Una grande Sinistra,
un grande Ulivo, per un'Italia di tutti

Il talento di ognuno al servizio dell’Italia, per l’Europa dei diritti,
delle opportunità e della sicurezza.
La nuova sinistra dei valori e del riformismo per un mondo solidale,
per sconfiggere la povertà, perché nessuno si senta solo
.

Mozione politica a sostegno della candidatura di Walter Veltroni a segretario dei Democratici di sinistra
Roma, 6 ottobre 1999

1. Tra Ottantanove e Duemila

1.1. La sinistra italiana è giunta ad un passaggio cruciale.

Sono evidenti i successi che – con la grande idea dell’Ulivo di cui siamo stati protagonisti e con la politica di centrosinistra – il nostro Paese ha ottenuto in questi anni, rialzandosi da una drammatica crisi finanziaria, morale e politica. La sinistra, onorando la parte migliore della sua storia riformista, ha svolto – insieme ad altre energie e componenti democratiche e con un ruolo decisivo del movimento sindacale – una grande funzione nazionale.

Ma, d’altra parte, si avverte l’allentamento della capacità di trasmettere al Paese il senso della "missione" della sinistra e del centrosinistra e crescono la sfiducia nella politica e l’astensionismo; rialza la testa la destra di Berlusconi e si affacciano rinnovate tentazioni, in una parte della società italiana, di ricostruire vecchi equilibri e di ricollocare la sinistra e le sue politiche in una condizione di marginalità.

In questo delicato passaggio, non è retorico porsi la domanda: perché stare a sinistra, in Italia, ad un passo dal Duemila? Perché impegnarsi, per quali idee, con quali mezzi, in un’azione libera e volontaria, nell’Ulivo e nei DS?

Il Congresso dei DS ha il compito di tentare una risposta, affinché la sinistra e l’idea dell’Ulivo parlino a passioni e sentimenti di milioni di uomini e di donne, mobilitino energie vitali e permettano al Paese di non arretrare, precipitando in avventure confuse e ambigue; e affinché sia possibile proseguire, vincendo le consultazioni politiche del 2001, l’opera di trasformazione e di incivilimento della società e delle istituzioni del nostro Paese.

In tal senso, questa mozione si inserisce pienamente all’interno dei princìpi e dei valori definiti dal "Progetto per la sinistra del 2000", che fa proprio.

1.2. La sinistra che oggi, con Massimo D’Alema, guida il governo del Paese e che partecipa al grande sforzo comune del socialismo europeo, è nata nel 1989.

Prima non c’erano solo macerie ed errori. C’era una storia. C’erano le grandi tradizioni della Resistenza, dell’antifascismo e delle battaglie democratiche – nelle esperienze del PCI, del PSI, della sinistra cristiana, dei laici, degli azionisti e dei repubblicani, della nuova sinistra, nel movimento sindacale e in quello delle donne, nelle culture ambientaliste e pacifiste – che hanno costituito un patrimonio civile e umano enorme, di cui ci sentiamo eredi.

Ma nell’89, con il crollo del muro, si è dischiusa l’opportunità di un "nuovo inizio", anche per la politica e per la sinistra italiana, finalmente liberate dalla ipoteca della divisione del mondo in blocchi contrapposti. Senza quella svolta, dieci anni dopo, la sinistra italiana non avrebbe potuto guidare il Paese.

1.3. Quel progetto è ancora incompiuto. E tuttavia, in questo decennio di inesausta ricerca, la sinistra democratica ha saputo presentarsi agli italiani come grande riserva di moralità politica, un serbatoio in gran parte non attinto di personale politico competente e nuovo. Ed ha saputo compiere alcune scelte fondamentali che le hanno permesso di esercitare un ruolo di primo piano nella guida dei processi di transizione in atto nel Paese.

La scelta dell’Europa e del socialismo europeo, come aggancio a una prospettiva comune più grande, luogo di definizione dell’identità e spazio del rinnovamento della sinistra.

La scelta, fin dal ’92, del risanamento finanziario per lo sviluppo e per l’Europa, facendo dei parametri di Maastricht il proprio grande obiettivo, in un quadro di concertazione con le forze sociali, a cominciare dal sindacato, e di politiche a lungo rinviate (privatizzazioni, riordino previdenziale, equità fiscale).

La scelta della legalità e dell’affermazione dell’indipendenza della magistratura, dopo gli anni terribili di Tangentopoli, del dominio incontrollato della mafia, della verticale caduta di senso civico e della crisi di credibilità delle vecchie classi dirigenti.

La scelta della riforma del sistema politico, attraverso la partecipazione alle battaglie referendarie e la definizione di un progetto fortemente innovatore, con la netta opzione per il maggioritario, l’elezione diretta degli esecutivi, il federalismo. E’ così cresciuta una nuova "sinistra delle città", che ha saputo contribuire all’affermazione di una nuova classe dirigente anche espressione diretta della società civile.

La scelta infine, dopo la sconfitta del ‘94, del centrosinistra come nuovo orizzonte strategico, come fattore di evoluzione in senso bipolare del sistema e di stabile alleanza tra le culture politiche riformatrici.

1.4. La candidatura di Romano Prodi e il progetto dell’Ulivo – frutto delle coraggiose scelte di larga parte del centro popolare e liberaldemocratico e di quelle dell’ambientalismo e della sinistra democratica italiana – hanno dato alla nuova alleanza forza e autorevolezza. La casa comune dei riformisti e dei democratici italiani, superate finalmente le ragioni che li avevano visti a lungo contrapposti, prendeva la forma non di un partito, ma di un grande spazio comune, senza annacquare identità e differenze e facendo sprigionare da quell’incontro un valore aggiunto di energia e di speranza. L’Ulivo è così diventato il più grande progetto politico degli anni Novanta ed una delle pagine più significative della vicenda storica dell’Italia repubblicana. Un Paese che era sembrato affascinato da demagogie populistiche, come quella berlusconiana, o attraversato da pericolosi ripiegamenti – le tendenze secessionistiche e le nuove forme di razzismo – ha così ritrovato, nel ‘96, il senso di un cammino, la volontà di uscire dall’incertezza.

Si è aperta, col governo Prodi, una prospettiva di stabilità, di risanamento, di riformismo. L’intero Paese, fino al 4 maggio del 1998 – quando è stata varata la moneta unica e l’Italia è entrata nell’Euro – ha sentito su di sé una sfida, ha avuto uno scopo, è stato trascinato in avanti da un grande obiettivo comune. L’euroscetticismo di molti è stato battuto. Nello stesso periodo in cui la finanza pubblica era oggetto di un drastico risanamento condotto con principi di equità, e si annunciavano le prime nuvole sull’economia internazionale, il governo dell’Ulivo apriva altri grandi cantieri di cambiamento: dall’ingresso nel sistema di Schengen, avviando una modernizzazione del sistema di sicurezza con le nuove norme sull’immigrazione, alle riforme del fisco, della burocrazia, della scuola e dell’Università, della cultura, del mercato del lavoro, delle politiche sociali, dei mercati finanziari.

1.5. Dal 4 maggio 1998 in poi, qualcosa si è incrinato nel rapporto col Paese: pur proseguendo l’opera di riforma, si è allentata la tensione, in un’Italia che ha pagato un costo alto al proprio risanamento e con una destra che, rovesciando la Bicamerale e il più compiuto tentativo di riforma delle istituzioni, ha riaperto una fase di involuzione del sistema politico. In questa fessura Rifondazione Comunista ha compiuto il drammatico errore di provocare la caduta del governo Prodi rischiando di far rientrare in gioco la destra italiana, magari sotto le forme consociative, per noi inaccettabili, a cui aspira Berlusconi.

L’assunzione diretta della guida del governo da parte della sinistra – proposta dall’Ulivo con l’obiettivo di evitare un ritorno indietro più generale – è stata per noi un atto di responsabilità, verso il Paese e i suoi impegni, e verso il progetto di cui eravamo stati protagonisti, che con la crisi del governo Prodi subiva una ferita profonda.

Sentiamo quindi tutto il senso di quel passaggio: di quanto grave sia stato l’errore del Prc; di quanto fragile fosse e sia il sistema politico ed elettorale italiano; di quali difficoltà vi siano state nell’indicare al Paese una nuova missione, dopo l’Euro; e infine di quanto tempo si sia perduto rispetto alla necessità di investire sull’Ulivo come soggetto forte e coeso, cui delegare parte delle decisioni e della rappresentanza.

