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Si vince solo con l'Ulivo Care compagne, cari compagni, siamo arrivati qui, da tutta Italia, per ritrovarci, per sentirci uniti, per gustare il buon sapore dello stare insieme. Lo facciamo tutti gli anni, da tanti anni. E come tutti gli anni ciò è possibile, in primo luogo, grazie alle energie e alla passione di chi intende in questo modo l’impegno politico. Grazie al lavoro, volontario e disinteressato, di compagne e compagni che spendono il loro tempo, spesso un bel pezzo delle loro ferie, per consentire a tutti noi di essere qui. Il nostro primo ringraziamento va a loro. A chi è qui e a tutti coloro che anche in questo momento continuano a lavorare nei tanti stand di questa bella festa di Modena. E, attraverso di loro, alle donne e agli uomini che in tutta Italia hanno fatto vivere anche quest’anno le migliaia di feste dedicate - non dimentichiamolo mai - al nostro giornale. Grazie. Quest'anno, però, è un anno particolare: è l'ultimo del Novecento. La prossima festa nazionale sarà la festa del Duemila. Siamo nel pieno di un passaggio storico di grande impatto simbolico. Un passaggio storico che ci obbliga a porci una domanda difficile, dura, radicale: ci sarà ancora bisogno della sinistra, nel Duemila? O i valori e le ragioni per le quali la sinistra si è battuta in questo secolo, sono valori nobili, ma legati ad un mondo che finisce? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo farcene un'altra: cosa significa, oggi, la parola "sinistra"? E’ anch'essa una parola ormai logora, destinata a morire col secolo che se ne va, perché in fondo, ormai, tra "destra" e "sinistra" non c'è più nessuna differenza? Per rispondere, vorrei partire dalle parole di un grande maestro di tutti noi, Norberto Bobbio: "La ragione fondamentale - dice Bobbio - per cui in alcune epoche della mia vita ho avuto qualche interesse per la politica, è sempre stato il disagio di fronte allo spettacolo delle enormi diseguaglianze, tanto sproporzionate quanto ingiustificate, tra ricchi e poveri, tra chi sta in alto e chi sta in basso, tra chi possiede potere e chi non ne ha". Questa, care compagne e cari compagni, è in fondo la sinistra: lottare per le pari opportunità tra gli esseri umani, combattere contro le ingiustizie, la povertà, l'oppressione. Se questa è la sinistra - e questa per noi "è" la sinistra - è, davvero, qualcosa di ben diverso dalla destra. E se questa è la sinistra, di sinistra c'è ancora grande bisogno, anche nel mondo del Duemila. Perché il Novecento si chiude con un mondo in cui convivono grandi speranze e grandi tragedie. Noi non dobbiamo mai demonizzare i processi di globalizzazione dell'economia e della società che segnano questa fine secolo. Noi sappiamo che l'apertura dei mercati rappresenta una straordinaria opportunità di crescita e di sviluppo per molti paesi nuovi. Sappiamo che la liberalizzazione dei movimenti di capitali ha determinato anche ingenti afflussi di risparmio dai paesi ricchi ai paesi poveri favorendone la crescita. Resta il fatto che ancora oggi la stragrande maggioranza della popolazione mondiale è esclusa o partecipa in modo marginale dei benefici dello sviluppo. E, allo stesso tempo, il 20 per cento dell'umanità controlla l'86 per cento di tutta la ricchezza del pianeta. Le 225 persone più ricche del mondo possiedono, messe insieme, mille miliardi di dollari, quasi due milioni di miliardi di lire. Una cifra che è quasi il reddito annuale dell'Italia, ma anche il reddito annuale del 47 per cento più povero della popolazione mondiale. Ciò significa che 225 abitanti della terra dispongono di una quantità di ricchezza pari a quella di 57 milioni di italiani. Ma anche che 57 milioni di italiani dispongono della stessa ricchezza che devono dividersi tra loro 2 miliardi e mezzo di persone del Terzo e del Quarto Mondo. Questa è la silenziosa guerra moderna, la principale tragedia dell’umanità, anche questo è il mondo che esce dal Novecento e si affaccia al Duemila. Un mondo in cui 1 miliardo e 300 milioni di persone vivono nella povertà assoluta, con meno di duemila lire al giorno, e 800 milioni di questi nostri simili soffrono la fame. Un mondo in cui 1 miliardo e 200 milioni di esseri umani non dispongono di acqua pulita. Un mondo in cui 1 miliardo e 600 milioni sono analfabeti; in cui 2 miliardi di individui non hanno accesso all'energia elettrica. Un mondo in cui ogni bambino che nasce nei nostri paesi industrializzati aggiunge di più al consumo e all'inquinamento nel corso della sua vita di quanto facciano 50 bambini nati nei paesi in via di sviluppo. All'inizio di agosto, all'aeroporto di Bruxelles, in mezzo a milioni di turisti che andavano e venivano, che partivano per le vacanze, due ragazzi africani di 14 e 15 anni, Yaguine Koita e Fode Tounkara, sono stati trovati morti assiderati nel vano del carrello di un aereo proveniente dalla Guinea. In tasca ad uno di loro c'era una lettera, indirizzata "ai governanti d'Europa". "Se vedete che ci sacrifichiamo e che mettiamo a rischio la nostra vita - scrivevano i due ragazzi - è perché in Africa si soffre troppo... abbiamo la guerra, le malattie, la mancanza di cibo, carenza di educazione e di istruzione... noi vogliamo studiare e vi chiediamo di aiutarci a studiare per essere come