che la "disinflazione competitiva", come
direbbe Jean Paul Fitoussi - che in larga misura è fatta
da concorrenza salariale - costituisce uno strumento parziale
ma inevitabile per stimolare la diffusione regionale dello sviluppo,
qualora questa non avvenga spontaneamente: uno strumento che
dev'essere accettato sia dalle regioni che l'adottano, sia dalle
regioni più ricche e con alti salari. Dubito che le implicazioni
e le dimensioni di questa "via bassa" alla competitività
siano state colte pienamente. Come vedremo meglio in seguito,
è essenziale al successo dell'Unione monetaria che le
dinamiche dei salari e dei prezzi siano molto moderate anche
nelle regioni più ricche e a sviluppo più intenso,
perchè solo in queste condizioni una politica monetaria
come quella che sicuramente farà la Banca centrale europea,
rigorosamente mirata al controllo dell'inflazione, non diventa
anche una politica deflazionistica e recessiva. Ma se salari
e stipendi crescono molto lentamente nelle regioni centrali,
una "disinflazione competitiva", una "concorrenza salariale"
da parte delle regioni periferiche, significa che salari e stipendi
monetari devono restare assolutamente fermi o addirittura diminuire.
Quanto prima questa amara verità è "portata a
casa" dall'opinione pubblica, dai partiti, dai sindacati, tanto
meglio è.
2. Una previsione
Al di là di alcune accentuazioni che
ho fatto per catturare l'attenzione degli ascoltatori, i quattro
punti che ho appena esposto esprimono il consenso degli economisti
che si sono dedicati a questi problemi: gli studiosi della geografia
del commercio internazionale, gli economisti regionali e coloro,
in particolare, che stanno seguendo il processo di unificazione
monetaria europea. Tenendo conto di questi quattro punti, vorrei
passare a un argomento più controverso: nell'ipotesi
che il 1° gennaio dell'anno prossimo l'Unione monetaria parta
come previsto (e che il nostro paese ci sia dentro), quali ragionevoli
previsioni si possono fare circa le politiche che l'Unione perseguirà
e indurrà gli stati membri a perseguire? A volo d'uccello
passo in rassegna i tre principali spazi di queste politiche
- lo spazio strutturale, quello monetario e quello fiscale -
per ognuno di essi avanzando una previsione e qualche commento.
Alla fine affronterò il problema se queste previsioni
ci soddisfano; cioè se, senza uno sforzo di volontà
politica straordinario (e dunque escluso dalle previsioni),
i problemi dell'occupazione e dello sviluppo che affliggono
l'Unione e buona parte degli stati membri potranno gradualmente
risolversi per effetto della stessa dinamica virtuosa che l'U.E.M.
avrà messo in moto.
(a) Per quanto riguarda le politiche strutturali
- le politiche agricole, le politiche di coesione, le politiche
regionali, le politiche di armonizzazione fiscale, le politiche
della concorrenza, per citare le aree più importanti
- un buon predittore degli sviluppi futuri sono i trend del
recente passato. La stessa Agenda 2000 prevede sviluppi significativi
ma non tali da ampliare gli spazi decisionali della commissione,
e soprattutto il suo bilancio, in modo da avvicinarli a quelli
di uno stato federale. Nella buona sostanza, i sistemi fiscali,
i sistemi previdenziali, le istituzioni e le regole del mercato
del lavoro subiranno sicuramente modifiche a seguito degli interventi
della Commissione, e soprattutto a seguito della concorrenza
tra i diversi paesi, ma rimarranno ancora profondamente diversi
e sotto lo stretto controllo dei parlamenti e degli stati nazionali.
L'avvicinamento alle condizioni di un'area monetaria ottimale
sarà probabilmente molto lento.
(b) Circa le politiche fiscali indotte dall'Unione
Europea e dunque, fondamentalmente, circa i patti di stabilità,
qui non riepilogo le principali obiazioni. Da un punto di vista
strettamente economico, essi non sono "nè necessari,
nè desiderabili": così Barry Eichengreen conclude
il suo recente libro sull'unificazione monetaria europea. La
gabbia decisionale imposta e accettata ad Amsterdam può
essere tollerata se le cose vanno bene, se non si danno rilevanti
shocks negativi e soprattutto shocks asimmetrici. Cosi come
i patti di stabilità sono formulati, e se vengono effettivamente
applicati, essi sono invece pericolosi in caso di recessioni,
generali o localizzate. Insomma, e questo è il giudizio
prevalente, la presenza di una Banca centrale con un obiettivo
dominante di lotta all'inflazione e singolarmente libera - almeno
nella sua fase iniziale - da condizionamenti politici, avrebbe
consigliato di non porre restrizioni effettive sulle politiche
fiscali degli stati membri: questi hanno basi imponibili autonome
a cui ricorrere e sembra del tutto improbabile che la Banca
centrale possa essere indotta a salvataggi (bailing-out) di
stati membri che si sono comportati in modo incauto: non c'era
dunque alcun timore di una perdita di controllo dell'offerta
di moneta. Ma, naturalmente, tutti conosciamo le ragioni politiche
che hanno indotto la Germania a insistere per questi patti.