Ma quella vicenda pone domande anche sulle nostre responsabilità circa la qualità e l’innovazione della politica, e sull’inerzia di una concezione tradizionale e superata di partito. Gli Stati Generali di Firenze, nel febbraio del ‘98, sono stati una grande occasione per mescolare le culture e allargare gli orizzonti della sinistra di governo – pur con evidenti limiti di politicismo che ne hanno frenato la capacità di attrazione – ma hanno alimentato in una parte dell’opinione pubblica e dello stesso partito la convinzione di un’alternatività e di una competizione tra l’idea della sinistra democratica e quella dell’Ulivo. Al contrario - come si disse allora - una grande sinistra in un grande Ulivo era e rimane l’orizzonte politico delle nostre scelte.

1.6. La nascita del governo D’Alema è avvenuta in questo quadro. Da un lato con l’obiettivo di costruire una continuità nel programma, nelle scelte, nei metodi col governo Prodi; e dall’altro con la necessità politica di trasformare una coalizione parlamentare, solo in parte espressione dei soggetti che hanno concorso al progetto dell’Ulivo, in un nuovo Ulivo, in un soggetto forte e coeso, competitivo nel maggioritario.

Sul primo terreno si è avviata una fase nuova. L’occupazione è in crescita. Comincia a diminuire, seppur in modo insufficiente, la disoccupazione. Il bilancio pubblico, ormai risanato, apre spazi per ridurre la pressione fiscale e lanciare politiche di sviluppo. Si lavora ad un nuovo ampliamento del welfare, con nuove politiche dell’assistenza. Nella scuola si accelerano gli interventi riformatori e per la giustizia si avvertono i primi effetti benefici delle riforme realizzate.

Il governo D’Alema, nei suoi primi mesi di vita, ha affrontato soprattutto la drammatica crisi internazionale del Kosovo, acquisendo credibilità e prestigio in una iniziativa a tutto tondo per i diritti umani. I DS, che hanno partecipato in modo appassionato e sofferto a quella vicenda, hanno assicurato un sostegno pieno e convinto alle scelte italiane, contribuendo a orientare e mobilitare il Paese. Lo hanno fatto perché non credono sia accettabile che la comunità internazionale debba restare incapace di regolare controversie e conflitti e che le dichiarazioni volte ad affermare l’intangibilità dei diritti fondamentali dell’uomo debbano rimanere pure enunciazioni di principio, tanto solenni quanto inapplicate. A guidarci è stata, in quella vicenda, una profonda convinzione morale, la volontà di affermare un principio inderogabile: nessun governante, nessuno Stato, in nessuna parte del mondo, può abusare dei diritti umani, dei diritti dei popoli sottoposti alla sua autorità, e rimanere impunito. E’ tempo, infatti, che i valori non siano più costretti a sottostare alle esigenze imposte da cortine di ferro o contrapposizioni ideologiche. E’ tempo che ordine internazionale e democrazia non siano più piani separati e a volte distanti. E’ tempo di affermare il diritto-dovere di ingerenza umanitaria, e che ad esso sia data coerenza e universalità, definendo regole e poteri decisionali, riformando in profondità l’Onu e i suoi strumenti, in modo corrispondente all’attuale scenario internazionale "pluralista" e non più bipolare.

La conclusione della guerra, il nostro ruolo nell’area balcanica, le recenti decisioni relative a Timor Est, hanno segnato un cambio di passo nella politica estera del nostro Paese e un ruolo più attivo della sinistra italiana.

1.7. Ma il problema politico che ha concorso alla crisi del governo Prodi e che era evidente al momento della nascita del governo D’Alema – quello della soggettività del centrosinistra, di un nuovo Ulivo, della capacità di trasmettere valori forti e condivisi – non si è ancora risolto. Anzi: fino alle elezioni europee, e nelle settimane successive, si sono aggravati fenomeni di frammentazione e di divisione; e anche idee nuove, come quella dei Democratici, rischiano di imboccare la strada della tradizionale esperienza dei partiti.

La presa che Berlusconi torna ad esercitare, a scapito dei suoi alleati, in una parte della società, così come quella della lista Bonino col carico dirompente della recente iniziativa referendaria, sono connesse anche al fatto che finora il messaggio di innovazione, le idee e i valori della coalizione, la capacità di narrare, anche con legittimo senso di orgoglio, ciò che finora abbiamo fatto e quella di evocare ciò che possiamo fare, non si sono avvertiti a sufficienza.

L’Ulivo e la sinistra nel ‘96 avevano chiesto consenso anche per completare - col concorso di tutti - la riforma del sistema politico e istituzionale. L’idea che le regole vanno decise insieme appartiene alla nostra identità e la confermiamo. E tuttavia abbiamo respinto - ed è qui in definitiva la ragione della rottura in Bicamerale - la pretesa di Berlusconi di sottoporre l’approvazione delle regole a un proprio interesse particolare, sia sul terreno giudiziario che su quello degli assetti dell’emittenza. E’ legittimo voler affermare un proprio interesse, ma è inaccettabile pensare di piegare regole e leggi al proprio interesse.

L’interruzione del processo riformatore e successivamente il mancato raggiungimento del quorum nel referendum sulla legge elettorale hanno accelerato sfiducia, passività, distacco. Anzi: sempre di più la politica appare condizionata o condizionabile da chi ha il denaro, sottoponendo valori, programmi, rappresentanza di interessi a logiche di mercato e a un dominio economico. Se il male degli anni Ottanta è stata una partitocrazia asfissiante, quello di questa stagione - e non solo in Italia - a fronte di una politica fin troppo fragile e arida, è il pericolo di una colonizzazione del sistema politico-istituzionale, da parte di concentrazioni di potere economico e mediatico, che rischia di negare il diritto alla partecipazione e alla decisione per milioni di uomini e di donne.

C’è qui un discrimine fondamentale tra sinistra e destra. Finanziamento pubblico alla politica, par condicio, anti-trust, conflitto di interessi, insieme e contestualmente al completamento della riforma del sistema in chiave maggioritaria, sono regole essenziali di un assetto democratico ed equilibrato.

2. Un nuovo internazionalismo

2.1. La sinistra italiana non troverà se stessa se non cercandosi in un più vasto orizzonte rispetto a quello nazionale. L'accelerazione in atto nei processi di globalizzazione da un lato e in quelli di integrazione europea dall'altro, ha privato di significato politico e di fecondità storica la difesa dei caratteri di anomalia presenti e persistenti nel sistema politico italiano, evidenziandone la natura di ritardo assai più che quella di modello. Ciò non significa che l'esperienza italiana non abbia, anche negli ultimi anni, prodotto elementi di innovazione di rilevanza e interesse anche sovranazionale. Significa che questi elementi di novità sono stati possibili quando la politica italiana si è aperta al confronto anche dialettico con un orizzonte più ampio.

Del resto, è nella tradizione migliore della sinistra la ricerca di coordinate teoriche e di rapporti politici più larghi della sola dimensione nazionale. E una parte non marginale del futuro della sinistra italiana si gioca oggi sulla decisiva frontiera della sinistra internazionale, nella duplice dimensione della fisionomia ideale e organizzativa dell'Internazionale socialista da un lato e delle politiche internazionali dall'altro.

2.2. La sinistra non vivrà - o comunque non vincerà politicamente, non manterrà a lungo le sue attuali posizioni di primato in larga parte dell'Occidente - se non riuscirà a dar vita, in tempi ragionevolmente ravvicinati, a un "nuovo internazionalismo", a una percepibile e sensibile innovazione nelle relazioni tra i popoli.

La fine del vecchio internazionalismo è stata tutt'uno con la fine di un mondo che nessuno rimpiange, tanto meno la sinistra democratica. Un mondo diviso in blocchi contrapposti: Ovest contro Est, capitalismo contro comunismo. Il mondo della corsa agli armamenti, dell’equilibrio del terrore, della minaccia dell’olocausto nucleare, del Vietnam e dell’Afghanistan.

Il mondo uscito da un incubo divenuto realtà, dall’inferno in terra, da una voragine spaventosa nella quale erano sprofondati milioni di esseri umani. Il mondo del Novecento, il secolo del sangue. Il secolo in cui degli uomini hanno potuto immaginare e realizzare il genocidio degli Ebrei. Il secolo di Auschwitz, delle vittime delle persecuzioni del nazismo. E il secolo della tragedia del comunismo, di Ian Palach, dei gulag, degli orrori dello stalinismo.

