Il Movimento per L'Ulivo: LA SCUOLA QUADRI
Tecniche di comunicazione per la politica
di Erminio Fragassa

 

INDICE

1 I contenuti della comunicazione
1.1 Definizione della comunicazione politica
1.2 Distinzione tra informazione e comunicazione

2 Linguaggio e politica
2.1 Il linguaggio e la costruzione della realtà politica

3 I media
3.1 Il rapporto con i media
3.2 Media e istituzioni di governo
3.3 Le funzioni dei media
3.4 Il ruolo dei media nella competizione Elettorale
3.5 Le dinamiche di comunicazione Politica dell'Europa occidentale. Il caso italiano

4 Opinione pubblica
4.1 Le origini
4.2 Teoria dell'Agenda Seffing
4.3 I sondaggi di opinione

5 Media e democrazia
5.1 I media e l'antipolitica
5.2 Ilfuturo della comunicazione politica
5.3 Verso una democrazia eleffronica?


  1. I CONTENUTI DELLA COMUNICAZIONE

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1.1 Definizione della comunicazione Politica

"La comunicazione politica consiste dell'insieme dei processi d'interazione tra gli elementi di un sistema politico e tra questo sistema e il suo ambiente"."La comunicazione pubblica identifica quell'area dell'attività simbolica di una società in cui, a seguito dei processi di differenziazione sociale, sistemi diversi interagiscono e competono per assicurarsi visibilità e per sostenere il proprio punto di vista su argomenti di interesse collettivo."

1.2 Distinzione tra informazione e comunicazione

Il primo tema da affrontare è quello della distinzione tra informazione e comunicazione che spesso tra gli addetti ai lavori è assunta acriticamente e meccanicisticamente. Si tratta di una distinzione certamente consolidata, ma contemporaneamente anche problematica, che ha suscitato non poche polemiche e discussioni. Essa risale ai primi approcci della matematica dell'informazione formulata da Shannon e Weaver (1971). Diversi autori l'hanno poi ulteriormente elaborata; recentemente Luhmann ne ha tentato un'interessante sistematizazione. Per il sociologo tedesco, per comunicazione si deve intendere l'insieme di tre attività, o selezioni, come le chiama: 1) informazione, 2) atto del comunicare e 3) comprensione. In altre parole, Luhmann distingue tra ciò che viene veicolato, il contenuto della comunicazione, e l'atto seguito da successo o meno, attraverso il quale questo scambio informativo si realiza. C'è quindi nella comunicazione una dimensione tripolare in cui "il primo termine indica la selettività dell'informazione stessa, il secondo la selezione dell'atto che la comunica, il terzo l'attesa del successo" (Luhmann, 1984, p. 256).Il primo momento indica la componente di " selettività dell'informazione". Quando si comunica si compie sempre una scelta includendo alcuni elementi e escludendo altri: " la comunicazione estrae qualcosa dall'orizonte di volta in volta attuale a cui rimanda e che essa sta costituendo, scartando qualcos'altro" (Luhmann, ivi, p. 54). Con il secondo momento si indica invece l'atto del comunicare vero e proprio e quindi la scelta del comportamento da assumere (quali obiettivi, quali mezzi, quali modalità di interazione). Il terzo momento rimanda invece all'attesa e alla verifica del successo della comunicazione rispetto agli obiettivi dati. In particolare, sottolinea Luhmann, affinché ci sia comunicazione vera e propria è necessario che ci sia comprensione del messaggio intesa nella duplice accezione di corretta interpretazione di ciò che è stato trasmesso e di sua accettazione. Questa tripartizione è per Luhmann dimensione ineludibile di ogni processo comunicativo di cui mette in luce la complessità.

La formulazione del sociologo tedesco aiuta a comprendere quanto sia difficile assumere acriticamente l'accezione più generale e più semplice della distinzione tra informazione e comunicazione così frequentemente utilizzata nel campo operativo. Qui l'informazione indica usualmente il trasferimento di unità minimali di conoscenza mentre le attività di comunicazione implicano anche un tentativo di persuasione dell'interlocutore e quindi auspicano modifiche dei suoi atteggiamenti e comportamenti. Molti manuali di comunicazione pubblica riprendono tale distinzione così come essa è anche rispecchiata nella suddivisione organizzativa di molti uffici ed attività.

Tuttavia se si considerano le notazioni di Luhmann, ci si accorgerà che, almeno teoricamente, una distinzione tra informazione e comunicazione è difficile se non impossibile: la comunicazione prevede infatti sempre un'attività informativa e questa, a sua volta, richiede una corretta comprensione, quindi l'instaurarsi di un canale efficace tra emittente e destinatario, perché venga decodificata ed utilizzata secondo le intenzioni dell'emittente Ciò signif~ca immediatamente che i comunicatori devono considerare il processo nella sua interezza e, anche nel momento in cui prendono in considerazione soltanto il momento informativo, dovrebbero però anche preoccuparsi delle altre due fasi e quindi strutturare un processo complesso che le includa e che ne preveda la "felice" riuscita.

I processi di differenziazione funzionale e la nuova situazione di competizione che si determina nella sfera pubblica mettono ancora di più in dubbio la possibilità di separare informazione da comunicazione, almeno come usualmente utilizzata nel campo più specificatamente professionale, e riconducono alle ipotesi formulate da Luhmann. Nella nuova sfera pubblica la presunzione del risultato è parte integrante anche dell'attività informativa. Per competere con la miriade di altre fonti che ora producono informazione e comunicazione è necessario che anche la più semplice delle informazioni giunta in porto, sia correttamente interpretata e produca i risultati preventivati. Se seguiamo la formulazione di Luhmann questo significa considerare quello comunicativo come un processo complesso in cui è impossibile separare l'informazione dalla comunicazione.

In altre parole, questo significa che l'intero settore della comunicazione pubblica è diventato più competitivo e più sofisticato. Le istituzioni pubbliche non hanno più potuto adagiarsi sulla vecchia situazione che le vedeva protette, sicure di un proprio territorio, anche simbolico, che consentiva la veicolazione dei propri messaggi. Si è così arrivati ad una completa revisione degli strumenti informativi tradizionali e al coinvolgimento di competenze professionali esterne specializzate. La nuova situazione di competizione ha imposto l'adozione di strategie non più casuali, ma attentamente programmate, ideate e condotte anche per quei messaggi che si proponevano prevalentemente finalità informative.


  1. LINGUAGGIO E POLITICA

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"Chiunque non sa tacere, è indegno di governare". "Public speech no longer attends the process of governance: it is governance".

La prima asserzione, dell'abate Dinouart (1771), s'inscrive in una riflessione sull'arte di tacere come caratteristica irrinunciabile di un giusto modello di condotta politica. Una riflessione tutt'altro che isolata o bizzarra. Tra il XVII e il XVIII secolo, essa, anzi, vede impegnati fior di filosof~ e intellettuali, tutti partecipi di quel grande evento storico-politico che è la formazione dello Stato moderno. Declinata di volta in volta come etica del silenzio, rispettosa dell'ideale di sincerità (Dinouart) o come politica del silenzio, come tattica e astuzia (Gracian, 1637, cit. in Dinouart, 1992), la riflessione su l'arte di tacere è entrata a far parte a pieno titolo della storia del pensiero politico moderno.

L'altra asserzione, è, invece, di uno scienziato politico americano, autore di un fortunato libro sulla comunicazione presidenziale in età moderna (Hart, 1987). La tesi è che esiste un rapporto lineare tra più parola pubblica e più potere. Nel "regime di visibilità", per riprendere una felice espressione del semiologo francese, Erik Landowski (1985), il discorso pubblico produce, come mai prima d'ora, gli avvenimenti: esso è lo strumento di potere per eccellenza della leadership politica.

Nella loro perentorietà, quelle due asserzioni sembrano, dunque, evocare universi politici irriducibili. Quali valori, d'altronde, condividono la società di corte e i sistemi politici contemporanei? Cosa può accomunare il cardinale Richelieu e Ronald Reagan? L'uomo degli intrighi di palazzo e il "grande comunicatore"?

L'accostamento potrebbe essere, perché no, un'utile traccia per la ricostruzione del percorso compiuto dalla politica moderna. Il nesso tra linguaggio e politica fornirebbe la principale cartina di tornasole per la comprensione dei rapporti di potere vigenti in un dato regime. Esso richiama, però, anche l'attenzione sul seguente paradosso: che lo studio di quel nesso dovrebbe proprio cominciare col riconoscere l'importanza del silenzio per la politica (Corcoran, 1990). Ma, verrebbe da dire, non è un luogo comune concepire il "reale" significato - la "verità", appunto - come qualcosa che è sempre altrove, in ciò che non è detto, o in ciò che è dissimulato dalle ambiguità del linguaggio? Squarciare il velo degli arcana imperii del potere, rompendo il silenzio della parola: quante volte abbiamo ascoltato questa assai ingenua convinzione!

Parrebbe allora di sfondare una porta aperta, se non fosse per la circostanza che la teoria sociale e politica contemporanee hanno sviluppato prospettive d'analisi sorprendentemente compatibili non solo con la nozione che la politica è costituita dal linguaggio ma anche che la politica è linguaggio.

Preoccuparsi del silenzio della parola avrà sempre meno senso. Molto più importante sarà invece capire che cosa nasconde il silenzio dell'immagine.

2.2 Il linguaggio e la (De) costruzione della realtà politca

La storia politica è cronaca di molte frustrazioni e tragedie, che la gente subisce quasi sempre senza opporvi resistenza. Uno degli interrogativi classici in materia politica, è perché mai un così grande numero di persone sostenga l'autorità di governi che richiedono di accettare questo tipo di storia.

Nel tentativo di dare una risposta ai perché dell'acquiescienza politica, Edelman fa del linguaggio il principale fattore critico.

Nella formazione della coscienza e dei comportamenti politici a rivelarsi determinante non è la "realtà" in senso verificabile e osservabile, ma sono piuttosto le convinzioni che il linguaggio contribuisce a mobilitare.

E' infatti il linguaggio sugli eventi politici, "piutosto che gli eventi in qualsiasi altro senso possibile, ciò di cui il pubblico fa esperienza. Anche gli avvenimenti più prossimi acquisiscono il proprio significato dal linguaggio che li descrive. Per queste ragioni il linguaggio politico è la realtà politica: nessun altro significato degli avvenimenti esiste…"(Edelman 1992).

Basandosi su questo presupposto epistemologico fondamentale - la politica non esiste cioè nella sua oggettività, ma è sempre una costruzione e/o rappresentazione linguistico/simbolica a partire da un punto di vista particolare. L'analisi Edelmaniana ha sviluppato due nuclei problematici fondamentali che, insieme, provvedono ad una critica pungente della politica contemporanea e delle rappresentazioni mediali del processo politco nelle democrazie avanzate.

E' in primo luogo, Edelman attacca i principi convenzionali secondo cui le convinzioni politiche sono razionali e le azioni di governo in un certo senso rispecchiano la volontà e le preferenze del pubblico. Nelle società contemporanee si approfondisce invece la frattura tra leadership e i cittadini, ridotti a spettatori passivi ed ininfluenti di spettacoli politici che hanno altrove la propria cabina di regia. In secondo luogo, egli sostiene che le comunicazioni di massa costituiscono l'ambito privilegiato per la costruzione degli spettacoli politici. Le logiche di funzionamento proprie di questo sistema fanno sì che il linguaggio e i simboli che esso produce ed evoca diano luogo a rappresentazioni della politica estremamente stilizzate e, paradossalmente, tanto più attraenti quanto meno vicine all'esperienza dei pubblici sollecitati a reagire.


  1. I MEDIA

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Che cosa sono i media? Il concetto di "mass media" è un concetto ambiguo.

Ciò non si deve all'uso disinvolto ed indiscriminato che è ormai invalso anche nel dibattito culturale. Tutto viene incluso in quella dizione, dai quotidiani ai periodici, dalla radio alla televisione fino ai cosiddetti "new media".

Piuttosto, l'ambiguità del termine dipende dal fatto che i media sono al tempo stesso molte cose diverse. Essi sono complessi apparati tecnico-industriali e organizzazioni istituzionali con proprie logiche di funzionamento. Ma anche risorse di potere per il controllo sociale e l'innovazione. I mass media sono l'arena ove a livello nazionale e, in misura crescente, internazionale si strutturano il gioco politico e le relazioni pubbliche. Essi sono diventati il fattore più importante di mutamento culturale attraverso l'impatto esercitato sugli stili di vita e come meccanismi produttivi di nuove forme simboliche. Inoltre, agendo direttamente sul sistema dei valori e sulle aspettative di individui, di gruppi sociali e di intere comunità, i mass media costituiscono le principali fonti di identificazione individuale e collettiva.