(c) Per quanto riguarda le politiche monetarie, la Banca centrale
europea è investita della missione esclusiva di garantire
la stabilità dei prezzi e c'è da ritenere che
nei primi anni del suo funzionamento - quando il suo problema
dominante sarà quello di fondare la propria reputazione
- la missione sarà presa molto sul serio, stroncando
con forza ogni tensione inflazionistica che emergesse nelle
aree centrali dello sviluppo economico europeo. Un'Euro ragionevolmente
forte e la costruzione di una reputazione elevata della BCE
non sono obiettivi in contrasto con quello di un sostenuto ritmo
di sviluppo economico europeo: se lo sviluppo mondiale è
intenso e le altre principali valute non sono troppo sottovalutate
è possibile raggiungerli entrambi. Problemi di incompatibilità
si possono creare in due principali circostanze. (c.1) In condizioni
di stentatezza della domanda mondiale e/o di sottovalutazione
delle altre valute, che potrebbero richiedere un comportamento
della BCE attento non solo all'inflazione ma anche alle condizioni
di competitività per l'economia europea. (c.2) In condizioni
di tensioni inflazionistiche sui mercati europei: in questo
caso un obiettivo antiinflazionistico preso sul serio provocherebbe
una immediata reazione da parte della banca, un rialzo dei tassi
di interesse e un rallentamento della crescita.
(c.2) Le due circostanze sono piuttosto diverse.
Nel secondo caso, quello delle tensioni inflazionistiche interne
all'Unione, la responsabilità appartiene alle istituzioni
e ai mercati che determinano salari e prezzi dei singoli paesi:
specie reputazione della banca che ostacolano "l'attenzione"
allo sviluppo: quand'anche il Consiglio o uno speciale comitato
Euro-x potessero e volessero intervenire, essi sarebbero probabilmente
paralizzati da dissensi interni, che riflettono gli interessi
e le preoccupazioni di diversi governi, opinioni pubbliche ed
elettorati. Non c'è paragone rispetto a una Fed che ha
come interlocutore un presidente eletto dal popolo e che parla
con una voce sola.
Conclusione
Come possiamo riassumere le previsioni che
abbiamo avanzato? In condizioni internazionali molto favorevoli
i difetti di costruzione istituzionale e la carenza di omogeneità
sociale e politica dell'Unione europea non costituiscono un
ostacolo insormontabile a che l'Unione Europea consenta un più
ampio sviluppo delle grandi potenzialità del mercato
unico: una riduzione sensibile della disoccupazione; un avvicinamento
delle condizioni economiche tra le diverse regioni europee.
Se tali condizioni favorevoli perdurano, è anche ragionevole
aspettarsi che il coordinamento tra le politiche economiche
dei governi e la costruzione di istituzioni che riducono la
distanza tra l'attuale stato di cose e un lontano ideale federale
faccia notevoli passi avanti.
Queste previsioni e aspettative sono però
fortemente dipendenti da ipotesi di sviluppo mondiale intenso,
omogeneo e senza shocks, ipotesi che è molto difficile
avanzare per un periodo sufficientemente lungo. Come direbbero
gli econometrici, si tratta di una previsione che non è
sufficientemente robusta rispetto a variazioni del contesto
esterno: nel caso di rallentamento dello sviluppo mondiale o
di shocks che provengono dall'economia internazionale e sono
distribuite in modo asimmetrico, quelle debolezze nella costruzione
istituzionale e quelle carenze nella omogeneità sociale
e politica che caratterizzano l'Unione europea e la rendono
cosl lontana da una vera federazione o anche da un'area monetaria
ottimale avrebbero le gravi conseguenze cui ho fatto cenno nella
esposizione precedente. Una conclusione mi sembra allora inevitabile:
se abbiamo a cuore i problemi di occupazione e di sviluppo che
travagliano l'Europa, di queste previsioni non possiamo accontentarci.
Passato il giro di boa del 1° gennaio del prossimo anno,
inevitabilmente si devono porre all'ordine del giorno una riflessione
radicale sul futuro dell'Europa, un nuovo progetto europeo e
una nuova leadership europea. La moneta unica e i patti di stabilità
non bastano: essi devono essere accompagnati da un progetto,
da una visione fortemente positiva, da qualcosa che renda allo
stesso tempo conveniente e fonte di orgoglio e d'identità
l'essere cittadini deli'Unione europea. Non vorrei essere frainteso
e ritorno a mettere le mani avanti.