Ma anche il secolo delle libertà riconquistate, dell’Europa sottratta ad ogni dittatura, dell’Africa affrancata dal colonialismo e dall’apartheid, dell’America Latina piena di giovani democrazie.

2.3. Il Novecento sta finendo e noi lo consegniamo volentieri alla storia.

E tuttavia, alla fine del vecchio ordine, non può sostituirsi il "disordine stabilito" di una globalizzazione lasciata alla sola guida di un mercato sregolato.

Il mondo è troppo grande e troppo "unico", ormai, per poter essere guidato da un potere politico che abbia ambizioni non solo di dominio, ma perfino di razionalizzazione. La complessità tende a sfuggire a qualunque riduzione ad uno. Ma nell'inevitabile dialettica con gli altri poteri e gli altri universi simbolici, la politica deve esserci, deve sostenere il proprio autonomo punto di vista, rifiutando di ridursi a servomeccanismo di altri sistemi di potere e di relazione.

Del resto, allo stato attuale, la politica resta pressoché l'unico ambito della società umana almeno parzialmente e imperfettamente democratizzato. Le sorti della politica quindi, si identificano ancora, in una certa misura, con le sorti della democrazia. Una politica deperita, marginalizzata, asservita, significa una caduta di democrazia nel mondo.

Naturalmente, la politica non può semplicemente rivendicare un ruolo. Deve sforzarsi di affermarlo nella inevitabile competizione con gli altri poteri. Sta qui la prima, grande sfida della sinistra: una sfida "umanistica", se per umanesimo intendiamo lo sforzo, mai compiuto e mai definitivo, sempre precario e parziale, di ricondurre la convivenza tra gli uomini sotto il controllo consapevole dell'intelligenza e della coscienza umana. E’ stato detto: "la lotta di classe non c’è più, ma la lotta per l’uguaglianza comincia adesso".

2.4. Un nuovo internazionalismo può e deve fondarsi sulla consapevolezza del carattere epocale di questa sfida. Una sfida che non è un'idea astratta, ma una costellazione di questioni attorno alle quali si gioca la qualità umana del futuro del pianeta: la costruzione della pace, attraverso la definizione di un nuovo ordine internazionale e la predisposizione di una strumentazione multilaterale di gestione e raffreddamento dei conflitti, meno primitiva di quella della quale disponiamo attualmente; la diffusione su scala planetaria della cultura e della civiltà dei diritti umani e della democrazia, come valori in sé, ma anche come antidoti strutturali alla violenza, all'intolleranza, all'odio razzista e nazionalista; la libertà femminile, presupposto imprescindibile per una qualità civile della convivenza umana; la lotta alla povertà, alla fame, al sottosviluppo, allo sfruttamento, alla macroscopica e strutturale disuguaglianza nell'accesso alle risorse economiche mondiali, attraverso misure realistiche e concrete, come l’abbattimento del debito estero dei paesi più poveri; la diffusione di una cultura del limite nello sfruttamento delle risorse naturali e nella manipolazione tecnologica della natura e della vita.

2.5. Se questa è l'agenda storica di una sinistra del Duemila, anche la strumentazione politica deve aggiornarsi. Dinanzi alla grande questione della "umanizzazione" dello sviluppo, perdono di significato molte delle tradizionali distinzioni politico-ideologiche. La stessa Internazionale socialista, la nostra casa politica sovranazionale, ha avviato da tempo un processo di apertura e di allargamento a forze politiche anche di tradizione non socialista, a cominciare da Al Fatah di Yasser Arafat e dall’Anc di Nelson Mandela.

La casa del socialismo deve aprirsi ancora, fino a comprendere le forze della sinistra riformista, le nuove culture, di ispirazione laica e religiosa, che hanno scelto il grande campo della sinistra. Sono forze nuove dell’Europa dell’Est, dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. Nuove forze, nate non nel travaglio delle Internazionali di inizio secolo, ma nei processi democratici della fine del secolo. Anch’esse sono forze della grande, nuova sinistra e aprirsi a loro è il modo migliore per l’Internazionale socialista di varcare il nuovo millennio.

Un processo analogo è urgente mettere in moto sul piano europeo, ove la mutazione genetica in atto nel Ppe, con l’ingresso dei conservatori inglesi, dei gollisti francesi, dei popolari spagnoli e di Forza Italia, spinge oggettivamente il Partito del socialismo europeo a mettere in campo una strategia innovativa di apertura ad altre culture e ad altre ispirazioni.

2.6. E' in questo contesto più ampio che va inquadrata anche la grande questione dell'identità europea e del ruolo dell'Europa nel mondo. L'Europa non uscirà dalle sue persistenti difficoltà interne, se non saprà scoprire una propria "missione" più grande delle dispute tra i diversi - e inevitabilmente divergenti - interessi nazionali. Quando si dice che l'Europa non può essere solo moneta, si deve intendere innanzi tutto questo: la stessa moneta unica non riuscirà ad esprimere appieno tutte le sue potenzialità anche economiche, se non verrà intesa come lo strumento di una politica, di un disegno storico-civile, di una visione autonoma e originale, rispetto ad altre aree regionali del mondo, circa il futuro del pianeta. Dinanzi all'Europa sta oggi il compito di articolare lo stesso concetto di Occidente, in una prospettiva di competizione, nella collaborazione e nell’amicizia, tra Europa e America, anche come antidoto alla esplosione di nuovi conflitti. E' del tutto evidente infatti che per le altre culture e aree regionali del pianeta, altro è uniformarsi più o meno passivamente ad un unico modello imposto dall'Occidente, altro è inserirsi in un quadro multipolare, già movimentato e articolato dalla dialettica tra i diversi Nord del mondo.

Di questo e non di altro parliamo, del resto, quando proponiamo una "gamba europea" dell'Alleanza atlantica. Di questo e non di altro parliamo, quando pensiamo al futuro dell'Euro come moneta di riferimento, accanto al dollaro, nelle transazioni internazionali. Di questo e non di altro parliamo quando difendiamo il "modello europeo" di rapporto tra economia e società.

2.7. Anche in questo caso, nulla è acquisito con i soli desideri, né basta invocare l'Europa per averle conferito capacità competitiva. La partita si gioca sul campo ed è una partita innanzi tutto politica, è la partita che deve vincere la sinistra che governa la stragrande maggioranza dei paesi europei.

Per la destra la crescita economica e l'occupazione si pongono in termini contrapposti, rispetto alla solidità e all'estensione del welfare. Ma l'Europa non può rassegnarsi a questa alternativa. Il modello europeo si basa proprio sulla tesi che la crescita economica ed occupazionale sia compatibile ed anzi positivamente influenzata da elevati livelli di coesione sociale, garantiti da altrettanto elevati standard di tutela dei bisogni e dei diritti.

Dare nuova prospettiva al modello europeo significa, dopo il raggiungimento del traguardo storico della moneta unica, assumere come centrali per il futuro dell’Europa gli obiettivi dello sviluppo e dell’occupazione. Vi sono oggi tutte le condizioni, dopo la realizzazione dell’Unione monetaria, in un quadro di bassa inflazione e bassi tassi d’interesse, per una politica comunitaria che realizzi una crescita alta e duratura. Questa da una parte è la condizione per una lotta effettiva alla disoccupazione, dall’altra favorisce il processo di riforme nei campi del lavoro e dello Stato sociale. Sotto questo profilo, è decisivo ridare slancio, con l’impegno dei governi di centro-sinistra e della nuova Commissione Europea sotto la presidenza Prodi, alla realizzazione di un Patto europeo per l’occupazione che coniughi le politiche rivolte alla crescita, con le politiche di riforma strutturali.

3. I Cinquecento giorni del centrosinistra

3.1. L’Italia è uno dei quattro più grandi paesi del vecchio continente governati dalla sinistra e dal centrosinistra, e l'esito della scommessa europea – come, per altri versi, quello di un quadro più equo di relazioni Nord-Sud nel mondo – dipende anche da noi, dal nostro governo, dalla nostra coalizione, dalla sinistra.