3.1 Il rapporto con i media

Su questo punto Chomsky, in un libro scritto a quattro mani con Herman, "Manufacturing consent: the political economy ofthe mass media" (1988), ha elaborato una teoria, definita PROPAGANDA MODEL, che spiega il modo in cui i mezzi di comunicazione di massa diffondono e rafforzano l'agenda politica, economica e sociale delle élites. Adottando un approccio di "economia politica", questi studiosi considerano i media americani come fossero quelli di un sistema totalitario, in cui però la conformità è assicurata, non da un controllo monopolistico attraverso la burocrazia di uno Stato-Partito, ma attraverso "vie per le quali i soldi e il potere filtrano le notizie da stampare, marginalizzano il dissenso e permettono agli interessi dominanti e al governo di indirizzare i loro messaggi al pubblico".

3.2 Media ed istituzioni di Governo

Quando il termine fourth estate (quarto potere) si diffuse nel dibattito giuridicopolitico dell'età moderna, nessuno faceva riferimento ai media a stampa (press).

Per lungo tempo, tale concetto ha avuto uno status incerto, dovuto all'assoluta centralità della formula tripartita su cui poggiava il costituzionalismo inglese. Dopo la Rivoluzione del 1689-90, gli unici poteri riconosciuti legittimi dalla costituzione erano infatti il re, i lord e i comuni.

Il moltiplicarsi dei corpi (body) che avanzavano la pretesa di una propria costituzionalizzazione, mise tuttavia ben presto in evidenza la necessità di fare i conti con le innovazioni nei processi di governo e nell'organizzazione della macchina statale. Si avviò, così, un lento processo di riformulazione concettuale che mirava ad adattare gli schemi dottrinali alla mutata realtà politica. A mettere ordine nel lessico giuridico-politico contribuì, tra gli altri, Peter Burke che operò quella identificazione, giunta fino ai nostri giorni, tra sistema dei media e quarto potere (Gunn, 1983).

Una volta incardinato nell'edificio costituzionale, restava tuttavia aperto il problema più spinoso: quale profilo istituzionale e quale funzione riconoscere al quarto potere?

A quest'interrogativo potevano essere date, come di fatto avvenne, risposte diverse meno che una: che esso potesse trasformarsi, al pari degli altri tre poteri, in un soggetto della lotta politica o, addirittura, in un'istituzione di governo. Si affermò così la funzione che al fourth estate spettasse esclusivamente un potere arbitrale tra quei diversi segmenti dell'autorità pubblica di più antica tradizione. Una soluzione, questa, che può apparire insoddisfacente se non proprio ambigua, ma che è nondimeno la più comprensibile sia sotto il profilo storico-politico che ideologico-culturale.

In Inghilterra, infatti, la genes intrecciarono con il consolidamento del quarto potere. Nel corso delle trasformazioni di tipo liberal-democratico del regime oligarchico, le forze che sostennero tale sviluppo, ebbero, nella diffusione dei circuiti di comunicazione una straordinaria risorsa di legittimazione e di influenza politica. La maggiore centralità delle istituzionale rappresentative nel sistema politico anglosassone - parlamento e partiti - procedeva, in altri termini, di pari passo con la costruzione di una sfera pubblica mediatizzata: il cammino della rappresentanza e quello della rappresentazione non erano ancora disgiunti.

Sul piano ideologico-culturale fu, inoltre, proprio grazie a quella finzione che i teorici del liberalismo o del popular government, alle prese con i mutamenti negli assetti di potere vigenti, poterono restare saldamente ancorati al rassicurante linguaggio costituzionale. L'awento del quarto potere, piuttosto che minare dalle fondamenta la tripartizione tradizionale, poteva esserne considerato anzi il naturale completamento. Certo, non mancava chi, come lo stesso Burke, ne denunciava i rischi e gli effetti degenerativi. Ma, la circostanza che fossero i pensatori conservatori a nutrire questa preoccupazione era oltremodo significativa. Essa era infatti solo espressione dell'avversione per tutto ciò che suonava come una minaccia per il vecchio ordine costituito. E nulla era vissuto come più minaccioso del mutamento che il quarto potere introduceva nei circuiti e nei modelli di legittimazione dell'autorità politica.

La riflessione teorica sul quarto potere, sviluppatasi successivamente ha riformulato, ma mai del tutto abbandonato, quell'assunto.

Walter Lippman, ad esempio in Public Opinion ribadirà lo stesso concetto, evidenziando i vincoli strutturali che impediscono al quarto potere di essere potere di governo.

Prendendo le distanze dall'idea che la stampa dovesse compensare le "manchevolezze delle istituzioni pubbliche", Lippman ricordava che è la natura stessa delle notizie a renderlo inconcepibile. Metaforicamente, le news sono come un "fascio di luce di un faro che si sposta incessantemente, portando un episodio dopo l'altro dal buio alla luce". Ma, appunto "gli uomini non possono governare la società a forza di episodi, incidenti ed esplosioni". In breve, "la stampa non è un sostituto delle istituzioni [...] [ma], nella sua espressione migliore, ne è serva e custode [...]" (Lippman,1963,pp. 288-9).

3.3 Le funzioni dei media

Storicamente, le concezioni più diffuse identificano essenzialmente cinque funzioni che, in varia misura e a seconda delle combinazioni, pongono in un rapporto di conflittualità e/o di cooperazione gli apparati dei media e le forze politiche e istituzionali.

Innanzitutto, si afferma il Principio di neutralità I giornalisti devono limitarsi a raccogliere e a presentare in maniera "obiettiva" le informazioni. L'imparzialità è il valore professionale più importante. Il rispetto del principio di neutralità non esclude affatto che si possono interpretare le notizie in modo da informare i cittadini sulle attività di governo, cioè che la stampa svolgesse il cosiddetto ruolo di Advocacy che le viene riconosciuto. Il terzo ruolo, eonsiderato da molti il ruolo chiave della stampa in una soeietà demoeratiea,eonsiste nell'assegnare ai media la funzione di rappresentare l'interesse pubblico nei confronti del sistema politico.

Il giornalismo nella funzione di Wotchdogs, implicitamente riconosciuta nel Primo Emendamento, ma sancita formalmente nel 1966 con il Freedam of Information Act. In ehe cosa esattamente consistesse questa funzione non doveva essere poi eosì seontato, visto ehe, negli Stati Uniti, dovette essere promulgata una legge federale per regolamentarla. La quarta funzione eonsiste nel formare l'opinione pubbliea, e nell'informare sia il pubblico che le istituzioni eirca il elima d'opinione prevalente. Infine un ruolo di chiara rilevanza politiea ehe consiste nella capacità e/o possibilità di influenzare i processi di "Policy Making" eoncentrando l'attenzione su singole issues o agendo da eassa di risonanza di azioni e scelte politiche.

La grande maggioranza di studiosi di scienze della comunicazione conviene, in ogni caso, nel ritenere che la diffusione dei media ha fatto si che nei sistemi politici contemporanei non si può più governare avendo -contro il sistema dell'informazione, che non si può governare senza il sistema d'informazione; e, infine, che si tende a governare attraverso il sistema dell'informazione.

I media sono i veri artefici del "News Making". Sono i giornalisti e i loro editori a determinare quali "storie" e temi meritano l'attenzione del pubblico, vale a dire quali eventi e/o personaggi sono "News Worthy". Questa funzione ha un potente effetto su ciò che il pubblico vede e apprende circa le caratteristiche personali e le proposte dei singoli candidati. La definitiva affermazione dei criteri propri alla logiea di trattamento della informazione dei media si evinee soprattutto dall'analisi dei mutamenti nello stile e nella natura delle news televisive: la durata media del Sound bite si è drasticamente ridotta, passando da 60 secondi a meno di 10 secondi nel giro di due decenni (1968-1988). Il news- maker è, dunque, sempre di meno il eandidato e sempre più il giornalista. Non è eiò ehe dice il primo, ma quanto si dice su di esso che ormai ha la preponderanza nella produzione delle news. Il pezo è una sapiente confezione di materiali di diverso genere - grafiei, filmati, commenti di esperti, sondaggi - caratterizzata da una chiara e coerente linea interpretativa. La ricerca del "perché" prevale sulla descrizione del "cosa". L'emergere di questa forma di news-making da al giornalista un più ampio controllo sul contenuto delle news, vale a dire sulla formazione e individuazione della domanda politiea (Hallin, 1992). Essa eomporta, inoltre, una frammentazione e un impoverimento del discorso politieo, dal momento ehe riduce drasticamente gli spazi coneessi al confronto e all'argomentazione di idee e programmi politici a tutto vantaggio di forme semplificate e drammatizzate di rappresentazione (Bennett 1988).

3.4Il ruolo dei media nella competizione elettorale

Nel loro insieme, le strategie che i partiti e i candidati elaborano, per far fronte alle esigenze poste da una campagna mediatizata, delineano i contorni di un modello di comunicazione elettorale altamente professionalizzato. Con ciò si intende soprattutto mettere in rilievo che gli attori politici devono ricorrere a risorse - tecnologie, saperi, figure professionali - di natura diversa rispetto a quelle che per il passato era sufficiente attivare per ottenere il consenso degli elettori. La sfida lanciata dai media è una sfida a tutto campo: occorre allora attrezarsi.

Innanzitutto, in che modo gli attori politici cercano di attirare l'attenzione dei media? Ottenere un free news coverage è, infatti, uno dei principali obiettivi perseguiti dai canditati alla ricerca di una maggiore visibilità e notorietà presso il pubblico.

Questo comporta, da un lato, l'adeguamento del discorso e dei comportamenti politici ai registri comunicativi dei media. In altri termini, le strategie, dei partiti e dei candidati vengono confezionati secondo le logiche produttive degli apparati dell'informazione. Appelli, presa di parola, dichiarazioni: tutto allo scopo di essere sulla scena mediatica. Dall'altro lato, però, l'attenzione dei giornalisti si cattura dando il via ad iniziative e/o eventi newsworthiness - come le conferenze stampa e i dibattiti - di cui si cerca di controllare ogni singolo aspetto (Kraus, 1 99o).

Le strategie di making news non sono, però, sufficienti. Anzi, sempre più forte è il rischio di vedere del tutto stravolti i propri messaggi: tra politici e giornalisti, si sa, non corre buon sangue (Mancini, Swanson, 1995). In questo contesto assumono allora particolare importanza le strategie di advertising.

Sottoposta a regimi diversi di regolamentazione giuridico-legislativa, condizionata dai modelli organizzativi del sistema dell'informazione e dagli orientamenti culturali prevalenti, la pubblicità politica televisiva si è rivelata essere una delle principali risorse di comunicazione politico-elettorale nelle mani di partiti e canditati. Di questi messaggi si controllano, infatti, totalmente formati e contenuti; e forte è la convinzione che servano a modificare le preferenze degli elettori. Le tipologie che sono state elaborate per dar conto delle strategie di advertising. hanno fatto talvolta riferimento al fattore tempo come principale variabile esplicativa (Diamont, Bates, 1984). In altri casi, la diversificazione delle forme, della durata, delle tecniche di advertising, si spiega alla luce di quelle variabili che attengono alle caratteristiche del mercato politico: la natura della campagna elettorale - nazionale o locale; la cultura politica prevalente e la posizione di potere dei canditati in competizione- se si tratti cioè del detentore del potere o dell'aspirante alla leadership (Kaid et al., 1987). Nonostante queste diversità, è possibile identificare tre principali strategie di political advertising: di identificazione, di promozione/consolidamento e di attacco.

Gli spot d'identificazione sono importanti specialmente all'inizio della campagna e servono a creare presso il pubblico una familiarità col nome del candidato. E' evidente, che questo tipo di strategia vede soprattutto impegnati coloro che si affacciano per la prima volta sulla scena politica. Data la interrelazione esistente nelle campagne elettorali americane tra livello di notorietà del candidato ed entità dei finanziamenti, varcare la soglia della riconoscibilità presso il pubblico diventa, però, la principale preoccupazione per qualsiasi candidato. Se per molti cittadini questo passaggio è sufficiente a far maturare una scelta di voto, non è cosi per la gran parte degli elettori. Questi devono essere persuasi e, a tal fine, si può far ricorso a strategie che promuovono/rafforzano presso il pubblico il nome e l'immagine del candidato associandolo a valori e/o a capacità di gestione della cosa pubblica e di implementazione delle policies. I candidati alla presidenza fanno appello, allora, a nuclei valoriali discriminanti - la giustizia, la prosperità individuale, la solidarietà ecc. - che distinguono nettamente le rispettive piattaforme programmatiche. Il significato di questi valori risiede nel fatto che entrambi permettono appelli ideologici che presentano la duplice caratteristica di essere universalistici, cioè potenzialmente rivolti a tutti gli americani, e di parte, in quanto elementi di identificazione della propria base elettorale (Smith, 1989).

