Il fallimento della "Bicamerale" non è
dovuto soltanto alla debolezza dei progetti di riforma da essa
elaborati ma trae origine dal tentativo di una parte del ceto
politico, di cui Berlusconi si è fatto interprete, di
mettere in crisi il bipolarismo fin qui realizzato. Si tenta
così di ridare spazio a pratiche trasformistiche e di
tornare a forme più o meno mascherate di "proporzionalismo".
Eppure le iniziative referendarie volute dai
cittadini hanno consentito di raggiungere risultati importanti
in questa prima fase della lunga "transizione politica".
Se l'Italia fa il suo ingresso in Europa ciò
è dovuto principalmente alla stabilità italiana
assicurata dal maggioritario. Assai difficilmente i tradizionali
governi di coalizione, frutto del sistema proporzionale, avrebbero
potuto reggere all'impatto politico delle scelte che si sono
dovute operare.
Gli stessi effetti positivi indotti dall'azione
di giudici di "mani pulite" sono stati favoriti dalla forte
domanda di "riforma della politica" espressa dagli italiani
che il 9 giugno del 1991 invece di "andare al mare" si recarono
massicciamente a votare per la preferenza unica.
Non sono tuttavia mancati problemi: il voto
del 1994 ha espresso una alleanza fragile che è stata
"ribaltata", dopo appena pochi mesi, dal voto della Lega. In
questa legislatura Rifondazione comunista, rifiuta la piena
assunzione di una logica maggioritaria e ha più volte
messo in pericolo la stabilità del Governo Prodi. L'opposizione,
dal canto suo, non riesce a costruire un coerente forza alternativa
ed è tentata dal ritorno a pratiche consociative. A ciò
si aggiunga che una pessima legge sul finanziamento pubblico
dei partiti, improntata a principi proporzionalisti, ha disconosciuto
le coalizioni e ha ulteriormente favorito la moltiplicazione
artificiosa del numero dei partiti.
Perché l'Italia non si fermi è
necessario che, ancora una volta, i cittadini si mobilitino
per fare fronte a una duplice necessità:
- difendere le scelte referendarie dai tentativi di ritorno
all'indietro - manifestatisi con il "patto di casa Letta",
le leggi elettorali regionali e la citata impostazione proporzionalista
della legge sul finanziamento pubblico dei partiti -;
- completare e perfezionare il sistema maggioritario eliminando
la distribuzione della quota aggiuntiva di seggi del 25%,
vale a dire il voto a liste di partito da distribuire secondo
criteri proporzionali.
Dobbiamo, in poche parole, difendere quanto
abbiamo conquistato. Ma questo non basta; bisogna andare oltre.
L'Italia non deve essere ferma e noi non ci fermiamo ai risultati
raggiunti.
Il voto proporzionale, infatti, tende a inquinare
i risultati positivi determinati dal 75% di quota maggioritaria.
Ciò riguarda Camera e Senato ma è
più evidente nel sistema elettorale della Camera dei
Deputati. Come è noto, quando il cittadino si reca
a votare riceve due schede; una di colore rosa, per l'elezione
dei candidati del collegio uninominale, l'altra, di colore
grigio per scegliere tra le liste di partito cui vengono assegnati
in modo proporzionale il 25% dei seggi.
Ne deriva che mentre i partiti sono incentivati
ad allearsi per sostenere il medesimo candidato nel collegio
uninominale - e sono quindi incentivati a presentare lo stesso
programma e financo lo stesso candidato alla Presidenza del
Consiglio - sono invece concorrenti nella quota proporzionale.
Come si sa la concorrenza è tanto più aspra
quanto più tende a coincidere il bacino elettorale
da cui si attinge il voto.
Tale conflittualità non si manifesta
solo al momento del voto ma si trascina per un'intera legislatura
spingendo i partiti alleati a ricercare "visibilità",
vale a dire a alimentare, talvolta artificiosamente, motivi
di divisione.
Poiché i risultati bipolarizzanti
indotti dal collegio uninominale sono, in breve, inquinati
dal voto proporzionale alle liste di partito il quesito referendario
proposto abroga il voto per la lista di partito lasciando
solo il voto per il candidato nel collegio uninominale.
Con il quesito referendario si mettono così
in risalto le coalizioni e si pone fine alla dissociazione
per cui i partiti, alleati nei collegi uninominali, sono in
conflitto nella conquista del secondo voto proporzionale.
Superando la quota proporzionale le coalizioni possono diventare
più salde e omogenee e meno soggetto alla permanente
conflittualità interna. Insomma partiti che vogliono
governare insieme sono indotti così a presentarsi con
un solo volto agli elettori.
Poiché la (discutibile) giurisprudenza
della Corte Costituzionale richiede che l'approvazione del
quesito referendario mantenga "autoapplicativa" la legge sottoposta
al taglio abrogativo, il quesito proposto ai cittadini non
elimina la quota aggiuntiva di seggi del 25% (lo potrà
fare il legislatore se vorrà) ma abroga la distribuzione
proporzionale della stessa tra liste di partito e distribuisce
detta quota secondo criteri maggioritari alle più forti
coalizioni meglio perdenti nei collegi della medesima circoscrizione
(ulteriormente incentivando i partiti a coalizzarsi).
La assegnazione della quota aggiuntiva del
25% viene quindi distribuita non fra le liste di partito ma
fra i candidati "meglio perdenti". Viene cioè distribuita
fra i candidati che hanno ottenuto le migliori cifre individuali
dopo gli eletti (la cifra individuale si calcola, per la Camera
dei Deputati, sulla base del rapporto fra voti validi ottenuti
e totale dei votanti di ciascun collegio della circoscrizione).