Oggi la stabilità politica e la conclusione della legislatura nel 2001 appaiono non solo come necessità politiche volte a impedire che ritorni in gioco la destra, ma come necessità economiche, sociali e civili del Paese. Stabilità vuol dire, infatti, continuità nell’azione di risanamento economico e finanziario, senza compromettere gli straordinari risultati fin qui acquisiti. Stabilità vuol dire dimostrare che rilancio della crescita e nuovo welfare si possono e si debbono combinare, che anzi è solo da qui che il Paese può trovare, insieme, nuova occupazione e nuova coesione. Stabilità vuol dire fiducia e spirito positivo per le famiglie, per chi lavora, per chi ha di meno. Stabilità vuol dire ottimismo per i giovani.

3.2. L’azione riformatrice del governo e della maggioranza si sta sviluppando in tutti i settori, come forse mai è avvenuto nella storia dell’Italia repubblicana.

Ma l’aggancio all’Euro – che ha rappresentato l’occasione storica per rompere il circolo vizioso in cui il vecchio modello si era avvitato, il vincolo esterno che ha permesso al Paese di rompere l’immobilismo del passato – propone nuove sfide formidabili all’Italia:

  • aumentare il tasso di crescita di lungo periodo, introducendo una soluzione di continuità nelle potenzialità di sviluppo del Mezzogiorno, che rappresenta la più grande riserva di crescita del sistema Italia;
  • modificare le condizioni di competitività, passando da un modello basato sui bassi salari, sull’economia sommersa o sulle svalutazioni, ad un nuovo modello che abbia come punti di forza: la qualità delle risorse umane; la qualità dei prodotti; il capitale tecnologico; condizioni ambientali favorevoli alla crescita delle attività produttive e alla diffusione dell’innovazione; l’estensione verso nuovi settori dell’industria e del terziario del tradizionale modello di specializzazione; il consolidamento delle imprese italiane (soprattutto di quelle di medie dimensioni e delle reti di piccole imprese) sui mercati internazionali dei prodotti e dei capitali; la provvista di beni pubblici e collettivi di elevata qualità e di costo sopportabile;
  • espandere in modo significativo l’occupazione, come conseguenza della maggiore crescita e competitività, soprattutto nel Mezzogiorno, e come effetto diretto di interventi volti a fare aumentare l’intensità occupazionale della crescita e a migliorare il funzionamento del mercato del lavoro. E’ all’occupazione, infatti, che sono in ultima analisi collegati andamenti di fondo del sistema, come quello della popolazione e della transizione demografica, che hanno assunto tendenze squilibrate e che manifestano, proiettati nel lungo periodo, segnali preoccupanti di declino della nazione. La sinistra persegue l’obiettivo di una moderna, buona e piena occupazione;
  • ricostruire le basi e i meccanismi di un nuovo patto di coesione sociale, adeguato all’economia dei servizi e dell’innovazione, e declinato sugli obiettivi dell’equità, dell’inclusione, delle pari opportunità. Il sistema di welfare non può restare ossificato. Per essere efficace ai fini della coesione sociale, deve sapersi adattare alle nuove condizioni del mercato del lavoro, aprirsi ai nuovi bisogni, coinvolgere in modo attivo e responsabile i soggetti, garantire condizioni di sostenibilità non soltanto finanziaria, ma sociale e politica.

3.3. Crescita, competitività, occupazione, coesione sociale: queste le nuove sfide dell’Italia nel 2000, dell’Italia nel dopo-Euro. A differenza di quanto accaduto fra il 1996 e il 1998, durante il processo di convergenza all’Euro, si tratta di sfide su cui il paese non sarà soggetto alla stringente disciplina dei parametri di Maastricht e al vigile monitoraggio delle istituzioni internazionali. Se l’Italia non saprà sfruttare le opportunità aperte dalla nuova fase, se i mercati non si svilupperanno, se la pubblica amministrazione non si riformerà, se i servizi collettivi non aumenteranno la loro efficienza, se l’innovazione segnerà il passo, nessuno ci rimprovererà. Al contrario, diventeremo un interessante mercato di sbocco per i prodotti e i servizi dei nostri partners comunitari e correremo il rischio di un lento scivolamento verso condizioni di sottoutilizzo delle nostre risorse produttive. Il vero rischio non è quello di uscire dall’Europa, bensì di una progressiva marginalizzazione del nostro sistema.

Le sfide del 2000 richiedono allora che la società italiana trovi al suo interno le risorse e il coraggio necessari. Risorse non solo individuali, ma collettive. E coraggio politico, perché sfide nuove richiedono profonde innovazioni.

3.4. E’ compito della sinistra democratica imprimere un’accelerazione a questi processi e soprattutto a quelli legati all’innovazione sociale, agli investimenti sul capitale umano e alla liberalizzazione dei mercati. Scuola, formazione, ricerca sono i settori attraverso cui una società investe sul suo futuro. L’impegno per rafforzare questi investimenti è un carattere fondante della sinistra democratica, insieme all’impegno per rendere sempre più accessibile ogni forma di espressione culturale. Un’accessibilità che si può realizzare con strumenti anche innovativi: ad esempio abbattendo i costi d’ingresso alle reti telematiche, oppure offrendo l’accesso gratuito ai giovani nei luoghi di cultura.

Per quanto riguarda la liberalizzazione, mercati liberi non significano, per la sinistra democratica, mercati sregolati. La liberalizzazione è lo strumento per abbattere le barriere all’ingresso, favorire l’innovazione sociale, imprenditoriale e manageriale, superare tradizionali ingessature che ostacolano i processi di crescita, spostare il ruolo dello Stato dalla gestione diretta delle attività produttive a funzioni più elevate di regolazione e di controllo, in primo luogo a difesa della concorrenza. Molta strada è stata fatta in questi anni, ma molta resta ancora da percorrere. Le privatizzazioni sono un potente strumento non solo per drenare dai mercati risorse finanziarie da destinare all’abbattimento del debito pubblico, ma anche per introdurre concorrenza, innovazione, nuovi assetti proprietari, nuovi prodotti, e così nuova occupazione. Nei servizi alle imprese e alle persone grandi opportunità si aprono per il settore privato e per il settore no-profit a fronte della crescita della domanda, alla sola condizione di completare l’adeguamento delle infrastrutture normative e amministrative, ad esempio con la riforma degli ordini professionali. Con le nuove regole di funzionamento dei mercati finanziari, c’è la possibilità di costruire un capitalismo italiano finalmente maturo e pluralista, a condizione di aiutare i processi di crescita delle piccole e medie imprese, di salvaguardare le specificità di un tessuto produttivo fortemente diffuso, di evitare che si creino nuove concentrazioni di potere e di mercato. Cittadini e imprese sono stanchi dell’eccesso di burocrazia, delle inutili barriere all’ingresso del lavoro e delle professioni, delle ostinate tentazioni monopolistiche di pochi grandi gruppi industriali e finanziari, del conflitto d’interessi fra politica e sistema della comunicazione.

Le istituzioni non devono chiamarsi fuori da questo processo, ma devono imparare a regolarlo in modi corretti e non invasivi. Ciò significa che l’intervento pubblico sui processi di riallocazione della proprietà delle imprese si giustifica solo in base a tre obiettivi: la garanzia del pluralismo dei soggetti in concorrenza; le prospettive degli assetti industriali e dell’occupazione; la difesa dei diritti degli azionisti.

3.5. Se la vecchia sinistra gestiva la domanda su base nazionale, anche attraverso le nazionalizzazioni e la costruzione di uno stato sociale "pesante" e standardizzato, la nuova sinistra che si propone di guidare la globalizzazione sostiene che il rilancio della domanda e degli investimenti – politiche oramai prevalentemente di dimensione europea – deve procedere insieme a riforme microeconomiche volte alla flessibilizzazione regolata di tutti i mercati e di tutte le istituzioni, per favorire ritmi di crescita più sostenuti e a nuove politiche di welfare universale.

E’ allora centrale, per i tredici governi di centrosinistra in Europa e per la Commissione Prodi, lanciare un piano di investimenti infrastrutturali e per il capitale umano, la formazione e l’innovazione, che attualizzi molte indicazioni del libro bianco di Delors e che sappia trovare finanziamenti anche sui mercati internazionali.