Infine, si possono mettere a punto strategie di attacco volte a denigrare l'awersario e a metterne in risalto incapacità e manchevolezza. Poiché la Negative political adrertising riflette meglio gli umori prevalenti nell'elettorato ed è maggiormente congruente con i dettami della media logic, nelle ultime campagne elettorali si è assistito ad una sua straordinaria crescita a danno degli altri tipi di advertising. (Johnson Carter, Copeland, 1991).

Come si è anticipato, la messa a punto di efficaci strategie di comunicazione elettorale e di conduzione delle campagne implica l'impiego di risorse organizzative complesse e il ricorso a nuovi specialismi. Un'importanza crescente hanno, infatti, assunto la dimensione tecnologica, i sondaggi di opinione e un apparato di professionisti con competenze molto diversificate. La diffusione di reti integrate di computer permette il coordinarnento tra molteplici attività, la gestione di una quantità di informazioni e il loro uso sia per la targettizzazione dei messaggi elettorali sia per l'analisi degli scenari strategici alternativi - attraverso, ad esempio, lo studio dei flussi elettorali.

Il ricorso a vari tipi di sondaggi - banch-mark poll, trend poll e tracking poll - nelle diverse fasi della campagna, fornisce agli attori politici i dati sugli orientamenti e le preferenze degli elettori, sui temi rilevanti sull'opinione pubblica o per segmenti di pubblico. In questo modo, in mancanza di fonti di informazione alternative affidabili, si confezionano i messaggi e le scelte strategiche da adottare nel corso della campagna.

La professionalizzazione del modello di comunicazione politico-elettorale contempla, infine, la centralità di figure come i media advisers, i political consultants e, più in generale, di agenzie specializzate in public relations e nel pachaging.

Questi strumenti conosciuti, comunicativi e organizzativi, prima sconosciuti, hanno contribuito a trasformare la struttura dei partiti e le macchine elettorali dei candidati, incidendo, in particolare, sui circuiti decisionali interni, andati progressivamente verticalizzandosi e centralizzandosi.

Meno speculative sono, pero, le ricerche sull'impatto del discorso politico prodotto in campagna elettorale tanto dai media quanto dai candidati (Southwell,1991). Nel sintetizzare i risultati di un'indagine ad ampio raggio effettuta in occasione di vari tipi di competizioni elettorali - presidenziale, governatoriale e per il Senato - viene sottolineato che le campagne possono essere sia eventi di mobilitazione che di smobilitazione politica. E che ciò dipende dalla natura dei messaggi che essi diffondono. Posto questo nesso, è evidente che la preponderanza delle caratteristiche del news coverage e delle strategie dei canditati dianzi descritte - sensazionalismo, horce-race, drammatizzazione, nagative political adrertising ecc. - favorisce il distacco dalla vita politica.

Piuttosto che generare un atteggiamento ostile nei confronti di determinati candidati e issues, queste caratteristiche, infatti, sedimentano pregiudizi sulla natura del processo elettorale, sul significato delle campagne e sulla capacità dei cittadini di esercitare un'influenza politica. La trivializzazione del processo elettorale svuota di senso l'atto stesso del voto; cinica è la campagna, cinici diventano i cittadini. La lenta ma costante erosione della credenza nella responsiveness dei politici e delle istituzioni si accompagna alla diffusione di un senso d'impotenza politica nei cittadini che si traduce in una rinuncia all'esercizio del diritto di voto (Ansolabehere et al., 1994).

3.5 Le dinamiche di comunicazione politica nell'Europa occidentale -Il casoitaliano -.

Non c'è dubbio che una delle principali novità di quest'ultimo decennio è l'emergere di un solido filone di studi sulle dinamiche di comunicazione politica ed elettorale nei paesi dell'Europa occidentale. Almeno fino alla fine degli anni Ottanta, le ricerche evidenziano soprattutto i fattori di differenziazione tra il modello americano e le esperienze in atto nelle democrazie europee. Certo non manca chi prende le distanze nei confronti del punto di vista dominante, suggerendo che lo sviluppo dei media elettronici era destinato, nel lasso di breve tempo, non solo ad avere un impatto determinante sugli orientamenti di voto, ma anche sulle istituzioni politiche e sullo spazio pubblico nel suo complesso (Seaton 1985). O, anche, chi riconosce la centralità dei mezzi di comunicazione nella competizione politica-elettorale, ma ne limita, però, il raggio d'azione soprattutto alle esperienze dei nuovi e piccoli raggruppamenti partitici, costretti a dipendere dai media per farsi conoscere dal pubblico(Semetko,1989).

In genere, però, le risultanze empiriche delle indagini effettuate sottolineano le differenze che sussistono tra un paese e l'altro in ordine alle più diverse dimensioni d'analisi - diffusione delle tecnologie elettroniche, modelli di organizzazione degli apparati giornalistici, rapporti tra élites e mass media ecc. - ma, soprattutto, che nel vecchio Continente la new politic è ostacolata dalla tenuta di assetti istituzionali - struttura normativa del sistema elettorale, conformazione dei rapporti tra maggioranze e opposizioni ecc. - fondati su solide organizzazioni partitiche e sulla permanenza di una quota rilevante del voto d'appartenenza:

Questi fattori ovviamente non condizionano in egual misura le dinamiche di comunicazione politico-elettorale nei diversi contesti nazionali. Molto più incisivo è, ad esempio il ruolo che viene attribuito alle variabili in senso lato culturali nella democrazia di Westminster. Nonostante qui sia in vigore un sistema maggioritario e si sia in presenza di una forte premiership, la mediatizzazione delle campagne non ha trovato un terreno fertile di coltura per la presenza di modelli culturali irriducibili a quelli americani.

Comparando le elezioni britanniche del 1983 e quelle presidenziali americane del 1984, si mette in evidenza che l'esito e le modalità di controllo e formazione dell'agenda politico-elettorale vengono condizionati da fattori squisitamente culturali. In particolare, le differenze delle ideologie professionali appaiono discriminanti. Là dove, come in Inghilterra, prevale una concezione della professione giornalistica ispirata a criteri di "neutralità" e "obiettività", il candidato ha maggiori chances di controllare l'agenda. Diversamente dagli Stati Uniti, dove i giornalisti, godendo di un ampio potere discrezionale, utilizzano quanto detto dai politici in un contesto narrativo autonomamente costruito, che i politici non sono in grado di influenzare (Semetko et al., 1991). Questi risultati confermano, sotto un aspetto specifico, l'ipotesi secondo cui l'Inghilterra è caratterizzata dalla presenza di modelli di cultura politica che enfatizzano la "sacralità" delle istituzioni e dell'assenza di elementi populistici (Blumler, 1990).

Guardando più specificatamente alle modalità di organizazione e conduzione delle campagne, in Inghilterra si sono, però, andate affermando alcune caratter~stiche del modello americano. In particolare, queste novità concernono l'introduzione delle più sofisticate tecniche di marketing elettorale, la diffusione del ricorso ad agenzie di consulenza politica, I'uso dei sondaggi e di quant'altro possa essere considerato espressione di un moderno orientamento all'organizzazione e conduzione delle campagne. Nonostante questi mutamenti abbiano spinto ad una riorganizzazione degli apparati dei due principali partiti, in Gran Bretagna un ruolo decisivo nella determinazior strategie di comunicazione elettorale spetta, però ancora ai partiti e ai loro leader. (Kavanagh, 1995).

Per quanto riguarda l'Italia, per tutti gli anni Ottanta si registra un sostanziale accordo sull'ipotesi che la comunicazione politica in Italia svolga essenzialmente funzioni di dialogo e di raccordo tra gli attori del sistema politico. Questa ipotesi interpretativa perviene ad una definizione della specificità del caso italiano molto diversa da quelle fino a quel momento più accreditate. Tale specificità non viene, infatti più ricondotta al ritardo tecnologico e produttivo del sistema dell'informazione o ai rischi dell'avvento del Grande Fratello, ma a variabili di natura politico istituzionale. In Italia, a differenza di quanto accadeva negli Stati Uniti, il rapporto tra apparati della politica e apparati della comunicazione vedeva quest'ultimi in un ruolo di parallelismo politico se non proprio di subordinazione ai primi. Il mancato sviluppo del "quarto potere" era imputato "alla struttura stessa del sistema politico e alle regole del gioco elettorali vigenti nel nostro paese". Con un sistema proporzionale puro, "considerato dal punto di vista della formazione del consenso, ed un sistema coalizionale spinto dal punto di vista delle modalità di governo" l'interazione tra media e politica si è sviluppata con un forte carattere autoreferenziale: "i politici parlano di se stessi e dei media, e altrettanto fanno questi ultimi, con scarsa attenzione agli eventi e ai temi rilevanti" (Marletti, 1987).

Sulla stessa lunghezza d'onda, in un saggio che sistematizza in quadro d'insieme i risultati delle ricerche sul tema, si parte proprio da questo punto: il sistema politico italiano presenta caratterizzazioni del tutto differenti dai sistemi maggioritari, caratter~zzazioni che spiegano la natura e il significato della comunicazione politica nel nostro paese: la prevalenza di una comunicazione politica orizzontale su quella di tipo verticale e il crescente uso della produzione comunicativa ai fini strategico/negoziali. La comunicazione politica "diventa lo strumento attraverso il quale gli attori del sistema politico interagiscono tra di loro, mediano le rispettive posizioni, raggiungono o infrangono accordi" (Mancini, 1990).

In un contesto caratterizzato da questi elementi - sistema partito forte, arena elettorale complessa e presenza di un livello di volatilità del voto molto basso - le dinamiche di comunicazione politico-elettorale si strutturano in forme che hanno poco a che vedere con quelle che contraddistinguono il sistema americano. Stentano ad emergere le nuove figure professionali, come i poliical consultant e i media men; limitato è il ricorso ai sondaggi; penalizzate risultano le politicy issues. In questa fase la comunicazione elettorale tende ancora a rafforzare le appartenenze ideologiche.

Elementi di novità certo non mancano, tanto sul versante dell'offerta dei formati, degli stili e dei contenuti del coverage elettorale, quanto su quello delle strategie dei candidati - e dell'adrertising in particolare (Mazzoleni, 1991). Come si è ricordato in precedenza, esse riguardano, poi, in particolare modo la lenta ma costante diffusione di forme di personalizzazione e spettacolarizzazione della comunicazione politica: i dettami della media logic si impongono gradatamente in un contesto di cui, però gli attori politici detengono ancora il pieno controllo.

Accanto a forti elementi di differenziazione, alcune trasformazioni nelle modalità e forme di comunicazione politico elettorale già lasciano supporre nel decennio passato che sia questo il trend di sviluppo. In particolare, il terreno su cui si registrano le più significative convergenze con l'esperienza americana riguarda le strategie televisive di adrertising che i partiti o i singoli canditati mettono in atto. In questo caso, si può parlare senz'altro di una diffusione di moduli e formati American-style nelle principali democrazie europee - Inghilterra, Francia Germania e Italia- che si accompagna ad un mutamento significativo nell'organizzazione delle campagne elettorali nei processi decisionali degli elettori (Kaid, Holtz-Bacha, 1995).

Come conseguenza del riconoscimento della rilevanza della politica video style, inoltre, si fa strada l'idea che anche nei sistemi parlamentari stia emergendo una competizione elettorale candidate-oriented, con leader di partito proiettati sulla scena politica allo stesso modo dei candidati alla presidenza (Denver, 1992).

Il punto di domanda che nel nostro paese è stato posto - "stiamo passando dalla personalizzazione della comunicazione politica alla personalizzazione della politica?" - pùò essere allora tolto (Mazzoleni, 1990). Ma questa è un'altra storia, storia del nuovo decennio.

L'impatto dei media sul processo elettorale - dall'organizzazione delle campagne alla selezione dei candidati, dalle strategie comunicative agli orientamenti di voto - non può certo essere sottovalutato, ma sarebbe un errore ritenere, alla luce di quanto detto, che la vittoria elettorale dell'uno o dell'altro soggetto politico - partito e/o candidato - venga decisa da essi. Anche laddove più avanzato è il processo di mediatizzazione della politica, come appunto negli Stati Uniti, l'esposizione ai media è diventata cioè una condizione necessaria, ma non ancora sufficiente per correre alle presidenziali e per vincerle. Tante sono, dunque, le variabili in gioco che l'esito di una competizione politico-elettorale è difficilmente imputabile al prevalere dell'una o dell'altra.