In questo modo si ottiene un ancora più
deciso effetto bipolarizzante in quanto solo le coalizioni
sono, per lo più, in grado di conquistare il primo
o di piazzarsi tra i meglio perdenti: sulla base di proiezioni
riferite al 1996 l'Ulivo avrebbe avuto 19 seggi in più
e 13 seggi in più il Polo delle libertà.
Il sistema che verrebbe fuori dal quesito
presenta alcune analogie con il sistema oggi previsto per
il Senato, che è un sistema migliore di quello previsto
per la Camera dei Deputati. La legge per il Senato, però,
prevede la distribuzione proporzionale del 25% conservando
le liste di partito sotto forma di "raggruppamento di candidati
collegati". Al Senato i seggi aggiuntivi prima vengono ripartiti
proporzionalmente fra i diversi gruppi politici e poi assegnati
ai candidati meglio piazzati di ciascun gruppo politico (in
un collegio senatoriale quindi si possono avere non solo più
di un eletto ma gli altri eletti possono essere piazzati anche
agli ultimi posti della graduatoria di collegio. Con il quesito
referendario invece i seggi aggiuntivi per la elezione della
Camera dei Deputati vengono assegnati al secondo meglio piazzato
senza riferimento a collegamenti con liste di partito.
Il quesito referendario non si pone pregiudizialmente
contro possibili soluzioni parlamentari. Il Movimento referendario,
cui ci richiamiamo, ha contribuito a costruire il processo
riformatore, determinando gli esiti positivi prima citati
( eppure fummo inizialmente definiti "sfascisti"!).
Abbiamo fiducia nella democrazia rappresentativa
cui non vogliamo pregiudizialmente contrapporre una vaga democrazia
diretta, ma è ormai assodato che le forze politiche
rappresentate in Parlamento assai difficilmente sono in grado
in questa fase della vita del Paese di elaborare incisive
leggi elettorali, a meno che esse non siano il frutto della
pasticciata giustapposizione degli interessi di tutte le parti
politiche.
Non ci accomuna l'idea che il male da diagnosticare
per le nostre istituzioni risieda nella "partitocrazia". Le
degenerazioni partitocratiche sono solo uno dei sintomi della
malattia, non la malattia. Il male va ricercato nella progressiva
perdita di legittimazione dei partiti divenuti incapaci di
esprimere emozioni, progetti e identità collettive.
E tale distacco si accentua se vengono ignorate le manifestazioni
di volontà dei cittadini (dai referendum elettorali
a quello del finanziamento pubblico dei partiti).
Il quesito referendario, se approvato, introdurrebbe
un sistema uninominale a un turno, di tipo anglosassone, ma
non sarebbe contrario al pronunciamento popolare l'introduzione
di un sistema uninominale a doppio turno, di tipo francese,
se accompagnato da una significativa clausola di sbarramento
(in Francia è del 12,50% degli aventi diritto al voto,
vale a dire circa il 18/20 dei votanti).
Il carattere, opportunamente, trasversale
dello schieramento che sostiene il referendum non consente
tuttavia al Comitato promotore di assumere pregiudizialmente
una posizione né a favore del turno unico, né
a favore del doppio turno. Tali sistemi peraltro presentano
entrambi vantaggi e svantaggi (se ne discute dal 1789!), ma
hanno in comune il grande vantaggio di porsi entrambi quali
sistemi uninominali e maggioritari.
Chi è a favore del doppio turno di
collegio potrà comunque sottoscrivere una proposta
di legge di iniziativa popolare, sostenuta dal "Movimento
dei valori", che fa capo ad Antonio Di Pietro, nonché
dagli esponenti diessini del Movimento referendario, che prevede
un sistema uninominale a doppio turno, alla francese, con
una limitata quota proporzionale (10%) riservata - è
questo l'elemento di distinzione rispetto alla vigente quota
proporzionale - ai soli partiti che non si coalizzano e rifiutano
il passaggio al secondo turno.
Le prese di posizioni fin qui registrate
( per esempio un'intervista del Presidente del Senato) portano
a ritenere che le forze politiche dovrebbero essere indotte
a passare al doppio turo di collegio pur di evitare gli effetti
incisivi del nostro quesito referendario.
Dubbi solleva invece il referendum proposto
dal Sen. Passigli per l'abolizione del c.d. scorporo. Si tratta
di una proposta che, operando una marginale correzione nel
calcolo dei voti, si limiterebbe ad attenuare gli effetti
proporzionalisti della attuale legge elettorale; se effettuato
con esito affermativo esso determinerebbe più effetti
negativi insieme:
a. rafforzerebbe detta legge (il c.d. Mattarellum),
mantenendo insieme il principio del turno unico, la presenza
di liste di partito e di una quota aggiuntiva di seggi da
distribuire con il metodo proporzionale
- allontanerebbe definitivamente la possibilità di
introdurre il doppio turno di collegio.
In altre parole il nostro quesito ricomprende
ovviamente gli effetti del quesito Passigli ma in più
consente di ottenere una più incisiva riforma elettorale
che potrà essere il turno unico anglosassone, applicando
il risultato eventuale del referendum, ovvero il doppio turno
di tipo francese se tale risultato si vuole evitare.
Il nostro Paese si trova a metà del
guado: un vecchio sistema politico non si rassegna a morire
ed il nuovo si afferma con fatica. Perché il vecchio
non afferri il nuovo bisogna compiere gli ulteriori passi in
avanti. Non si può restare fermi.