Respingiamo invece la richiesta di chi pretende che il governo italiano si faccia promotore di proposte unilaterali di allentamento dei parametri del patto di stabilità: proposte irrealistiche e dannose per l’affidabilità dell’Italia. Servono l’accentuazione espansiva della politica monetaria della Banca Centrale Europea, un carattere sempre meno restrittivo delle politiche di finanza pubblica nazionali – e in particolare, in Italia, un’accelerazione dell’allentamento della pressione fiscale – e investimenti sulle "reti" europee (trasporti, tlc, sistemi integrati per la ricerca) che possano davvero fare unico il mercato comunitario, reggere le competizione con gli USA, aiutare lo sviluppo economico, democratico e dei diritti umani nell’Est europeo, nei Balcani, nell’area del Mediterraneo. Per orientare alla crescita le istituzioni comunitarie, serve un tenace lavoro per coordinare le politiche economiche nazionali.

3.6. Mai come in questa fase, quindi, la sinistra deve sentirsi parte – con altri attori sociali, a cominciare dal sindacato – del processo di crescita delle forze produttive e della promozione di uno sviluppo sostenibile. Essere a sinistra vuol dire non demonizzare la globalizzazione, la competizione e la flessibilizzazione di tutto il sistema, ma saper affermare, sulla base di regole, di diritti e di doveri, valori e principi universali, pari opportunità, certezze per i più deboli, valorizzazione dei più capaci, formazione continua, welfare di accompagnamento a fronte dei rischi sociali.

La sinistra deve riuscire ad ampliare la sua rappresentanza sociale, rafforzando il radicamento nel mondo del lavoro dipendente e sviluppando la sua presenza nel vasto mondo dei lavori diffusi e delle professionalità emergenti. La diversificazione in atto delle figure lavorative e i cambiamenti qualitativi del lavoro pongono sfide che non possiamo eludere. Il mondo del lavoro, dei lavori e dei saperi è la base essenziale di una sinistra moderna.

La sinistra non può sentirsi ostile ad una prospettiva evolutiva, sul piano individuale e collettivo, come quella della flessibilità: capacità di rapido adattamento al ritmo dei cambiamenti tecnologici e della competizione, padronanza e governo della mobilità sociale, elasticità della mente di chi ha imparato ad imparare. Ma la flessibilità non è neutra. Il darwinismo sociale della nuova destra propone una sua visione della flessibilità esattamente come faceva nella fase fordista: la sinistra, allora, seppe esprimere il suo punto di vista alternativo sulla rigidità del lavoro in catena di montaggio. La stessa cosa deve saper fare oggi: l’obiettivo è quello di una flessibilità regolata, di un nuovo sistema di garanzie e di poteri, ritagliato sulle esigenze dell’individuo lavoratore, piuttosto che su quelle di una classe lavoratrice omogenea.

Un punto di vista di sinistra sul conflitto sociale parte dall’esperienza dei patti territoriali, dei contratti d’area, delle politiche di "nuova programmazione" nel Mezzogiorno, da politiche differenziali, anche sulle condizioni di flessibilità dei salari e del mercato del lavoro: non con "gabbie" e recinti, ma con la valorizzazione di risorse territoriali e con la concertazione, all’interno dell’assetto esistente della contrattazione. E il conflitto sociale dovrà avere nella dimensione territoriale una parte crescente del suo sviluppo, anche nella prospettiva della riforma federalistica. Così come alla negoziazione va affidata la possibilità di ridurre e redistribuire il tempo di lavoro.

In questo quadro, la flessibilità che ci interessa aumentare è, da un lato, quella in grado di migliorare la qualità dell’organizzazione del lavoro delle imprese. E, dall’altro lato, quella in grado di rendere massime le opportunità di accesso per i giovani e di accrescimento professionale per gli adulti. Respingiamo l’idea che solo intervenendo sulla flessibilità – in particolare abbattendo le tutele sulle uscite – sia possibile ottenere più crescita. Per noi questa equazione va ribaltata: la crescita può creare e moltiplicare le opportunità di occupazione solo se le istituzioni del mercato del lavoro sono capaci di adeguarsi, in tre direzioni: consolidando le esperienze in corso di flessibilità in entrata; riformando il sistema degli ammortizzatori sociali per creare le condizioni di accompagnamento del lavoratore in uscita; investendo in formazione. Solo l’accrescimento del capitale umano può impedire una precarizzazione sistematica o, peggio, l’esclusione di una parte della società.

Precarizzazione ed esclusione quali sarebbero invece inevitabili, qualora si affermassero i referendum promossi dalla Lista Bonino, che modificando in modo drastico il corretto equilibrio delle relazioni tra impresa e lavoro, finirebbero col rendere preponderanti, fino all’arbitrio, i poteri dell’impresa e col togliere al lavoro – e alla sicurezza sul lavoro – essenziali strumenti di garanzia e tutela. Così come finirebbero per abbattere pilastri fondamentali del welfare pubblico, come pensioni e sanità.

Ma la "certezza", nella società di oggi, nasce prima di tutto dalla padronanza di sé, dall’accesso al sapere, dalla capacità di imparare e di aggiornarsi: dalla centralità dei sistemi di formazione. Né bisogna credere che l’aumento dell’area dei lavori flessibili anticipi la scomparsa dei contratti di lungo periodo sul mercato del lavoro. Ci si avvia verso un nuovo dualismo in cui le diverse tipologie contrattuali e diversi momenti formativi conviveranno e forniranno a lavoratrici e lavoratori percorsi e occasioni di crescita nell’arco della vita.

3.7. E la "certezza", in una società così aperta, nasce anche da un nuovo welfare, un welfare di "accompagnamento". La scommessa della riforma del welfare sta tutta qui: la maggiore flessibilità del lavoro non deve diventare insicurezza nella vita, il welfare non deve divenire residuale.

E’ in questa prospettiva che va inquadrato il problema previdenza. Le riforme di questi anni, grazie al contributo decisivo del sindacato e della sinistra, hanno sostanzialmente riallineato la spesa previdenziale. Resta il problema della cosiddetta "gobba", la prevista impennata della spesa dopo il 2005. E resta soprattutto l’emergenza rappresentata dai lavori parasubordinati, flessibili, giovani: milioni di posizioni lavorative non adeguatamente tutelate. E’ quindi necessario ed urgente da un lato riportare il sistema previdenziale italiano all’equità, eliminando distorsioni, disparità di trattamento, privilegi; dall’altro riequilibrarlo e ampliarlo, per renderlo efficace con le fasce meno o per nulla tutelate: generalizzando il ricorso al sistema contributivo pro rata, smobilizzando i flussi maturandi di tfr verso forme più remunerative di risparmio per la previdenza integrativa, estendendo la copertura previdenziale dei parasubordinati.

Ma welfare, oggi, è soprattutto istruzione, sanità, servizi, casa. Un sistema di cittadinanza comune. Esso va esteso rapidamente – come ha cominciato a fare la nuova legge sull’immigrazione – alle centinaia di migliaia di lavoratori immigrati. Intendiamo elevare significativamente la spesa sociale nei prossimi anni per i grandi obiettivi universali (istruzione, sanità, servizi), con una particolare attenzione alle fasce più deboli della popolazione, quelle che si trovano o sono esposte al rischio della povertà.

Intendiamo riconoscere nella riforma della società italiana un ruolo strategico al settore no-profit, al volontariato, all’impresa sociale e a tutte le forme di autonomia e di sussidiarietà che, fuori dalle pesantezze del vecchio assistenzialismo, garantiscono prestazioni e diritti sociali per tutti. Così come intendiamo riconoscere un ruolo centrale alla famiglia, come presidio insostituibile della coesione sociale: la famiglia, nella pluralità di forme che essa ha assunto nella società di oggi, non è solo il luogo primario della formazione e della evoluzione – dialogica e conflittuale – dei valori morali e civili; è anche lo strumento primo di gestione dei bisogni delle persone. La famiglia va aiutata a svolgere queste sue funzioni, attraverso adeguate forme di sostegno da parte di un welfare ripensato e rinnovato: a cominciare da nuove politiche del tempo, in particolare a favore delle donne, ma più generalmente orientate a rendere possibile l’armonizzazione tra le esigenze produttive e quelle di riproduzione e di cura. Intendiamo continuare a batterci per il riconoscimento del ruolo delle donne, perché pensiamo che dalle donne possa emergere la spinta necessaria per l’apertura della società, per l’ampliamento delle opportunità, per una migliore qualità dell’organizzazione sociale.

3.8. Nei cinquecento giorni che abbiamo di fronte, nell’ambito del programma di governo e dei cantieri imponenti di riforma che si sono aperti e che si stanno aprendo, sentiamo di dover rispondere soprattutto ad una grande domanda di futuro. Ciò vuol dire concentrare le nostre energie in particolare attorno a due grandi temi: quello dei giovani e quello della sicurezza.