Ciò non significa affatto ridimensionare il ruolo dei mezzi di comunicazione. Al contrario. In realtà, è l'alternativa posta dal dibattito sul media power a essere ormai inaccettabile. Lo dimostra, tra l'altro, la inadeguatezza della distinzione/competizione tra media party logic. Quella che è stata una delle chiavi interpretative più accreditate nelle analisi comparate del decennio passato per la comprensione delle attuali dinamiche tra sistema dei media e sistema dei partiti, infatti, ha retto fino a che è stato possibile distinguere analiticamente e accertare empiricamente che i due apparati, quello dei media e quello della politica, hanno funzionato secondo una logica autonoma. Hanno perseguito obiettivi propri, utilizzato risorse proprie- organizzative, professionali, finanziarie e simboliche - ed elaborato proprie strategie di comunicazione (Mancini, 1993b).

Questa considerazione ci introduce all'ultimo punto di domanda. Ricordare le elezioni italiane del 1994 ha significato infatti parlare degli inizi di un decennio che per molti analisti ha aperto una nuova era nel campo della comunicazione politica. Cerchiamo ora di capire perché si è giunti a un giudizio tanto impegnativo e, inoltre, di chiarire se esso vale limitatamente all'esperienza americana oppure anche rispetto agli scenari che vanno affermandosi nell'occidente europeo.

La legittimazione mediatica interessa, però anche un altro segmento del processo democratico, quello della competizione per la leadership. Negli anni Novanta, si sono infatti moltiplicati i casi in cui soggetti estranei o esterni ai circuiti tradizionali della politica hanno giocato la carta della legittimazione diretta dell'opinione pubblica nella lotta per il potere .Quella outsider non è certo una figura del tutto nuova. Tuttavia, per il passato, la sfida dell'outsider avveniva nel rispetto di procedure consolidate e accettate da tutti.

In questi ultimi anni, si è andato invece affermando un modello di carriera "politico-mediatica" che si caratterizza proprio per il sowertimento dei principi di legittimazione dei leader invalsi nei sistemi democratici.

Fino al decennio scorso non si sono date valide alternative ai modelli che hanno legittimato a governare chiunque ne avesse superato con determinazione e pazienza i numerosi passaggi. Il modello di carriera partitica, da un lato, e quello tecnocratico, dall'altro, fornivano le risorse, anche di natura simbolica, a un ceto di professionisti della politica che otteneva il mandato elettorale. Berlusconi in Italia, Perot negli Stati Uniti, Tapie in Francia sono solo gli esempi più eclatanti di una strategia di affermazione personale fondata sull'impiego spregiudicato di risorse non convenzionali, di natura mediatica, che trasformano le regole del gioco della rappresentanza politica.

Che la conquista di una popolarità mediatica personale sia diventata una potente risorsa per ottenere il successo nell'arena politica è un dato già noto. I membri di Congresso, parallelamente all'espandersi del media coverage di questa istituzione, hanno fatto del going public una strategia efficace per catturare l'attenzione del pubblico, tanto a livello nazionale che nei distretti dove sono stati eletti.

Tuttavia, i casi menzionati danno vita a qualcosa di molto diverso rispetto a queste esperienze. Pur nella loro specificità, essi infatti hanno in comune alcuni tratti che concorrono a definire un nuovo modello di carriera, un modello di carriera "politico-mediatica", che non è assimilabile a quello tipico dei congressmen (Lecomte, 1996).

L'accesso ai media, più che una risorsa si è rivelato essere elemento consustanziale all'intrapresa politica. Esso ha innanzitutto permesso di bruciare le tappe dell'ascesa politica, cortocircuitando con i tempi lunghi delle carriere partitiche e tecnocratiche. L'adeguamento degli stili e dei ritmi d'azione alle esigenze del sistema mediatico, l'uso dei sondaggi, la valorizzazione dell'elemento personale e spettacolare a fini di identificazione collettiva ha, inoltre, fornito gli elementi per la elaborazione di una retorica e di un linguaggio del tutto peculiari.

L'estraneità rispetto ai canali tradizionali di reclutamento e di socializzazione politica diviene un punto di forza delle strategie di comunicazione. La valorizzazione, dunque, della propria identità e delle proprie competenze professionali, che rimarca la distanza rispetto ai luoghi tradizionali d'esercizio del potere, viene intesa come risorsa in grado di rinnovare profondamente l'agire politico e come fattore credibile per sottoscrivere un nuovo patto con il popolo.

Queste strategie di legittimazione mediatica hanno, tuttavia, dei gravi limiti. Il primo elemento di precarietà si annida nella loro necessità di dover disporre di ingenti risorse finanziarie. Se la politica costa in genere, costruire una carriera mediatica lo è infinitamente più oneroso. E' sintomatico e significativo, secondo Lecomte, che nella corsa al potere molti di questi outsider abbiano poi finito col fare i conti con la giustizia. Le modalità eterodosse con cui hanno costruito la loro carriera, hanno costituito un serio ostacolo perché la loro posizione e il loro ruolo si consolidassero entro un campo, quello politico, che resta un campo fortemente strutturato nonostante tutto.

Questo passaggio richiama l'attenzione su quell'elemento ancor più grave di precarietà che inerisce alla natura stessa della legittimazione mediatica: la evanescenza delle risorse - il flusso di irnmagini e le strategie di comunicazione - sulle quali essa ha fondato la propria fortuna.

Partito mediale e legittimazione mediatica soffrono, dunque, di limiti che ne impediscono una rapida diffusione nella democrazie occidentali. Le condizioni che hanno favorito il loro improvviso successo - in Italia il crollo dei vecchi partiti - sono al tempo stesso vincoli sistemici difficilmente aggirabili (Mazzoleni, 1995). Se un radicato sentimento antipartiti è, però, una precondizione necessaria, non c'è dubbio, allora, che in tutti i paesi europei la sfida è aperta (Calise, 1996).

La descrizione di queste due problematiche ha lasciato fin qui in ombra la componente massmediologica delle trasformazioni in atto. Certo, la focali~zione delle strategie di legittimazione mediale dei leader ha fatto già riferimento all'uso di nuovi stili di comunicazione politico-elettorale. In particolare, la polemica antipartitica che accomuna le esperienze analizzate si è fondata su un tipo di retorica - il media populism - che non si caratterizza solo per i contenuti dei messaggi che esso trasmette ma anche per l'uso di inediti formati di comunicazione (Owen, 1994).

Tanto nel contesto europeo quanto in quello statunitense, il sistema dell'informazione è stato attraversato da mutamenti che hanno riguardato sia i media tradizionali sia i cosiddetti "new" new media - come, ad esempio, Internet - che costituiranno sempre più nel ffituro una fondamentale risorsa nella competizione politico-elettorale.

In generale, nelle democrazie europee, l'attenzione si è incentrata soprattutto su quegli sviluppi che hanno eroso i vecchi modelli di comunicazione e che hanno emancipato il sistema dei media dal ruolo di semplici canali di veicolazione di informazioni prodotte dal sistema politico (Franklin, 1994; Scammell, 1995). Nel nostro paese, poi, anche se con una varietà di accenti, le ricerche hanno messo in rilievo come, a fronte del declino strutturale dei tradizionali apparati di gestione del consenso, l'intero sistema dei media si è andato configurando come principale arena per la rappresentazione e la strutturazione dei processi politico-elettorali (Morcellini, 1995; Mancini, Mazzoleni, 1995; Livolsi, Volli, 1996). Questa idea centrale ha owiamente i suoi corollari. L'accento cade, allora, di volta in volta sulla capacità dei giornalisti di esercitare autonomamente il potere di agenda; oppure sui nuovi formati comunicativi che hanno ampliato lo spazio per le policy issues; o, ancora, sulla definitiva affermazione di modalità di coverage delle campagne- personalizzazione, uso dei sondaggi, costruzione dell'immagine ecc. - che favoriscono il meccanismo della electability dei canditati (Bentivegna, 1995; Grandi, 1996; Savarese, 1996).

Se, da una parte, questi mutamenti sembrano avvalorare l'ipotesi che sia giunto a compimento il processo di americanizzazione della comunicazione politico-elettorale in Europa, dall'altro occorre considerare che non sono certo poche e irrilevanti le differenze che si registrano tra i diversi contesti nazionali. Perdipiù, alcuni dei nuovi formati di comunicazione dei media tradizionali, nonché la natura dei "new" new media, non sono affatto riconducibili nell'alveo di quelle trasformazioni, come dimostra, in particolare, I'esperienza americana. Ed è su questo problema che è forse utile spendere qualche parola conclusiva.

Nei paesi del Vecchio Continente si mette in discussione che i nuovi media offrano la risposta ai problemi provocati dall'espansione della media logic (Barnett, 1997). Non senza una punta di sarcasmo, si sottolinea, anzi, come nella stragrande maggioranza dei casi la politica on-line conta poco, e non solo per la scarsa diffusione che essa ancora sconta. Anche chi la pratica, si dice, la pratica male, non conoscendone appieno le potenzialità.

Se è vero che è difficile dire fin d'ora quanto peserà il loro sviluppo sulle dinamiche politico-elettorali, ciò non toglie che questo sia già diventato uno dei terreni più avanzati di sperimentazione di nuovi formati e stili di comunicazione. Vuoi che interessino i sistemi di Breadcasting vuoi, invece, che mettano a frutto le più sofisticate tecnologie telematiche e multimediali, alcune delle più significative innovazioni sulle due sponde dell'Atlantico - Internet, videoconferenze, talk show - sono collegate da un unico filo rosso: la ricerca di o l'opzione per una maggiore interattività tra i diversi soggetti coinvolti nelle dinamiche comunicazionali e una tendenza al superamento dei modelli di giornalismo politico tradizionali.

Le chiavi di lettura che sono state suggerite per analizzare questi fenomeni hanno messo in rilievo gli aspetti di novità, sia da un punto di vista strettamente mediologico - come stanno cambiando i tradizionali apparati della comunicazione - sia da quello della comunicazione politica.

Sotto quest'ultimo aspetto, la diffusione, in particolare, dei talk show - radiofonici e televisivi - nei più importanti appuntamenti elettorali di questi ultimi anni - presidenziali americane e francesi del 1992 e del 1995 ed elezioni italiane del 1994 e del 1996 ha messo in luce non poche caratteristiche di spiccato interesse teorico (Herbst,).

Come è stato osservato da due autorevoli studiosi, tali caratteristiche sono essenzialmente due: "Una è il ripristino della centralità del cittadino medio come punto di riferimento degli attori della comunicazione politica ed esso stesso partecipe del dibattito pubblico [...1. L'altra è il ritorno della "sostanza" al centro della comunicazione politica" (Blumler, Gurevitc, 1995).

L'ipotesi che queste novità siano riconducibili alla maggiore capacità di esercizio di funzioni di intermediazione e di advocacy da parte degli apparati dell'informazione solleva forti dubbi. Anzi, non manca chi fa osservare che la loro diffusione mette in discussione il ruolo dei giornalisti, scavalcati, da un lato, dai leader politici, e sovrastati, dall'altro, dalla voce di quel soggetto cui loro hanno creduto di dover dare la parola: l'opinione pubblica (Neveu, 1996). Se questo sia solo l'altra faccia del populismo mediatico, è presto per dirlo. Il sospetto, però, resta ed è forte.


  1. OPINIONE PUBBLICA

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Sono trascorsi circa due decenni da quando, in Europa, si metteva in dubbio l'esistenza dell'opinione pubblica (Bordieu, 1976). Interpretabile retrospettivamente, in parte come reazione della cultura del vecchio continente al predominio dell'empirismo americano, in parte come espressione di una persistente chiusura intellettuale verso quel che veniva considerato poco più di un mito liberal-borghese, quel tentativo appare oggi consegnato alla storia della communication research. Riviste specializzate, centinaia di istituti di ricerca sparsi in tutto il mondo, agenzie governative appositamente costituite, nuove figure professionali, migliaia di articoli e libri, insegnamenti universirari: come credere che tutto ciò ruoti intorno a una sorta di public phantom, come la definitiva Lippman già negli anni Venti?

Quella di Bordieu era, in realtà, una intelligente provocazione, non del tutto priva di un nucleo di verità. Chiunque si accinga a studiare l'opinione pubblica si imbatte in dichiarazioni di estrema cautela, che richiamano l'attenzione sul disaccordo esistente tra gli studiosi su cosa si debba intendere con quel concetto. Se negli anni Sessanta si contavano ben 50 definizioni diverse (Childs, 1965, cit. in Davison, 1968), oggi le cose non vanno certo molto meglio, tant'è che di recente si è ricordato il persistente paradosso che caratterizzerebbe gli studi sull'opinione pubblica. Un paradosso consistente nel fatto che, al vertiginoso sviluppo delle metodologie e delle tecniche di misurazione, non ha corrisposto una soddisfacente comprensione e definizione concettuale del fenomeno (Noelle-Neuman, 1986).

