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L' Espresso - 20 Marzo 97
Umberto
Eco Credo che il modo in cui la stampa ha seguito il seminario di Gargonza andrà studiato in qualche corso di comunicazione di massa. Come ormai si sa, alcune persone dell'Ulivo avevano deciso di mettere insieme per due giorni chi fa politica attiva e chi fa altro (non c'è stata contrapposizione tra arti liberali e arti meccaniche) pe rdiscutere su problemi molto ampi come potere, libertà, vita e così via. Per un movimento nato come alleanza elettorale, era la prima volta che persone di diversa estrazione ideologica si confrontavano su questioni che vanno al di là della tattica politica. Gli organizzatori hanno però pensato che se le discussioni si svolgevano davanti alla stampa o alla televisione, ciascuno si sarebbe sentito cotretto a parlare dell' intero universo, invece che a coloro che avevano di fronte; e perciò hanno deciso che la riunione dovesse essere privata. Privato non vuol dire però segreto, specie sei convocati sono cento e tra loro c'è persino il presidente del Consiglio. Di conseguenza i media si sono sentiti esclusi e hanno elaborato due strategie contraddittorie: ironizzare sul convegno prendendolo sottogamba, e prenderlo tremendamente sul serio. Così i giornalisti si sono accalcati fuori dalle mura per strappare qualche indiscrezione a chi metteva piedi fuori, chi stava dentro al convegno reale seguiva divertito il giorno dopo sulla stampa la cronaca di un convegno virtuale, chi leggeva solo i giornali traeva l' impressione che, mentre D' Alema cercava di strangolare Prodi con i blue jeans di Don Mazzi, gli altri se ne stessero stravaccati sul prato come in quadro di Brueghel, mangiando porchetta con le mani, con Veltroni e Rosy Bindi, alticci, che cantavano "Osteria numero uno". Personalmente ho triovato il convegno molto impegnativo e vi ho imparato alcune cose, ma per attenermi all' esigenza giornalistica di narrativizzare gli eventi vorrei soffermarmi sulla più gustosa tra le indiscrezioni trapelate, secondo la quale dopo la cena del primo giorno (quella in cui l' intervento di D' Alema aveva indubbiamente posto problemi politici di una certa gravità), i convenuti si erano dati sino a mezzanotte a canti corali. Per i pochi che non credessero a quanto scrivono i giornali, preciso che l' episodio è assolutamente vero. E' vero, l' ho trovato molto bello e di grande rilievo morale e politico. Il momento del canto comune è fondamentale per tutti i gruppi religiosi, per i movimenti politici, e per tutti quei raduni, di qualsiasi natura, in cui i partecipanti sono isolati in luogo chiuso e alla sera cercano cercano di stemperare le tensioni della giornata senza dover andare a letto alle nove a contare le pecore. Non me lo sarei però aspettato a Gargonza, con tanti ministri e sottosegretari, che immaginavo passassero la notte attaccati al cellulare, per non perdere la poltrona che avevano lasciata vacante per due giorni. E mi è molto piaciuto che - non noi studiosi che come si sa abbiamo del tempo da perdere - ma uomini di governo, ricordandosi di essere umani, si siano lasciati andare e si siano comportati come avrebbero fatto i cittadini normali in circostanze analoghe. Quella sera vecchi comunisti, ex sessantottini, cattolici e laici mangiapreti si sono ritrovati sulle stesse canzoni, un repertorio che andava dai canti di montagna (prevalenti) a qualche rivisitazione di vecchie arie come "Sola me ne vo per la città", transitando senza defezioni da "Bella ciao" e "Addio Lugano bella" a "Bella tu sei qual sole". Il fatto è degno riflessione: non direi tanto che ne veniva fuori che c' erano molte radici biografiche comuni (anche se questo non è da sottovalutare), ma che c'era una radice culturale diffusa. Infine ciò che mi ha colpito (ma, animale da congresso qual sono, avrei dovuto già saperlo) è stato che, tranne qualche sforata su canti abruzzesi o napoletani, la maggioranza delle canzoni erano di area che altri chiamerebbero padana, ma di una Padania che va dalle valli valostane, attraverso le risaie, sino alle Dolomiti. E' quasi ovvio, perchè i canti della montagna e della Bassa sono per natura corali (ci vogliono anzi più sezioni, una che lavora sull' acuto, l' altra che ricama una terza sotto, e la sezione ritmica che fa "pon poropon pon pon"). Ma è anche perchè questi sono i canti su cui si è formata una coscienza nazionale civile, dalla protesta delle mondine alle nostalgie degli alpini esposti al "ta-pum" del cecchino in agguato, con poca gioia per la bellezza della guerra ma tanta testarda volontà di non mollare quelle montagne. Una Italia fatta di Dosoline che la van di sopra e Smortine che è l' amor che rovina (l' amor per il Napolitan, il qual furfantello s' è già cercato un' altra morosa, è vero, ma a Bologna). Sono i cori di quei giorni (o di quelle notti) in cui anche i siciliani cantavano "Bombardano Cortina", e i lombardi non sapevano che cosa fossero i miti celtici e il dio Po, e forse sognavano una finestra a Marechiaro. Ritorna alla pagina precedente
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