Pensiamo ad un’azione di governo per le giovani generazioni, volta a liberare il loro avvenire dai troppi ostacoli che ne compromettono o ne limitano le enormi potenzialità: l’ostacolo formativo, perché il diritto all’istruzione è ancora troppo basso; l’ostacolo delle differenze territoriali, tra chi è giovane dove c’è piena occupazione e chi è destinato al precariato o all’emigrazione; l’ostacolo del mercato del lavoro, o troppo rigido e chiuso o troppo selvaggio e senza regole; l’ostacolo del servizio militare obbligatorio; l’ostacolo dell’assenza di un welfare per i giovani (casa, previdenza, politiche sociali, servizio civile, spazi culturali e musicali), l’ostacolo delle caste e delle corporazioni, della chiusura del sistema istituzionale e politico.

Le giovani generazioni pongono al Paese una grande domanda di libertà, della quale la sinistra deve farsi carico. Quello della libertà è un valore troppo grande perché si possa pensare di regalarlo al Polo. E’ la sinistra, il centro-sinistra il soggetto politico che può e vuole conquistare più libertà per la società italiana. Più libertà di intraprendere, di creare, di lavorare. Più libertà dalle burocrazie, dai centralismi, dai monopoli, dalle rendite di posizione, dai potentati consolidati. Più libertà come autonomia, pluralismo, autodeterminazione delle persone e responsabilità delle coscienze, in tutti i campi del vivere associato, da quello economico alla sfera sessuale.

3.9. Domanda di futuro vuol dire domanda di sicurezza. Molta gente vive nell’insicurezza e nella paura, anche se i dati della criminalità ci rappresentano una situazione difficile ma migliore di altre grandi nazioni.

La nuova criminalità è prima di tutto il frutto dell’assenza di regole e della crisi di forti sistemi di coesione sociale. La nuova destra – che propugna a parole solo la repressione penale – con la sua ideologia di deregolamentazione e di attenzione ai più forti alimenta l’insicurezza e i fenomeni criminali.

Respingiamo nel modo più netto la tesi, chiaramente strumentale, secondo cui la disattenzione nei confronti della criminalità diffusa sarebbe il frutto di un eccesso di attenzione verso la lotta alla corruzione o quella alla mafia. Tesi inspiegabile: una banda criminale in una città non si sarebbe fermata, se Totò Riina non fosse stato arrestato.

Anzi: l’Italia ha acquisito – su questi due terreni – un patrimonio importante, all’avanguardia nei paesi avanzati. L’Italia del ‘92, del ‘93, del ‘94 era l’Italia dell’assassinio di Falcone e di Borsellino, delle bombe a Milano, Firenze e Roma, delle grandi inchieste sulla corruzione, dei tentativi espliciti – come quelli condotti dal governo Berlusconi – di limitare i controlli di legalità. Non permetteremo che si torni indietro. La riforma della giustizia – e la piena promozione delle garanzie dell’individuo nel processo civile e in quello penale – sono nel nostro codice genetico, rispetto alla tradizione inquisitoria e illiberale del sistema italiano. Così combattiamo la mistificazione di chi si dice garantista quando si tratta di forti ed è giustizialista quando si tratta di deboli. E tra queste garanzie vi sono prima di tutto quelle di non vivere sotto il dominio della mafia, e di combattere sistematicamente ogni tentativo di limitare l’esercizio dei diritti fondamentali della persona e una vera competizione nel mercato (lotta al racket, all’usura, al condizionamento negli appalti).

Ciò non significa, d’altro canto, che non sia necessario un supplemento di attenzione e di impegno sul fronte della lotta alla criminalità diffusa: lo spaccio della droga, la massiccia prostituzione su strada, i piccoli furti, gli scippi e le rapine. Si tratta di fenomeni che colpiscono soprattutto i più deboli: i bambini, gli anziani, le donne, i ceti popolari in genere, negando diritti elementari e minando in modo talvolta grave la qualità della vita e la tenuta del tessuto sociale, in particolare delle aree urbane.

L’insicurezza produce ingiustizia e alimenta l’intolleranza, la diffidenza, l’aggressività.

Perciò lavoriamo, sulla base dell’esperienza positiva di riforma e di innovazione condotta in questi anni, per una svolta nelle politiche di sicurezza, nella direzione di un migliore coordinamento delle forze dell’ordine, di una valorizzazione della professionalità degli operatori, di nuove norme penali contro la criminalità diffusa, di una maggiore certezza della pena, ma anche di politiche di mediazione sociale e civile nel territorio e nelle scuole, di piani di risanamento urbano delle periferie e delle aree degradate e di aiuto e assistenza alle vittime dei reati.

3.10. La riqualificazione delle aree urbane è a sua volta aspetto essenziale di una più complessiva politica in favore dell’ambiente e del territorio. Nei cinquecento giorni che mancano alla fine della legislatura, c’è da legare in modo più stretto politiche ambientali e politiche fiscali, proseguendo lungo la rotta tracciata dall’istituzione della "carbon tax". C’è da rilanciare un’iniziativa del governo e delle amministrazioni locali per il riassetto del territorio, in particolare quello a più alto rischio idrogeologico, per la tutela del paesaggio e del patrimonio naturalistico, per la pianificazione urbanistica. C’è da mettere in campo una strategia di sviluppo ambientale, una progettazione del valore aggiunto estetico che la nostra generazione intende lasciare in eredità a quelle che seguiranno.

4. Una "buona politica" e un grande Ulivo…

4.1. Il rovesciamento del tentativo di riforma delle istituzioni promosso dalla Bicamerale ha accentuato la crisi della politica. Nei prossimi cinquecento giorni è assai difficile, a causa degli interessi di Berlusconi in gioco, pensare che quel cammino possa riprendere. Noi, tuttavia, insistiamo, per il bene del Paese. Vogliamo affermare l’idea, propria di una democrazia dell’alternanza, che sia possibile far convivere, alla luce del sole, la convergenza sulle regole e l’antagonismo politico più severo, rifiutando il ricatto neoconsociativo di Berlusconi.

E’ il tempo di ritrovare quella sana voglia di animare un franco, sereno, deciso confronto politico, programmatico, ideale e di valori con la destra italiana. Un confronto senza colpi bassi, senza le volgarità a cui una certa polemica politica è abituata. Un confronto sulle scelte politiche e sui comportamenti parlamentari. Questa è la politica nuova per cui ci battiamo. Questa concezione della politica è ossigeno per la democrazia.

Dopo l’elezione diretta dei presidenti delle Regioni, attorno alla riforma federalistica – volta a governare le profonde differenze che ci sono tra le aree del Paese, e col necessario grado di asimmetria – si possono gettare le basi di un nuovo rapporto di fiducia tra i cittadini e le istituzioni. Al fondo, avanziamo una nuova idea di autogoverno locale e di crescita degli spazi di libertà e di autonomia per la società.

Allo stesso modo collochiamo la lotta per sburocratizzare le istituzioni e le amministrazioni del nostro Paese, per ridurre significativamente quei quindici giorni persi ogni anno dal cittadino nella lotta contro la burocrazia.

Il secondo versante di riforma delle regole nei prossimi mesi è quello di una nuova disciplina della "par condicio", di una più stringente regolazione del conflitto di interessi, di modalità più soddisfacenti ed eque di finanziamento pubblico della politica. Non si tratta di riforme contro i nostri avversari: si tratta di garantire, specie alla vigilia delle regionali e delle politiche, effettiva parità di condizioni nella competizione bipolare; e di affermare – dopo Tangentopoli e troppi privilegi o abusi del potere politico – l’assoluta separazione tra la tutela dei propri interessi personali o patrimoniali e la responsabilità pubblica.

4.2. Ma l’obiettivo di una democrazia competitiva di stampo europeo è messo a rischio per l’Italia soprattutto dall’attuale configurazione del sistema politico. E ciò malgrado il fatto che sempre di più, nella coscienza dei cittadini, il bipolarismo si affermi come valore, in quanto modello di democrazia che comporta scelte nette, fuori da ogni trasformismo.

Nei Comuni, nelle Province e ora, con l’elezione diretta dei Presidenti, nelle Regioni, bipolarismo vuol dire stabilità e chiarezza nelle scelte. Ma la stabilità dei governi nazionali, come si è visto, non è ancora una certezza. Noi vogliamo che chi vince le elezioni possa governare per cinque anni e rispondere del suo operato alla fine della legislatura. L’attuale legge elettorale non garantisce questo obiettivo. L’Italia dell’Euro e delle nuove sfide non può permettersi di votare nel 2001 col sistema attuale, che non è in grado di assicurare governi stabili e maggioranze coese.