Non c'è dubbio che una prima immediata risposta sarebbe tentata di ricondurre le difficoltà concettuali proprio al vertiginoso moltiplicarsi delle ricerche empiriche. Accumulare una mole straordinaria di dati ha potuto favorire la standardizazione delle procedure di rilevamento, ma non certo la definizione di schemi analitici e criteri interpretativi univoci e generalmente condivisi. Questa, come tutte le risposte facili, coglie in effetti solo una parte di verità, e nemmeno la più significativa. La risposta va invece cercata soprattutto nel mancato raccordo che ab origine è dato riscontrare tra mutamenti politico-istituzionali e riflessione teorica. Una frattura che il classico lavoro di Habermans (1971) ricostruisce puntualmente. ma che non contribuisce a ricucire in maniera convincente.

Come è noto, lo studioso della scuola di Francoforte apriva, oltre trent'anni fa, la ricerca su ciò che fosse esattamente - e quindi anche su quando, dove e come si venisse originariamente affermando - la "sfera pubblico borghese". Una sfera pubblica storicamente ben distinta da quella popolar-plebea, che pur emergeva talvolta già nel XVIII secolo, così come da quella che Habermans chiama "plebiscitaria acclamativa" di alcune società industriali postliberali.

Da questa analisi emerge che l'opinione pubblica è storicamente uno spazio istituzionale organizzato nell'ambito dello Stato di diritto liberale. La sua funzione è di natura prettamente politica, in quanto si pone come istanza intermedia fra l'elettorato e il potere legislativo. Più precisamente, in questo processo le diverse aggregazioni che appunto formano la sfera pubblica hanno come controparte lo Stato, il potere politico incarnato nell'amministrazione e nel controllo, nella corte e nelle istituzioni politiche. Essa ha, inoltre, la funzione di consentire a tutti i cittadini un'attiva partecipazione politica, mettendoli nella condizione di discutere e di manifestare le proprie opinioni sulle questioni di pubblico interesse.

Il declino delle condizioni strutturali, su cui si fondava lo Stato liberal-borghese - netta separazione tra sfera pubblica e sfera privata, centralità del parlamento, suffragio censitario, liberalismo economico - ha fatto sì che dell'opinione pubblica, come istanza critica e di controllo rispetto al potere politico, si potesse parlare ormai solo in termini di finzione istituzionale e giuridica. Nelle società democratiche di massa l'opinione pubblica non essendo più il frutto di una discussione pubblica tra individui autonomi e razionali, si è ridotta ad una "istanza ricettiva" delle strategie manipolatorie delle élites di potere in cerca di consenso e legittimazione politica.

L'opera habermaniana coglieva lucidamente la questione teorica di fondo, ma finiva poi con l'essere debole sul piano propositivo, costretta dalle sue stesse premesse normative a lanciare grida di allarme o a prefigurare utopistici scenari di un nuovo e razionale universo comunicativo. Su questo percorso di ragionamento era allora, non solo molto difficile ricostruire il concetto di opinione pubblica, ma anche sperare di saldare riflessione teorica e ricerca empirica.

D'altra parte, se guardiamo agli esiti cui approda l'altro approccio, quello struttural-funzionalista, le cose non sono andate diversamente. In polemica con Habermans, il sociologo tedesco Niklas Luhman ha sostenuto, in uno dei più robusti scritti teorici sull'argomento, che l'opinione pubblica ha cessato di svolgere quel ruolo di controllo critico sull'azione di governo ed è divenuta "lo strumento in grado di ridurre l'elevata arbitrarietà di ciò che è possibile giuridicamente e politicamente", ovvero la "struttura tematica" oggetto delle decisioni normative e politiche. (Luhman, 1978). Tale struttura si sviluppa grazie a un processo comunicativo e secondo modalità che "catturano" I'attenzione del pubblico su determinate issues. Si parla allora di opinione pubblica solo quando e nelle circostanze in cui un tema s'impone alla discussione pubblica e diventa oggetto di controversia politica. L'opinione pubblica come effetto d'agenda? Si, se essa altro non è che la sequenza dei "temi" di maggiore risonanza sociale che il sottosistema politico seleziona e ordina sulla base del grado di interesse pubblico suscitato. Data l'importanza attribuita ai flussi di informazione, ci si aspetterebbe una maggiore attenzione per la logica massmediale e per il suo impatto sui processi di tematizzazione. Purtroppo, niente di tutto questo. I media appaiono infatti rivestire un ruolo secondario all'interno del sistema politico-istituzionale. La teoria struttural-funzionalista, che avrebbe potuto vantare tra i suoi punti di forza il proprio contributo al superamento del gap tra riformulazione teorica dei concetti e indagine empirica, non è invece riuscita nell'intento.

4.1 Le Origini

La fiducia dei pensatori liberali inglesi e francesi - da Burke a Bentham, da Constant a Guizot - nella "incorruttibilità" dell'opinione pubblica come fondamento del potere politico fu già messa in discussione da Alexis de Tocqueville nella Democrazia in America. Denunciare i pericoli del dispotismo della maggioranza o del conformismo di massa significava infatti mettere in discussione l'idea che lo sviluppo delle società moderne garantisse il libero svolgimento della personalità individuale e il formarsi di un pubblico di individui raziocinanti.

Ma fu soprattutto con il nuovo secolo che nelle liberal-democrazie occidentali queste preoccupazioni e questi dubbi si diffusero ben al di là di ristretti circoli di intellettuali. Infatti, "se sul piano empirico si assisteva a una grande ricchezza e varietà di ricerche, sul piano tearico erano presenti varie tendenze, spesso contraddittorie, rispetto a cosa si intendeva per opinione pubblica. Era proprio su tale concetto che si erano focalizate le critiche di molti importanti studiosi come Lippman, Dewey Lowell, Wallas. Quella che veniva messa sotto accusa era la visione ottocentesca di una democrazia dove la rale by public opinion si basava su una concezione non ancora incrinata delle funzioni conoscitive della razionalità umana". (Frezza, 1989)

A spingere un ripensamento critico di questo concetto vi avevano contributo numerosi fattori. Lo sviluppo delle nuove tecniche di comunicazione di massa aveva mutato il panorama della società industriale americana attraverso un enorme ampliamento della audience e un'espansione del mercato. Ma ancor più decisiva era stata l'esperienza della Grande Guerra. Maturò infatti in quegli anni un clima culturale che tendeva a minare la teoria democratica tradizionale. L'enfasi sulle componenti irrazionali dell'agire umano non poteva essere facilmente respinta.

Per la prima volta nella storia le tecniche delle public relations, della publicity e dell'advertising erano state utilizzate su scala di massa dallo stesso apparato governativo "per trasformare una popolazione pacifista in una massa isterica e guerrafondaia che (...) voleva entrare in guerra e salvare il mondo " (Chomsky, 1994). L'efficacia delle tecniche di propaganda venne generalmente riconosciuta al punto che se ne teorizzò il ricorso sistematico a fini di consenso.

Tra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, in maniera più o meno consapevole ed esplicita, le ricerche vengono condotte a partire dalla ripresa di questi assunti normativi della teoria del governo rappresentativo. Se l'opinione pubblica è funzione vitale dei sistemi democratici, nella misura in cui Ia distribuzione delle preferenze in essa esistente riesce a tradursi in corrispondenti scelte politiche e di governo, allora la verifica empirica, o anche la falsificazione, di quest'assunto diviene l'obiettivo primario, nonché il significato ideologico, dell'enorme sforzo di investigazione scientifica che si va compiendo.

In un clima fortemente ideologizzato e di autocelebrazione dei valori della democrazia liberale, non potevano certo mancare studi sulle strategie perseguite dalle élites politiche e di govemo per influenzare l'opinione pubblica. Propaganda, pubblicità e numerose altre tecniche di new management vengono minuziosamente analizzate per giudicarne l'effetto manipolatorio. Sebbene non manchi chi riconosca come sia difficile l'accertamento della connessione empirica tra le variabili, alla fine prevale l'idea che l'esistenza di un sistema pluralistico di informazione - in cui, si noti, figurano non solo i mass media, ma anche i gruppi di appartenenza e le associazioni politiche e civili - fa salva l'autonomia di giudizio di ciascun individuo.

La teoria degli "effetti limitati", e la sua fortuna, si comprendono solo se collocate su questo sfondo più generale. Formulata agli inizi degli anni Sessanta da Joseph Kappler sulla base dei risultati empirici forniti dalle ricerche condotte da Lazarsfeld, Berelson e Gaudet in occasione delle elezioni presidenziali del 1940 e del 1944, essa riprendeva l'ipotesi del "rafforzamento", per la quale i media non modificano le opinioni, ma appunto le rafforzano. Il meccanismo attraverso cui ciò avverrebbe è quello della "percezione selettiva", vale a dire la tendenza degli individui a selezionare nella massa delle informazioni diffuse dai media principalmente quei messaggi in sintonia con le proprie preferenze, e a rimuovere invece i messaggi dissonanti. Ed è, infine, grazie a questo meccanismo che i fruitori dei flussi di comunicazione possono sottrarsi da effetti di manipolazione.

Questa affermazione è tanto più vera, secondo Kappler, quanto più si pensa che nei sistemi democratici i cittadini non sono esposti ai media in condizioni di isolamento, ma, piuttosto, all'interno di una rete molto più vasta di rapporti sociali. Pluralismo delle fonti di informazione da una parte, capacità di percezione selettiva, dall'altra, non erano che due facce dello stesso processo di riaffermazione e rilegittimazione dei valori e delle istituzioni democratiche.

Il modello degli "effetti limitati" e l'idea del carattere del destinatario della comunicazione mediale prendono sempre più consistenza sulla base di indagini empiriche circoscritte a specifici eventi comunicativi, e con una attenzione rivolta a registrare quei fenomeni che confermano l'esistenza di una relazione di tipo causaeffetto tra messaggio e orientamento politico-ideologico dei suoi destinatari.

Il concetto che si afferma in questi anni è quello che intende l'opinione pubblica come nient'altro che la sommatoria delle opinioni di ciascun individuo di una popolazione data su una specifica issue in un particolare intervallo temporale. E' questo il clima culturale prevalente che spiega la straordinaria diffusione dei sondaggi d'opinione. Basti qui ricordare la fondazione, nel 1965, della World Association for Public Opinion Research, cui aderirono più di 40 paesi; e la creazione di centinaia di istituti di ricerca, soprattutto negli Stati Uniti, sia a livello locale che nazionale e statale.

4.2 Teoria dell'Agenda Setting

Nella sua versione originaria, per la teoria dell'agenda setting il problema era di accertare empiricamente la corrispondenza tra agenda dei media e agenda del pubblico. (Cohen, 1963; McCombs, Shaw, 1972). Più precisamente, come è stato ricordato, I'ipotesi iniziale dell'agenda setting non sostiene che i media cercano di persuadere ma, "descrivendo e precisando la realtà esterna, presentano al pubblico una lista di ciò intorno a cui avere un'opinione e discutere (....). L'assunto fondamentale dell'agenda setting è che la comprensione che la gente ha di gran parte della realtà sociale è mutuata dai media". (Shaw, 1979).

Si afferma cioè l'esistenza di un nesso di causalità per il quale le priorità dell'agenda dei media influenzano le priorità dell'agenda del pubblico. Si verifica così un trasferimento di salienza dagli elementi costituenti le immagini del mondo presentate dai media agli elementi costituenti le nostre rappresentazioni mentali della realtà.

Indubbiamente, la linearità del ragionamento e la semplicità dei processi di operazionalizzazione dei concetti formulati all'interno di quest'ipotesi ne spiegano in buona misura il successo. Ma fors'anche la debolezza. Sebbene l'ipotesi dell'agenda setting sia storicamente collocabile sullo sfondo del riconoscimento del ruolo giocato dai mass media nel processo "cognitivo di mediazione della realtà" (Marletti, 1995) essa non si spinge infatti fino a considerare come ciascuna issue viene poi di fatto interpretata dagli individui e cosa questi individui effettivamente pensano.