Non solo è perfettamente possibile,
ma è necessario crescere in condizioni di stabilità
dei prezzi. Non solo è perfettamente possibile, ma è
necessario crescere con bilanci pubblici sostenibili e facendo
leva sulla imprenditorialità privata: se si cresce, oltretutto,
i bilanci pubblici si equilibrano assai facilmente. E dev'essere
del tutto chiaro che ogni nazione, anzi, ogni regione, è
da ultimo responsabile del suo sviluppo: è responsabile
della quantità e qualità dei fattori umani che
riesce a mobilitare. Questo è lo spirito del federalismo,
quello che cerchiamo di introdurre con la riforma costituzionale
anche all'interno del nostro paese. Ma una volta esclusa ogni
tentazione di voler creare artificialmente lo sviluppo mediante
bilanci pubblici in disavanzo o inflazione, I'obiettivo di sviluppo
dev'essere centrale nelle politiche economiche europee: nessuna
nazione o regione europea deve rimpiangere di avere aderito
all'Unione monetaria; deve avere il sospetto che l'adesione
alla moneta unica gli è costato anche mezzo punto percentuale
di crescita in meno o mezzo punto in più di disoccupazione
Si potrebbe obiettare che, già ora,
tutte le politiche di riforma strutturale e di sollecitazione
della concorrenza contribuiscono allo sviluppo, nella misura
in cui estendono e approfondiscono il Mercato Unico. E contribuiscono
sicuramente allo sviluppo delle regioni più periferiche
i fondi di coesione e i fondi strutturali. E' vero: questi strumenti
indiretti sono importanti. Essi però non trasmettono
l'idea che l'obiettivo numero uno dell'Europa è lo sviluppo,
uno sviluppo intenso, forte e stabile. Questa insistenza, questa
vera ossessione deve manifestarsi in una grande varietà
di modi.
(a) Deve manifestarsi favorendo e stimolando
grandi progetti europei di investimento: può darsi che
molte delle indicazioni del piano Delors non fossero attuabili;
e può darsi anche che il loro impatto occupazionale sarebbe
stato limitato. Tuttavia, ove fossero stati attuati, il loro
impatto simbolico sarebbe stato fortissimo e potrebbe esserlo
ancora.
(b) Deve manifestarsi attraverso una riconsiderazione
dei patti di stabilità. E' vero che la diffdenza di cui
essi sono figli, la sfducia nei confronti della scarsa virtù
fiscale di alcuni paesi (e soprattutto del nostro) hanno robuste
giustificazioni: e tuttavia non si può convivere a lungo
sulla base del sospetto e non possono reggere a lungo patti
che non riconoscono a sufficienza la sensibilità dei
bilanci pubblici all'andamento del ciclo; patti che trattano
in modo indifferenziato spese correnti e spese per investimento,
e non riconoscono la profonda differenza dei due tipi ai fini
dello sviluppo. Regole più flessibili sarebbero assai
più opportune e il prezzo che queste possono comportare
- un monitoraggio accurato della natura delle spese e delle
entrate, alla luce della loro funzionalità a un disegno
d'investimento e trasformazione strutturale - in realtà
può costituire un aiuto importante per i ceti politici
locali. Vincoli, anche forti, sulle spese correnti possono e
devono essere accettati, purché si conceda la possibilità
di indebitarsi per spese d'investimento.
(c) Deve infine manifestarsi prestando una
estrema attenzione ai canali che legano lo sviluppo dell'attivita
economica e l'occupazione all'inflazione (una volta si chiamava
"curva di Phillips), in modo da non precipitare mai in una situazione
nella quale il perseguimento della stabilità monetaria
entra in contraddizione con lo sviluppo. La BCE dev'essere un
guardiano inflessibile: proprio per questo non bisogna mai fornirle
motivi per intervenire. Dunque, in un modo o nell'altro, la
dinamica dei salari e dei prezzi dev'essere tenuta sotto controllo
soprattutto negli epicentri dello sviluppo europeo e la Commissione
deve in ogni modo stimolare la costruzione di istituzioni capaci
di raggiungere questi risultati. Un punto in meno nei tassi
di interesse, dovuto a un più favorevole trade-off tra
inflazione e disoccupazione, vale di più di migliaia
di miliardi spesi per misure specifiche di incentivo e di sostegno.
Ma al di là dei modi in cui l'obiettivo
si manifesta, è l'obiettivo stesso che deve essere chiaro
alle opinioni pubbliche e ai governi europei; e dev'essere parte
di un messaggio che trascende sospetti, controlli ossessivi,
bilanciamenti ragionieristici e tutta la minuta politica degli
interessi di cui sembra essere fatta l'Unione europea di oggi.
La minuta politica degli interessi, I'attenzione sospettosa
al rispetto delle regole da parte degli altri partner, sono
un elemento essenziale dell'Unione europea, cosi come lo sarebbero
anche di una federazione più coesa socialmente e politicamente
dell'Europa: si tratta di un necessario elemento competitivo,
che stimola politiche efficaci e ben bilanciate tra le regioni.
Ma una federazione, o anche la nostra Unione europea, non può
reggere soltanto su una piattaforma competitiva e potenzialmente
conflittuale. Deve basarsi, come Delors aveva perfettamente
intuito, su un disegno che faccia appello a quanto di comune
e di condiviso esiste tra i popoli europei. Deve proporre un
obiettivo entusiasmante rivolto direttamente alle opinioni pubbliche
dei paesi e delle regioni che compongono l'Unione. Senza un
disegno condiviso, senza un obiettivo entusiasmante, senza qualcosa
che rende orgogliosi di essere europei - oltre che conveniente
esserlo - non sarà facile reggere alle tensioni sociali
conseguenti all'inasprimento competitivo causato dalla moneta
unica.