La nuova legge elettorale deve garantire stabilità e coesione, senza negare il diritto alla rappresentanza di chi non intende coalizzarsi. La soluzione migliore è quella del doppio turno col collegio uninominale maggioritario e con un diritto di tribuna. Siamo aperti al confronto anche con altre proposte, che tuttavia contengano più elementi di maggioritario rispetto alla legge attuale (escludiamo nel modo più netto il ritorno al proporzionale, anche con sbarramenti elevati) e che garantiscano la chiarezza nella scelta dell’elettore.

Vogliamo produrre in Parlamento questo risultato. Faremo di tutto. Se si dovesse giungere senza riforme al referendum sulla legge elettorale, non potremo che confermare la scelta dell’aprile scorso, quando 21 milioni di italiani votarono per il maggioritario, e tra questi il 72% dei nostri elettori. Il popolo della sinistra sente come sua la sfida bipolare e maggioritaria, e non si appassiona più per una politica ridotta a mera testimonianza di identità.

4.3. Le democrazie europee, caratterizzate da una tensione irriducibile al superamento delle disuguaglianze e alla inclusione, non possono non porsi il problema dell’accesso delle donne alla politica. Dopo un secolo di emancipazione e di protagonismo sociale e spesso anche politico, in Italia dopo cinquant’anni dall’acquisizione del voto, la presenza politica delle donne è ancora troppo debole. La rappresentanza è ancora un dominio maschile. Il risultato è uno scacco della democrazia, nella quale più di metà della popolazione resta di fatto esclusa dalla rappresentanza. Non si tratta dunque di un tema che riguarda solo il ceto politico femminile: non è una questione di posti. E’ una questione che riguarda il cuore della nostra democrazia, la sua capacità di includere e di promuovere, di dare opportunità a tutti. Intendiamo sostenere la proposta del gruppo Ds alla Camera di modifica dell’articolo 51 della Costituzione: una proposta che apre la possibilità di mettere in campo azioni positive per promuovere l’accesso delle donne alla rappresentanza

4.4. E’ anche dall’evoluzione del sistema elettorale che dipenderà l’assetto definitivo del sistema politico italiano. Se infatti scomparirà la quota proporzionale, si accelererà inevitabilmente una nuova, compiuta stagione del bipolarismo.

Ciò vuol dire che le grandi e profonde ragioni della sinistra sono connesse a un problema di tecnica elettorale? Tutt’altro. Quelle ragioni, nel contesto italiano, possono e debbono vivere in una più grande casa del riformismo. Occorre del resto dirlo con chiarezza: è sbagliato pensare che la pluralità di culture politiche debba per forza generare o essere espressa da decine di partiti. Anche il bipolarismo e persino il bipartitismo (che in Italia non è alle porte) necessitano al loro interno di dialettica e di pluralità politica. Ma non possiamo pensare di affidare le sorti dell’impresa avviata dal centro-sinistra in questi anni, a un’idea debole di coalizione, come sommatoria spesso litigiosa di partiti.

Contrapporre l’idea della sinistra a quella dell’Ulivo è stato ed è un errore esiziale: fa perdere la sinistra e l’Ulivo. Non esistono del resto scorciatoie. No: il nuovo Ulivo, il grande Ulivo nasce solo da una battaglia politica e ideale, che spinga tutti a fare un passo indietro rispetto al territorio conquistato, in nome di un’idea comune, attorno alla quale diffondere motivazione ed entusiasmo. Noi intendiamo condurre questa battaglia. Promuovendo una nuova costituente dell’Ulivo, sia attraverso l’Ulivo dei territori – nelle coalizioni delle quindici regioni che votano a marzo – sia attraverso l’Ulivo degli eletti.

Al centro di quest’idea – un soggetto politico, non un partito – c’è la scommessa di un incontro permanente tra le diverse tradizioni e culture del riformismo italiano. E’ un’idea non più solo italiana. Di centrosinistra c’è bisogno in Europa, per reggere il confronto tendenzialmente bipolare col Ppe, che è ormai diventato un contenitore politico del centrodestra. Non sappiamo se le componenti di centrosinistra nel Ppe e quelle presenti nel gruppo liberale saranno disponibili a costruire una casa più grande dei socialisti e dei democratici europei. Noi coltiviamo la prospettiva di un’aggregazione più grande dei riformismi, saldamente ancorata al Partito del socialismo europeo e all’Internazionale socialista. In ogni caso, la situazione europea, in rapido mutamento, deve essere per noi un’ulteriore ragione per sperimentare in Italia scelte coraggiose per vincere le sfide del 2000 e del 2001.

Sinistra riformista, ambientalismo, centro democratico sono culture ed esperienze che hanno bisogno l’una delle altre. Guai a pensare a nuovi fronti progressisti, o a contrapporre l’identità dei moderati a quella della sinistra.

E’ l’Ulivo il futuro dell’Italia:

  • uniamoci per sostenere la riforma elettorale e per rafforzare il maggioritario; l’Ulivo diventerà il simbolo unico e permanente delle competizioni politiche, casa della società civile riformista;
  • costituiamo i gruppi parlamentari dell’Ulivo, cominciando con il coordinamento, in modo permanente, di quelli del nuovo centrosinistra;
  • diamo vita a coordinamenti stabili degli eletti a tutti i livelli, a gruppi tematici e a forme di comunicazione integrate e unitarie;
  • definiamo uno statuto comune che stabilisca le regole chiare e trasparenti per la scelta delle candidature di coalizione.

4.5. Il grande Ulivo può coincidere con lo spazio politico delle formazioni di centrosinistra che sostengono il governo D’Alema e deve ulteriormente allargarsi ed estendersi nella società italiana. E’ possibile che, lungo il cammino dei prossimi mesi, qualche forza non accetti questa sfida. Si può pensare ad alleanze con forze esterne all’Ulivo, ma solo a condizione della massima chiarezza sui programmi e sui contenuti.

Ciò vale anche per i rapporti con Rifondazione comunista. La cesura dell’ottobre del ‘98 è stata netta e la ferita non è rimarginata. Ci auguriamo che maturino in quel partito orientamenti e programmi nuovi. Siamo interessati, in questo quadro, a nuovi rapporti di dialogo a sinistra, più distesi, che favoriscano forme di collaborazione (nei territori, nei movimenti, nella società). Ma oggi non è all’ordine del giorno un’alleanza elettorale: essa può scaturire solo da una chiara e solida intesa politica e programmatica col centrosinistra.

5. …in cui viva una grande sinistra

5.1. Un grande Ulivo in cui viva una grande sinistra è una sorta di doppia appartenenza. L’Ulivo è la dimensione del governo, della rappresentanza, del riformismo; la sinistra quella dell’Europa, del mondo, dei diritti sociali e umani, dei valori. Questa doppia appartenenza è una duplice dimensione della medesima identità. La "svolta" dell’89 mise in relazione, in modo fecondo, il rinnovamento della sinistra e il disegno di una grande alleanza delle diverse culture del riformismo italiano. In questo decennio si è sbagliato quando si è messo l’accento solo sul primo aspetto – il nostro cambiamento come condizione sufficiente per sbloccare il sistema italiano, con una presunzione di autosufficienza che rientrava dalla finestra – o solo sul secondo – una politica di alleanze intesa in senso classico. L’Ulivo, senza la sinistra, perde. La sinistra, senza l’Ulivo, perde. L’Ulivo con la sinistra vince.

Alle centinaia di migliaia di uomini e donne che sono iscritti ai Ds e ai milioni che li votano, diciamo quindi che la nostra è il contrario di un’idea passeggera ed effimera della sinistra. Le ragioni della sinistra non dipendono da decisioni soggettive, ma da un mondo che reclama una funzione di giustizia, di regolazione, di sviluppo democratico, di equità globale, di promozione dei diritti umani. A loro, tuttavia, diciamo che è giunto il momento di impegnarsi per costruire davvero uno spazio politico più grande, nel quale la sinistra – una grande sinistra – possa valere e vivere.