Una delle conseguenze più importanti di questi approfondimenti della teoria dell'agenda setting è che si è diffusa la consapevolezza dell'impatto delle rappresentazioni massmediali non solo sulle opinioni e gli atteggiamenti del pubblico, ma anche sui loro comportamenti. Parafrasando il classico commento di Cohen, McCombs ha sintetizzato i termini attuali del dibattito con queste parole: ""i media possono non soltanto dirci intorno a cosa pensare, ma anche come pensare e cosa pensare su un certo tema e persino cosa fare riguardo ad esso." (1996).

Il contributo della Noelle-Neuman fornisce preziosi elementi di chiarimento sui meccanismi grazie ai quali si esercita questa influenza dei media. L'autrice, fin dalla prima metà degli anni Settanta, ha cercato, infatti, di ricostruire e spiegare le dinamiche di interazione tra produzione massmediale e formazione della pubblica opinione, e come questo processo può essere descritto empiricamente con adeguate tecniche di sondaggio.

Benchè la sua teoria della spirale del silenzio sia stata elaborata inizialmente nel campo degli studi elettorali, essa ha una portata esplicativa più ampia, fondandosi, peraltro, su assunti epistemologici e teorici non riconducibili a quelli del paradigma comportamentista dominanti nella fase precedente. I punti salienti dell'argomentazione della Noelle-Neaman sono i seguenti:

  • gli individui hanno opinioni;

  • temendo l'isolamento, gli individui non esprimono le loro opinioni se percepiscono dl essere in minoranza;

  • si cerca allora, seguendo una sorta di sensibilità "quasi-statistica", di verificare se nell'ambiente circostante prevale il proprio punto di vista;

  • i mass media costituiscono la principale fonte di riferimento per le informazioni sulla distribuzione delle opinioni e così dell'orientamento prevalente;

  • i media tendono a convergere nella produzione delle news, almeno nelle realtà ove vige una situazione monopolistica;

  • i media tendono a fornire una visione distorta della distribuzione delle opinioni nella società, anche in virtù del prevalere delle concezioni dei giornalisti;

  • nel percepirsi in minoranza, gruppi di individui, che possono anche costituire la maggioranza numerica della popolazione, preferiranno non esprimere pubblicamente le loro opinioni, innescando così il meccanismo autoalimentantesi della spirale del silenzio. Questa affermazione non implica che necessariamente si verifichi un cambiamento negli orientamenti e nelle opinioni di questi gruppi di individui, ma solo che essi saranno man mano spinti a uscire di scena.

Facendo leva su quel profondo meccanismo socio-psicologico che è la paura dell'isolamento la creazione di "climi d'opinione" agisce, così, come potente fattore di controllo sociale e di legittimazione di valori (interessi, preferenze e orientamenti) che vengono a imporsi come predominanti.

Tuttavia, l'analisi della Noelle-Neuman, non diversamente da quelle che hanno sviluppato i concetti di framing e priming, pongono rilevanti problemi di teoria politica. Quella che, negli anni Cinquanta, la letteratura indicava essere la caratteristica essenziale del sistema dei media nei regimi totalitari, viene infatti ora associata anche alle democrazie occidentali, finendo così col mettere in discussione alcuni degli assunti costitutivi della teoria democratica moderna (Noelle-Neuman,1989, 1990)

In una realtà intrinsecamente ambigua e contraddittoria, le opinioni, come i pubblici quindi, si costituiscono e ricostituiscono attraverso i simboli utilizzati dai leader per richiamare l'attenzione su problemi ed eventi di immediato e, molto spesso, fugace interesse sociale. Per Edelman, l'opinione pubblica non è dunque un "fatto", ma piuttosto una costruzione simbolica o, anche, un puro simbolo evocato nella competizione per il potere e nelle controversie politiche.

Se l'opinione pubblica è soggetta a una manipolazione da parte delle élites politiche e di governo, il focus dell'analisi diventano, da un lato, le risorse messe in campo da queste forze nel perseguimento delle loro strategie manipolatorie e, dall'altro, le condizioni che favoriscono od ostacolano il ruolo dei mass media nell'attivare o marginalizzare l'attenzione del pubblico in vista di deterrninati output decisionali (Margolis, Mauser, 1989).

Quest'approccio, non nega che nelle società contemporanee si verifichino sviluppi incontrollati e spontanei di movimenti di opinione che finiscono per condizionare le scelte dei governi e delle autorità politiche. Tuttavia, esso vuole evitare il rischio di sovrastimare il loro impatto sul policy making. Infatti, molto più frequentemente operano dei meccanismi attraverso cui i rapporti tra opinione pubblica e polices vengono preordinati dalle elite politiche.

La individuazione e la definizione di questi meccanismi vengono conseguite attraverso un'analisi dei modelli di cultura politico-istituzionale dominanti, nonché delle trasformazioni delle pratiche e delle ideologie che caratterizzano la produzione massmediale.

Nello sviluppare la tesi della "marginalizzazione" dell'opinione pubblica come fenomeno tipico della società americana, Lance Bennet, (1989), ad esempio, parte dai seguenti tre assunti.

Primo, vi è una diffusa sfiducia nella bontà e legittimità delle opinioni delle masse. Nella cultura politica americana questo è un pregiudizio molto radicato che spinge parti significative degli attori istituzionali e degli apparati dei media a non considerare espressione dell'opinione pubblica i dati offerti dai sondaggi se non in occasione delle elezioni e con riferimento alla popolarità del presidente. Questo è l'assunto della inferiorità delle opinioni del popolo (popular inferiority).

Secondo, i rappresentanti delle istituzioni, dei partiti e dei gruppi di interesse si pongono come fedeli interpreti delle opinioni del popolo. Questa credenza, altrettanto radicata della precedente nella cultura americana, dà origine all'assunto della superiorità delle opinioni istituzionali (institutional superiority).

Infine, perché possa realmente attivarsi il processo di marginalizzazione dell'opinione pubblica è necessario che i mass media ignorino le discrepanze tra le opinioni dei rappresentanti istituzionali e quelle delle masse così come vengono rilevate dai polls. Quando il sistema dell'informazione manca di dare visibilità a tale discrepanza vuol dire che funziona il terzo assunto, quello della passività dei media (passive media).

Non meno di due assunti precedenti, anche questo della passività dei media è un fenomeno culturale. In particolare, esso è il frutto di un lungo processo di trasformazione degli apparati dei media e delle ideologie, non solo professionali, che hanno sostenuto l'emergere di un modello di giornalismo nazionale e standardizato improntato a valori della neutralità e della fairness (Bennet, 1988).

Certo, queste posizioni sembrano avvalorare l'idea che ci si trovi di fronte ad un atteggiamento aprioristicamente ostile all'ipotesi che anche i media siano attori dei processi di policy makiing. In realtà, non è così. Come è stato di recente riconosciuto da un autore che si ricollega a questo filone di ricerca, le organizzazioni mediali, grazie al ruolo chiave nel sistema di circolazione delle informazioni politiche, influenzano indirettamente il processo di policy making, modificando credenze e preferenze delle audiences - pubblico di massa ed elite - cui compete di intervenire e di decidere in ultima istanza.

Si può, allora, parlare, e in che senso, dei media come di un "attore politico"? Questo concetto quantomeno implica: un'azione osservabile che è intenzionale (purposive), un'intenzionalità di natura fimzionale, e suff~cientemente univoca (unified). Queste tre caratteristiche danno senso all'idea che i media siano appunto un attore politico.

4.3 I sondaggi d 'opinione

C'è un mutamento di clima culturale rispetto alla legittimità e al significato dei sondaggi. Tale mutamento, più ancora che nella diffusione delle normative che ne regolamentano le modalità di realizzazione nelle diverse democrazie occidentali, si coglie nella difesa fatta dal presidente dell'AAPOR (American Association for Public Opinion Research) dell'uso dei sondaggi e delle organizazioni che operano in questo campo. Una difesa molto diversa da quella che per il passato non si era mancato di far sentire in risposta alle critiche dei metodi e della solidità dell'impianto complessivo delle ricerche effettuate. Da qualche anno viene infatti messo in discussione il principio ideologico fondamentale che ha storicamente giustificato l'introduzione e l'espandersi dei polls: la loro utilità o anche la loro compatibilità con lo sviluppo di una società democratica. La crescente consapevolezza dell'impatto dei sondaggi sui processi politici e di governo si è trasformata in un'aperta denuncia dei rischi per la democrazia che il loro sistematico uso comporterebbe.

In Francia, ove la produzione dei sondaggi ha raggiunto livelli superiori a quelli propri degli Stati Uniti, tale sviluppo ha alimentato un dibattito dai toni talvolta preoccupati, tal'altra disincantati, e sempre meno di aperto sostegno. In un fortunato libro su La nuova comunicazione politica già a metà del decennio scorso si parla, ad esempio, di Repubblica dei sondaggi, a sottolineare l'importanza assunta da questo fenomeno per le istituzioni politiche e per il sistema di relazioni tra governanti e governati (Cayrol, 1986)

Di sondocrazia si è cominciato a parlare anche nel nostro paese in occasione delle elezioni del 1994. E, sebbene sia stata introdotta subito dopo una normativa volta alla regolamentazione di questo strumento, non si può certo parlare di un ritorno al passato (Fusaro, 1995).

Ma quale tipo di rapporto politico è alla base dei sondaggi? Partendo da questo interrogativo si può, forse, provare a capire meglio perché questa è una problematica che tocca la qualità stessa della vita democratica di un paese.

I sondaggi risponderebbero, in particolare, a due esigenze, quella di fornire gli strumenti grazie ai quali i cittadini possono partecipare in maniera significativa alla vita politica esprimendo autonomamente ciò che pensano e ciò che vogliono, e, inoltre, quella di costituire un legame con i propri leader politici saltando qualsiasi forma di mediazione. Questo nesso si manifesta, peraltro, in rnaniera più stringente nella prevalenza dei sondaggi referendam-type che, condotti sull'assunto che le opinioni possano essere misurate allo stesso modo delle intenzioni di voto, danno per scontata la cristallizzazione delle opinioni stesse e la loro "tangibilità".

Sulla base di questo presupposto, prende corpo la tendenza a presentare i risultati dei sondaggi come dei plebisciti, come l'espressione della "volontà generale" dei cittadini-elettori, favorendo così l'attivazione e consolidamento di un "nuovo prinncipio di legittimità universale fondato sull'audience, sull'approvazione popolare o sull'applauso". (Champagne, 1994)

Chi vince? Questa è la domanda di fondo cui si vuole dare una risposta, anche a costo di una semplificazione estrema e, soprattutto, con la conseguente diffusione di una ideologia e di una cultura che aborriscono la mediazione e il compromesso.

Dianzi si è detto che sempre più spesso la pratica dei sondaggi viene messa sotto accusa e che si è creato un clima di delegittimazione di questo strumento. Anche da queste poche considerazioni è chiaro il motivo. I sondaggi, invece di dare la parola al popolo e rilanciare la democrazia partecipativa intesa come instant referendam democracy, avrebbero assunto un profilo funzionale inedito rispetto ai tradizionali istituti rappresentativi e referendari, aprendo la strada all'affermazione di forme populiste e plebiscitarie di organizzazione della vita politica. La rappresentatività statistica del campione ha la meglio sull'universo di riferimento, tanto da dar vita ad una situazione in cui gli elettori reali si vedono sostituiti dalla propria proiezione demoscopica e resi osservatori passivi e remoti di se stessi (Zolo, 1992).

Le trasformazioni dei sistemi dell'informazione, diventati il vero motore dello sviluppo straordinario dei polls, non è un dato recente negli Stati Uniti. La produzione dei sondaggi ad opera degli apparati massmediali stessi si ebbe, infatti, per la prima volta nel 1967, allorchè i tre principali network televisivi americani - CBS, NBC, ABC - costituirono proprie unità operative di polling. Ma fu nel 1975 che, con la partnership tra CBS e il "New York Times", vennero delineandosi le caratteristiche attuali. Alla base della collaborazione non vi furono solo motivazioni di natura economica—l'abbattimento dei costi di realizzazione dei sondaggi -. Ciò che spinse maggiormente in questa direzione fu la volontà delle due testate a rendersi indipendenti dalle fonti per così dire uff~ciali, in particolare dalle agenzie governative, dai gruppi di interesse e dai politici.

Che i news media polls abbiano sostituito le altre fonti non è espressione di un "eccezionalismo" americano. Come è dimostrato sia dall'esperienza francese che da quella italiana siamo in presenza di un trend transnazionale che è probabilmente destinato a consolidarsi.

Per l'Italia basti ricordare l'indagine Censis del 1996 ove risulta, invece, che la produzione di sondaggi, enormemente cresciuta in quell'anno, è per il 70% circa una produzione interna al sistema dell'informazione.