5.2. Col Congresso costituiamo, in modo compiuto, i Ds. Nella sinistra riformista già vivono insieme – e si debbono poter esprimere in forma piena ed espansiva – gran parte delle culture riformiste dell’Ulivo. Non si tratta dunque di ritagliare, nell’Ulivo, lo spazio per una socialdemocrazia classica, o per le identità di tanti "ex". Ma di costruire, nella pratica politica di un partito federativo, elementi e componenti della più grande casa dei riformisti. Il mutamento del simbolo è uno dei risultati positivi di questa ispirazione. Al contrario, la sistematica ricerca e promozione identitaria, in senso proporzionalistico, di ogni spezzone del riformismo italiano, ha dato fragilità alla coalizione. La sinistra riformista deve far vivere nella società, come bene comune, le culture del riformismo, del socialismo e del laburismo, quelle del cristianesimo sociale, quelle della sinistra radicale e dei movimenti dell’ambientalismo e delle donne e quella liberaldemocratica, laica, azionista, repubblicana.

5.3. Allo stesso modo non dobbiamo escludere che – col progetto del grande Ulivo – si possano creare le condizioni di una sinistra più ampia, oltre i suoi confini. Non intendiamo fare proposte di fusione a nessuno. Rispettiamo autonomie e identità. Ma ha senso pensare che coloro che sono stati, sono e si sentono tra loro più vicini – per attenzione ai problemi sociali e del lavoro, per concezione della legalità e della trasparenza, per sensibilità ai problemi dell’ambiente, dei diritti umani, della pace – coloro che si sentono di far parte della nuova sinistra che con le sue diverse culture si è affermata in Europa, possano lavorare, nella casa comune dei riformisti, vicino, insieme, uniti.

Siamo davvero tornati in mare aperto. Il vecchio cielo di stelle fisse – le certezze della politica e quelle della sinistra di una volta – non è sufficiente a guidare la nostra azione. Ma il grande popolo che a noi guarda direttamente deve sapere di contare, oltreché sul nostro ruolo di governo, su due certezze. La prima è la sinistra dei valori: e cioè un’agenda e un programma del partito costruito non sul calendario istituzionale, ma sull’agenda della società e del mondo. Tutto ciò impone la scelta di un partito che fa campagne, che realizza progetti, che vive e fa vivere in modo caldo e appassionato i problemi di oggi e di domani. La seconda certezza è quella di un luogo democratico, aperto, oltre i vecchi modelli burocratici, ma anche qualcosa di diverso da una tribuna in cui assistere allo spettacolo celebrativo di un leader, o allo scontro fra gruppi dirigenti lontani.

Intendiamo liberare il partito, ad ogni livello, da incrostazioni, burocratizzazioni, lacci e dinamiche che lo bloccano e lo frenano. In tal senso, questo dev’essere un Congresso di svolta. Siamo noi, spesso, i peggiori avversari di noi stessi. Facciamo tutti tesoro, mandandola a memoria, della dura lezione che gli elettori hanno voluto farci giungere a giugno. Basta con l’arroganza, con le illusioni di autosufficienza, con le ambizioni personali che fanno perdere il senso del disegno comune, con le tentazioni egemoniche. Basta con l’illusione che possano esserci rendite di posizione garantite per sempre. Basta con le rigidità nei processi di incontro con le nuove culture dei Ds. C’è una nuova etica della politica, una nuova religione civile, che dobbiamo saper affermare al di là delle norme statutarie, nella prassi, anche come esempio di fronte alla società. Un’idea di abnegazione, di missione, di servizio. Uno stile di pensiero e di vita, di onestà e disinteresse pesonale, e un’idea di partito e di politica, antica e nuova. Dobbiamo far vivere, prima di tutto nel partito, l’idea di una buona politica.

5.4. Riaffermiamo la nostra convinzione circa la necessità dei partiti nel sistema democratico. Ma la condizione per salvare e rinnovare il ruolo e la funzione democratica dei partiti è quella di restituirli alla società, di non temere di aprirli e di rinnovarli, se necessario radicalmente. La società che si affaccia al Duemila, anche sotto questo profilo, è radicalmente mutata rispetto all’epoca in cui videro la luce le prime organizzazioni politiche di massa. La società nostra è una società adulta, che non ha più bisogno di essere guidata e orientata. Una società nella quale le forme di cittadinanza attiva si diffondono e si moltiplicano. Una società plurale e strutturata, capace di produrre autonoma consapevolezza politica. Una società che non è un corpo omogeneo, ma un campo di forze e tensioni talora opposte e divaricate, ciascuna delle quali tende a produrre rappresentanza politica.

In questo contesto, la sinistra deve abbandonare ogni presunzione pedagogica nei confronti della società e deve, allo stesso tempo, evitare l’errore di considerare la società civile come un’entità omogenea, contrapposta alla politica. La politica è parte della società e parti diverse della società esprimono visioni e proposte politiche diverse.

La sinistra del Duemila è dunque una sinistra che sa di essere una parte della società che si rappresenta politicamente nelle istituzioni; e che sa che questa duplice dimensione, insieme sociale e politica, determina una complessità irriducibile e produce inevitabilmente tensioni e conflitti, che non solo non vanno temuti, ma vanno considerati uno dei frutti più maturi della crescita democratica e civile. La sinistra del Duemila è anche una sinistra che ha maturato una concezione della politica consapevole dei limiti della politica stessa, limiti che vanno tanto più gelosamente presidiati quando la politica abbia a che fare con complesse e delicate questioni etiche, come quelle che riguardano la vita umana, il nascere e il morire: temi sui quali la politica – e l’attività legislativa in specie – deve consapevolmente fare i conti con la realtà del pluralismo etico, dal quale deve sforzarsi di decifrare, in modo circospetto e discreto, rispettoso dell’irriducibile libertà delle coscienze, i tratti di un’etica civile condivisa.

5.5. In una società adulta, può vivere solo un modello di partito rinnovato e riformato, abitabile per le donne, aperto al loro talento e al loro coraggio; abitabile per le ragazze e per i ragazzi di oggi, aperto alla loro fantasia politica e progettuale; abitato da una nuova generazione di dirigenti, selezionati ed eletti sulla base di un appassionato confronto politico e ideale. Per questo il nuovo statuto dei Ds deve affermare con chiarezza precisi princìpi democratici e partecipativi:

  • i diritti degli iscritti, ad essere informati, coinvolti, protagonisti, anche attraverso consultazioni e referendum;
  • la valorizzazione del protagonismo delle donne, anche attraverso azioni positive nella selezione dei dirigenti e dei candidati;
  • l’elezione diretta del segretario da parte degli iscritti, sulla base di una piattaforma politica congressuale;
  • la conferenza annuale, all’inizio dell’autunno, per decidere politiche e programmi di ogni stagione;
  • una struttura a rete, nella quale le sezioni siano valorizzate come centri autonomi di iniziativa territoriale e tematica, attraverso un principio federativo;
  • la scelta federalistica, anche con l’elezione del 50% della Direzione da parte dei Congressi regionali;
  • il rafforzamento delle associazioni tematiche, con un’idea di militanza parziale attorno a temi;
  • le società di cultura e le fondazioni, come strumenti di valorizzazione delle tendenze del riformismo;
  • il potenziamento delle feste dell’Unità e di altre forme di partecipazione politico-culturale;
  • l’attività permanente e trasparente per raccogliere fondi;
  • la delega all’Ulivo nella selezione democratica delle candidature e procedure democratiche chiare per la selezione di candidature in cui c’è il simbolo dei DS.

5.6. Dalla qualità del dibattito del prossimo congresso dei Ds dipenderà non poca parte del futuro della sinistra e dell’Ulivo nel nostro Paese. A sua volta, la qualità del dibattito dipenderà, forse in modo decisivo, da qualcosa di non scritto, dallo stile e dal clima, intellettuale e morale, civile e democratico, col quale terremo il congresso. Un clima e uno stile che saranno essi stessi un messaggio. E dovranno essere il messaggio che c’è in campo una sinistra nuova, aperta e plurale, che si sente parte di una coalizione più grande, che è al lavoro per fare dell’Italia un Paese più europeo, più moderno, più giusto, più libero, più sicuro. Una sinistra che riesce a mostrare, attraverso il dibattito che la coinvolge, quell’idea alta e nobile e insieme umile e concreta della politica, che è l’unica via sulla quale si può incontrare la fiducia e il consenso delle donne e degli uomini, delle ragazze e dei ragazzi dell’Italia del Duemila.



Il futuro ha radici antiche