Precedentemente si è detto che i media, sia televisivi che a stampa, ricorrono a questo strumento con un investimento crescente di denaro per sottrarsi ai vincoli e ai condizionamenti posti dalle fonti ufficiali del sistema politico-istituzionale. Questa chiave di lettura è, però, parziale se non si considera anche l'altro aspetto, vale a dire la tendenza degli apparati dell'informazione a crearepsendo-eventi, vale a dire news interamente pianificate e controllate da essi stessi. In altri termini, la produzione di sondaggi, oltre che rilevarsi congruente con la natura dei codici linguistici propri delle news - semplificazione e drammatizzazione della realtà - è particolarmente efficace nell'espandere e consolidare il processo di mediatizzazione della politica.

La crescita dei media polls ha, infatti, un forte impatto sul funzionamento della sfera pubblica - pubblico e istituzioni politiche - delle società contemporanee. Seguendo la sintesi proposta dal Ceri, si possono distinguere almeno le seguenti funzioni:

Funzione di legittimazione:

  • consolidare o rilanciare l'immagine positiva di un attore politico (singolo leader, forza politica o coalizione);

  • indebolire l'immagine (di forza, integrità, credibilità) di un avversario.

Funzione di formazione dell 'agenda politica:

  • affermare e/o legittimare la priorità o il rilievo di una o più questioni (e interessi), escludendo o subordinando implicitamente altre dall'agenda politica;

  • diminuire e/o delegittimare la priorità o il rilievo di una o più questioni, così da declassarle o, se possibile, escluderle dall'agenda politica.

Funzione diformazione del consenso:

  • preordinare - imponendole all'attenzione della pubblica opinione - certe alternative di soluzione dei problemi, a discapito di altre che restano nell'ombra, declassate o escluse;
  • far risaltare il gradimento delle scelte (policies) attuate dall'attore politico interessato (governo, gruppo dirigente);

  • selezionare i gruppi dei quali far valere l'opinione, a discapito degli altri (Ceri, 1994)


  1. MEDIA E DEMOCRAZIA

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La teoria politica e giuridica classica ha sempre riconosciuto al sistema dell'informazione un ruolo centrale per il funzionamento e la soprawivenza stessa della democrazia. I1 quarto potere avrebbe assunto un tale rilievo costituzionale:

  • esercitando le funzioni di critica e di controllo del potere;

  • articolando e dando voce agli interessi esistenti nella società;

  • incentivando il dialogo tra pubblici e tra questi e il ceto politico;

  • favorendo il coinvolgimento dei cittadini nei processi politici;

  • innalzando il livello di conoscenza e di comprensione dei problemi;

  • conservando l'autonomia e la capacità di essere fedeli interpreti dell'opinione pubblica.

Nobili ideali o mere finzioni ideologiche utili a legittimare i media stessi e le politiche che ne regolamentano attività e assetti organizzativi?

Da alcuni anni si sono andate moltiplicando le ricerche e le denunce sulle discrepanze tra piano normativo - come dovrebbero funzionare gli apparati della comunicazione secondo la teoria della democrazia - e piano fattuale - quali strutture e quali pratiche prevalgono attualmente.

L'affermazione delle corporations mediali non vanifica forse il principio pluralista? La logica di mercato non irrigidisce i formati comunicativi, impoverendone i contenuti informativi? I1 potere politico non affina le armi del controllo sui media appena riconosciutane la centralità? E, infine, i cittadini: ammesso pure che questi vogliano essere bene informati, non è forse vero che il demo continua a essere l'anello debole della catena?

La democrazia ha dovuto affrontare già altre sfide nel corso di questo lungo XX secolo. Questo si inaugurò proprio con le aspre polemiche sulla decadenza dei regimi parlamentari, alimentate da una cultura elitaria che non vedeva certo con favore l'irrompere sulla scena politica di strutture organizative come i partiti di massa e i sindacati. Si temeva che questi soggetti non solo alterassero il funzionamento delle istituzioni rappresentative tradizionali, ma le svuotassero del loro significato storico e culturale: un nuovo medioevo batteva alle porte di una civiltà, quella occidentale, che si mostrava incapace di contrastarlo.

Seguirono, poi negli anni Venti e Trenta, le soluzioni totalitarie che fecero tabula rasa delle istituzioni democratiche e dei suoi valori fondamentali. Dal conflitto cruento con il totalitarismo la democrazia uscì vincitrice e affidò anzi il proprio consolidamento al radicamento di quel soggetto - il partito di massa - che fino ad allora la cultura politica e giuridica dominante aveva guardato con sospetto o aveva esortato a limitame il raggio d'azione.

Ma non durò a lungo. Già sul finire degli anni Settanta, nuove modalità di espressione e di governo dei conflitti sociali riportarono alla ribalta il problema della tenuta delle istituzioni rappresentative - in particolare del circuito partitiparlamento - e, dunque, della democrazia politica come si era andata costruendo nei tre decenni precedenti.

Il paradigma e le esperienze "neocorporative" ebbero scarsa fortuna nel panorama europeo. E, nonostante che il loro rapido declino non lasciasse intravedere un rivingorimento di quel circuito, nessuno mise in discussione la convinzione che l'agire politico potesse prescindere da specifiche istituzioni della rappresentanza.

Quale sfida ha di fronte la democrazia, oggigiomo?

Dalla ricognizione delle principali problematiche della political communication sono emersi senza dubbio importanti interrogativi circa il futuro della politica democratica. Essi riguardano in particolare i principali protagonisti dell'azione pubblica di questo secolo, lo Stato-nazione e, soprattutto, il partito organizzato di massa.

Il declino del primo, stretto nella morsa di spinte contrapposte - la globalizzazione e i localismi - non può essere certo dato per scontato. Almeno nel caso della politica estera, lo Stato-nazione conserva la capacità di controllo di quella potente risorsa che è la pubblica opinione grazie al monopolio delle immagini che esso ancora detiene. Ma che cosa è restato del suo significato simbolico, della sua sacralità? In videocrazia, "la personalizazione (fisica) tende a rovinare la personificazione (morale). La trasparenza liquida la trascendenza". Ecco la silenziosa catastrofe dello Stato (Debray, 1994).

Il secolo, dal canto suo, giunge alle soglie del duemila delegittimato dal dilagante antiparty sentiment e indebolito nella sua capacità di mobilitazione e di controllo dei processi di govemo. Sebbene molti dati, come le trasformazioni organizzative e i riaggiustamenti nelle strategie di acquisizione del consenso, invitino a essere più cauti nel dichiarare ineluttabile il declino di questo soggetto politico, non c'è dubbio che un'epoca- quella della democrazia dei partiti - è tramontata.

Queste considerazioni ci spingono a guardare a quella che è forse la vera sfida cui si trovano di fronte le democrazie contemporanee, vale a dire la messa in discussione dell'idea stessa della politica, di cui l'antiparty sentiment è solo la spia più significativa.

5.1 I media e l'antipolitica

L'analisi dei fattori che scatenato il rigetto antipolitico della politica porta l'attenzione sul ruolo dei media e della "telecrazia" in particolare. In un articolo dal titolo Può la democrazia sopravvivere alla televisione? Manhein (1976) richiamaI'attenzione sul rischio che lo sviluppo dei media elettronici potesse non solo trasformare il modo di fare politica ma anche il modo d'essere della politica, attraverso un'azione corrosiva delle basi socio-culturali e delle rappresentazioni simboliche che l'hanno radicata e legittimata nelle sue forma organizzative e istituzionali.

Secondo Putnam occorre fare un salto di qualità nell'analisi e fare i conti fino in fondo con ciò che ha significato e significa tutt'ora il mezzo elettronico per la democrazia americana. In particolare, occorre prestare attenzione al lento ma inesorabile processo si erosione del "capitale sociale" e di partecipazione civica provocato in questi ultimi due decenni dalla televisione.

Basando la sua analisi sui dati forniti dalla General Social Survey: 1974-1994, Putman deve fare i conti con uno scenario del tutto diverso e per niente incoraggiante. E giunge alla conclusione che il trend negativo dei principali indicatori scelti per misurare lo stato di salute del sistema politico-istituzionale americano - declino della membership dei gruppi sociali e delle associazioni volontarie e in molte forme di partecipazione politica collettiva e individuale come la militanza partitica e l'espressione del voto - è correlato fortemente alla pervasività del mezo televisivo. Più precisamente, gli affetti della televisione si sono fatti sentire nel declino delle relazioni comunitarie face.to.face e nella diffusione di una visione misantropica del mondo.

L'erosione del "capitale sociale" contribuisce pertanto a quel lento processo di ridislocazione dei luoghi dell'agire politico che la Jamieson (1996) ha provocatoriamente sintetizzato nell'idea che oggi è più probabile che le esperienze politiche significative vengano fatte nella "privacy of our living room" che non in uno spazio pubblico condiviso.

Su questa lunghezza d'onda si pongono anche le ricerche che hanno incentrato l'attenzione sulle trasformazioni nei modelli di giornalismo: In particolare, l'affermazione di modalità di coverage più attente a enfatizzare il game della competizione politica- che vince e che perde - a spese delle issues; oppure ipercritiche nei confronti delle istituzioni e del personale di governo - dalpresidente ai congressmen, dai partiti ai candidati - ha un forte impatto sull'insieme dei processi politici.

Grazie a queste caratteristiche dei modelli di comunicazione i media infatti danno vita a una rappresentazione della politica che appare essere la declinazione contemporanea della machiavelliana real-politik (Blumler, 1990). La persistenza del "cynical and antipolitical bias" dei media squarcia il velo delle finzioni che hanno coperto fino a oggi il gioco politico, rendendo così difficile l'azione del governo (Patterson, 1996). Se è plausibile l'ipotesi che la valutazione della capacità di un governo è fortemente influenzata dal modo in cui è "percepita" la sua attività, è evidente che il prevalere di quelle modalità di covarage ha contribuito in maniera decisiva a innescare una spirale di delegittimazione delle istituzioni democratiche.

E' possibile restituire dignità ed efficacia all'azione politica? Alcuni ritengono che ritornare a modelli di giornalismo meno aggressivi possa essere un buon punto d'avvio (Patterson, 1996). Altri, forse più realisticamente, lo ritengono improbabile (Cappella, Jamieson, 1996). Ma allora, che cosa ci attende?

5.2 Il futuro della comunicazione politica

La mediatizzazione della politica, troppo spesso incapsulata in rigide definizioni accademiche, sta certamente cambiando: la politica dei faccia a faccia non paga più o, meglio, paga sempre meno. Molti dei formati comunicativi che hanno costituito per oltre un decennio il metro di giudizio e il criterio di comparazione tra esperienze diverse - il media game, la personalizzazione, la semplificazione e drammatizzazione del confronto politico - non identificano più il modello prevalente di comunicazione politica. Questa considerazione non è certo vera in generale. Ancora oggi, nella maggior parte delle democrazie occidentali europee, il rapporto tra media e politica viene interpretato a ragion veduta con quelle chiavi di lettura. Ma per quanto ancora potrà esserlo? Guardando agli Stati Uniti, dove il panorama della comunicazione è cambiato rapidamente negli ultimi anni, l'interrogativo è pero senza dubbio giustificato (Hume, 1996).

Per quanto concerne i media a stampa, il loro nuovo ruolo viene individuato nella loro capacità di (ri)generare il senso di appartenenza a una comunità favorendo la discussione pubblica dei suoi problemi: Questo tipo di giornalismo riduce dunque drasticamente lo spazio riservato alle electoral issues e amplia, viceversa, quello dedicato alle policy issues, con un impatto significativo sui processi di aggregazione degli interessi e di partecipazione alla vita politica della comunità.

Una delle più significative trasformazioni è proprio la torsione subita dalla logica binaria della comunicazione mediale. Il referendum model, che è stato visto fino a oggi come connaturato alla logica dei media, risulta inadeguato proprio agli occhi di chi è più attento alle dinamiche del mercato. Gli editori che hanno lanciato il nuovo modello di giornalismo hanno infatti compreso che la logica referendaria semplif~ca eccessivamente lo spettro delle opzioni possibili, mettendo fuori gioco una molteplicità di interessi settoriali. Questa diversità va invece valorizzata, attraverso forme di comunicazione politica meno rigide che contemplino il coinvolgimento dei cittadini e dei gruppi issue-oriented (Meyer, 1993).

Non mancano i dubbi e le perplessità sul significato da attribuire a queste forme di partecipazione dei cittadini. Dubbi e perplessità del tutto leggittimi. Tuttavia, quando quest'atteggiamento si trasforma in aperta denuncia, i conti non tornano più. La critica della degenerazione del dibattito politico troppo spesso presuppone l'esistenza di un'età d'oro che è puramente immaginaria. Attribuire alla mediatizzazione della sfera pubblica la responsabilità del declino dell'ideale normativo della razionalità discorsiva non è, però, solo antistorico.

Quella che emerge dalla ricognizione della letteratura e delle esperienze cui tale letteratura si riferisce è, dunque una polifonia di voci che non ci consente di parlare dell'affermazione di un unico modello di comunicazione politica. Giornalismo scandalistico e sensazionalistico, certo. Ma anche ampliamento degli spazi riservati all'informazione e alla espressione delle opinioni dei pubblici. Corporations multimediali, ma anche la politica on.line, e si potrebbe continuare a lungo. Questo è vero oggi e sarà probabilmente ancor più vero domani.(Herbst 1996).

Certo, i teorici del pensiero unico non saranno mai disposti ad ammetterlo. Chi teme una rapida convergenza verso il modello americano può tirare un sospiro di sollievo. Chi ha paventato, nel nostro paese, il rischio che il caso italiano potesse perdere i suoi tratti di anomalia per assumere quelli dell'annuncio dovrà rivedere il proprio giudizio.

Si deve piuttosto riconoscere che la "mediatizzazione della politica" ha innescato dinamiche istituzionali e processi comunicativi dai contenuti e dagli esiti ancora incerti.

Lo slittamento del focus dell'analisi ora verso variabili culturali e simboliche - le culture politiche, le ideologie professionali, le strategie simboliche - ora verso variabili istituzionali - gli esecutivi, i partiti, i parlamenti - se può essere salutato positivamente come espressione di un ampliamento dello spettro problematico di questa disciplina, segnala tuttavia una difficoltà a tenere insieme i diversi livelli d'analisi e, soprattutto, a definire il punto di svolta, il salto di qualità nello statuto della politica in questa fine di millennio.

Il dibattito attuale, se tuttavia resta fermo entro l'orizzonte segnato dall'egemonia della televisione generalista, rischia di essere in colpevole ritardo rispetto agli scenari contemporanei. I più recenti sviluppi tecnologici e i nuovi formati comunicativi che essi veicolano forniscono infatti le risorse necessarie per una trasformazione politica, istituzionale e culturale che va a innestarsi su quella generata dai media tradizionali.

Questi sviluppi stanno già alimentando le più note contrapposizioni, con in testa, ovviamente, quella tra apocalittici e apologeti. Così se per i primi le nuove tendenze della comunicazione - new media, realtà virtuale, reti telematiche, multimedialità- provocheranno l'implosione del sistema, trascinando nel baratro della povertà culturale e dell'apatia le generazioni future, per i secoli, al contrario, esse costituiranno un'occasione storica per ampliare gli spazi di libertà e di partecipazione degli individui. Schierarsi a fianco degli uni o degli altri non è solo prematuro. Non ha senso. Come tutti i grandi cambiamenti, non può, né potrà in futuro, essere valutato con parametri univoci di giudizio. Molto meglio è allora analizzare le trasformazioni in atto, considerando chi fa uso di queste risorse e perché, come e in quali ambiti del processo politico e di decision-making. Solo dopo aver messo insieme le diverse risposte sarà possibile capire, al di là delle retoriche del cambiamento, cosa sta realmente prendendo corpo, con le sue luci e le sue ombre, nei sistemi democratici contemporanei.

5.3 Verso una democrazia elettronica?

Negli Stati Uniti, il dibattito si sta rapidamente spostando sulle caratteristiche e le implicazioni delle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione (icts). La determinazione dell'amministrazione Clinton/Gore a realizzare la cosiddetta Information Superhighway è certo uno dei motivi del crescente interesse per questi sviluppi. L'aspro conflitto tra il nuovo esecutivo e l'opposizione repubblicana su questo terreno, ha assunto del resto i toni di uno scontro tra modelli di civiltà che non poteva non riflettersi sulla comunità scientifica e generare incertezza sul piano concettuale sia su quello della individuazione di un pacchetto di iniziative e strumenti di intervento.

L'impulso all'applicazione delle nuove tecnologie è venuto principalmente da un ceto politico alle prese con un deficit di legittimità e di consenso senza precedenti.

L'origine di queste iniziative è chiara nel caso della presidenza americana. (Ricorda la Roncarolo (1994): "la Casa Bianca è ormai collegata con le bacheche elettroniche e i database delle principali reti di informazione -on line- [...]. Almeno in linea di principio, ogni cittadino può facilmente mandare un messaggio elettronico al presidente, partecipare alle discussioni sulle scelte politiche o interrogare l'Amministrazione effettuando ricerche su tutti i documenti non riservati [...]. [Queste] iniziative sperimentali [...] realizzano semplicemente con maggiore pienezza quel principio di una presidenza aperta ai cittadini già affermato da Kennedy e Carter.). Esse sono state avviate su iniziativa degli esecutivi, intendendole peraltro solo nella forma di una maggiore diffusione delle informazioni, allo scopo di rinsaldare il legame di fiducia con i cittadini e di rimettere in moto i meccanismi della democrazia rappresentativa.

E' significativo che le prime forme di interattività abbiano interessato i media tradizionali, come la televisione e la radio. Dalla spirale virtuosa tra progressivo superamento del cinismo e maggiore coinvolgimento nella vita pubblica, ci si attendeva un'inversione di tendenza nei processi di partecipazione politica e nei comportamenti elettorali dei cittadini.

La rivoluzione digitale trasformerà, allora, il processo democratico in direzione di una più ampia e consapevole partecipazione dei cittadini alla vita politica? Dopo aver molto opportunamente ricordato che le tecnologie della comunicazione possono prestarsi ad usi alternativi, il documento della Benton Foundation su Telocomunication and Democracy (1995) si sofferma sugli aspetti di potenziamento dei processi di partecipazione democratica. La rivoluzione digitale, infatti rende possibile una più approfondita comprensione delle policy issues; amplia la sfera d'intervento decisionale sulle political issues; incrementa la responsabilità dei pubblici funzionari; permette una più incisiva advocacy di individui e gruppi; consente l'espressione delle opinioni grazie al voto elettronico; incrementa l'interesse dei cittadini per le attività delle comunità, rendendoli maggiormente partecipi dei processi di governo a livello locale. Questi obiettivi sono perseguibili dal momento che essa consente di superare quelle barriere - di tempo, di spazio, di conoscenza e di accesso alle informazioni - che fino a oggi hanno reso praticamente impossibile la realizzazione di forme di democrazia diretta. Infatti, rende illimitata la quantità di informazioni che possono essere scambiate; permette lo scambio indipendentemente dalle coordinate spaziotemporali; incrementa il controllo dei fruitori sul contenuto e i tempi dei messaggi; incrementa altresì il controllo di che invia i messaggi su specifiche audiences; decentralizza, infine, il controllo sui mezzi di comunicazione, trasformando la televisione in mezzo interattivo (Neuman, 1996).

La problematica si carica qui di una valenza etica che va ben oltre il mero auspicio di una riforma delle strutture politiche esistenti. Ripensare radicalmente i concetti di cultura politica, di identità e di cittadinanza entro un quadro di riferimento teonco che fa perno sulle categorie dell'etica discorsiva e della sfera pubblica: in questi snodi è racchiusa I porta epistemologica di Internet.

In realtà, le (poche) esperienze fino a oggi realizzate si allontanano molto dal modello di democrazia comunitaria. Piuttosto che incentivare forme discorsive tra eguali o favonre l'intreccio di solidi legami sociali e di nconoscimento reciproco su cui costruire le identità individuali e collettive, l'uso di Internet da parte di gruppi di estremisti religiosi o politiche e la frammentazione delle opinioni.

Ma vediamo più articolatamente a quali attacchi prestano il fianco i sostenitori della democrazia elettronica. Le critiche fanno capo fondamentalmente a quattro ordini di considerazioni.

In primo luogo, I'ottimismo con cui si guarda all'incremento della quantità di informazioni disponibili non tiene nel debito conto che uno dei problemi più seri è proprio il sovraccarico (overload) di informazioni. Mediamente i cittadini non hanno né tempo né interesse né, soprattutto, capacità di gestire tali flussi.

In secondo luogo, è vero solo in teoria che le nuove fonti di informazione, come Internet, siano accessibili a tutti i cittadini. Allo stato attuale, solo chi dispone di risorse finanziare adeguate e di un livello superiore di istruzione paò in pratica farne uso. Né, per il prossimo futuro, sono prevedibili cambiamenti consistenti nella struttura socio-economica dei paesi avanzati. E' molto paù probabile invece che con l'innovazione tecnologica si approfondisca il gap tra questi gruppi privilegiati e la stragrande maggioranza della popolazione impossibilitata a fruirne. Solo un astratto determinismo tecnologico può alimentare l'illusione di un nuovo ordine societario fondato sul superamento delle ineguaglianze e sulla redistribuzione della ricchezza.

Strettamente intrecciata a questo punto è poi la critica secondo cui una delle conseguenze più importanti della politica via Internet è la sovrarappresentazione degli orientamenti e delle opinioni di quei cittadini e/o gruppi che comunicano direttamente con il ceto politico saltando tutte le mediazioni, giornalistiche o sondaggistiche che siano.

Infine, I'uso delle reti può rafforzare il potere dei gruppi di interesse, dato che è possibile aggregare individui dispersi sul territorio. D'altra parte, è anche una risorsa per le minoranze e, addirittura, per i singoli candidati che intrecciano rapporti privilegiati con determinati targets di utenza allo scopo di trovare un sostegno alle proprie idee e iniziative politiche. Sulla base di queste considerazioni, si è scritto che è possibile "leggere nella retorica e nella pratica della democrazia elettronica le ambizioni delle forze dominanti, vederla come parte di un più ampio progetto di depoliticizzare la politica, trasformando i cittadini in consumatori" (Wheeler, 1996). Non c'è da farsi allora troppe illusioni: la frammentazione estrema dei processi politici favorisce solo le élites e i gruppi di interesse e non certo i cittadini sprofondati nel silenzio del cyberspazio (Graber, 1996).

Fine di un'epoca, principio di un'altra? L'interrogativo e d'obbligo, ma non è nuovo. Già sul finire degli anni Cinquanta, quando l'intero lessico politico non poteva soffrire, ma anzi si nutriva della contrapposizione tra le ideologie dominanti - il marxismo e il liberalismo - vi era chi lo sollevava in termini molto chiari. Scriveva infatti Wright Mills:
oggi le nostre definizioni fondamentali della società e dell'individoo sono superate da nuove realtà [...]. Quando cerchiamo di orientarci [...] troviamo che troppe delle nostre aspettative, delle nostre antiche immagini sono fissate nella storia; troppe delle nostre spiegazioni derivano dalla grande tradizione storica dal Medioevo all'Età Moderna; e quando le generalizziamo per chiarire il presente, non reggono più, non hanno più consistenza.

Se la storia sta ricominciando su premesse che superano la nostra capacità di immaginarle, è allora improbabile che mordano la realtà le contrapposizioni teoriche che sono state sollevate dagli anni Ottanta a oggi: democrazia rappresentativa vs democrazia diretta; deliberative model vs plebiscitary model; democrazia dei partiti vs democrazia del pubblico.

Le modalità organizzative dei processi decisionali e le esperienze partecipative favorite dalle nuove tecnologie della comunicazione, tanto a livello nazionale quanto a livello di comunità locale, possono essere meglio definite nei termini di una emergente "democrazia elettronica"? E' questa la forma della democrazia contemporanea? O, per dirla con Meyrowitz, le trasformazioni politiche cui stiamo assistendo "sono mascherate dalla persistenza delle nostre convenzioni linguistiche e dalla forma dei nostri ideali tradizionali"? (Meyrovvitz, 1985).

Piazze telematiche, spazi virtuali, reti interattive: che cosa hanno in comune con l'agorà ateniese? Nulla. C'è Internet, ma come non tener conto che tre quarti del globo terrestre non è nemrneno lambito da questi cambiamenti?

Probabilmente un nuovo ordine si sta affermando. Anzi, per alcuni, il futuro è già cominciato. Ma quale sia la sua logica ci sfugge ancora. La radicalità delle trasformazioni non può essere data per scontata: troppi interrogativi attendono ancora una risposta. Indubbiamente una maggiore apertura teorica è necessaria, ma essa deve essere sorretta da un più robusto sforzo conoscitivo.

Che si continui poi a definire tali mutamenti con le categorie di un lessico politicocostituzionale millenario può forse rivelarsi un ostacolo alla comprensione, ma anche una salvaguardia contro il rischio di fughe in avanti che non tengono nel debito conto il peso della storia.


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Il futuro ha radici antiche