voi...". A questo, care compagne e cari compagni, deve servire la sinistra, nel Duemila. A non lasciare senza risposta la lettera di Yaguine e Fode. A non lasciare senza speranza i milioni di ragazzi come loro. Noi, la sinistra, non diciamo queste cose perché siamo anime belle, idealisti o sognatori. Può forse essere considerato un sognatore il presidente della Banca mondiale quando dice: "la riforma delle pensioni è un tema sicuramente importante per l’Europa e merita di essere affrontato, ma in testa all’agenda europea e statunitense ritengo via sia la soluzione del problema dei Paesi più poveri"? Noi diciamo queste cose, allora, perché siamo convinti che l'umanità non ha alternative, che i problemi degli esclusi, dei paesi poveri, ci toccano, ci riguardano, ci coinvolgono, che lo vogliamo o no. "Che ce ne rendiamo conto o no - disse una volta, in uno dei suoi splendidi sermoni, Martin Luther King - ciascuno di noi è sempre in debito: noi siamo eternamente debitori nei confronti di uomini e donne conosciuti e sconosciuti... In un senso reale, tutta la vita è interdipendente. Tutti gli uomini sono presi in una inestricabile rete di reciprocità, legati in un unico tessuto di destino. Qualsiasi cosa tocchi direttamente uno, tocca indirettamente tutti". Abbiamo capito con l'immigrazione, con le migliaia di disperati che arrivano qui da noi, quanto siano vere le parole di Martin Luther King. Il mondo è sempre più piccolo, care compagne e cari compagni, e non ci saranno mai muri abbastanza alti e fili spinati abbastanza robusti per tenere lontano dai paesi ricchi la disperazione e la rabbia dei poveri. La sinistra del Duemila ha allora questo grande compito, insieme morale e politico: ridurre la povertà, accorciare le distanze, ridimensionare le disuguaglianze, favorire la crescita, lo sviluppo, creare opportunità. E noi, tutti noi, in una politica che si fa sempre più piccola e più asfissiante, paradosso insostenibile in un mondo sempre più globalizzato, dobbiamo ritrovare la voglia di pensare in grande, di gettare lo sguardo oltre i confini di casa nostra, di costruire un "nuovo internazionalismo": quello della lotta alla fame e alla povertà, quello dei diritti civili e umani. Noi Democratici di sinistra abbiamo preso un impegno, nei mesi scorsi, e intendiamo onorarlo. Il Duemila, l'anno del Grande Giubileo, deve essere anche l'anno di un drastico abbattimento del debito dei paesi poveri, nei confronti dell'Italia e dei paesi ricchi in generale. Il nostro impegno ha prodotto un primo risultato importante. Il governo italiano ha assunto la nostra proposta e l'ha portata al vertice dei paesi industrializzati a Colonia, nella scorsa primavera. Il G7 ha accolto la proposta italiana e si è impegnato a cancellare i crediti che i paesi ricchi vantano nei riguardi di quelli più poveri, quelli che hanno un reddito medio pro-capite inferiore ai 300 dollari l'anno. Noi vigileremo e manterremo forte la pressione sui governi, perché all'impegno politico, solennemente assunto a Colonia, seguano i fatti. E perché il condono del debito liberi risorse per lo sviluppo economico e civile dei popoli e non per le iniziative militari o poliziesche di regimi spesso dittatoriali. Non dobbiamo infatti dimenticare che alla disuguaglianza nella distribuzione dei beni materiali si aggiunge quasi sempre, nel mondo che sta entrando nel Duemila, una disuguaglianza nell'accesso al bene immateriale per eccellenza: la libertà. Non dobbiamo dimenticare che popoli della fame, della miseria, del sottosviluppo, sono in genere anche i popoli delle dittature, dei regimi di polizia, della sistematica violazione dei diritti dell'uomo. Sono vere, a questo proposito, le parole di chi ha detto che "la povertà determina nella società una condizione che nega non solo alcuni, ma proprio tutti i diritti umani. Il povero non conosce diritti, e questo a prescindere dalle belle parole dei libri o da quello che i governi scrivono sulla carta". Sono le parole di Muhammad Yunus, contenute nel libro che parla di lui, della sua storia e della gente più povera di uno dei paesi più poveri del mondo, il Bangladesh, il suo paese. Yunus è stato definito il "banchiere dei poveri", perché la sua banca è nata per concedere crediti, senza garanzia e di fronte a un progetto minimo, a chi non possiede nulla se non la propria fantasia e la propria intelligenza. A quarantadue famiglie del villaggio di Jobra, ormai ridotte alla fame, sono bastati ventisette dollari - così è cominciata questa impresa, con ventisette dollari - per comprare da sole le materie prime che servivano a confezionare i loro prodotti e fuggire dalle mani degli usurai che annullavano ogni loro possibilità di guadagno. E così è stato anche per Amina Ammajan, vedova, madre di due figlie, costretta a mendicare. Amina era affamata, disperata e senza prospettive quando incontrò la Banca Grameen e ottenne un piccolo prestito. Con quel denaro poté fabbricare panieri di bambù, e comperare una mucca, che le forniva il latte dalla cui vendita ricavava quanto le serviva per rimborsare il debito; dopo un anno e mezzo, la mucca le diede un vitello. Oggi sua figlia possiede la casa, un piccolo pezzo di terra e del bestiame. Non è ricca, ma vive dignitosamente. Yunus ha dimostrato come l’etica, la fiducia nel prossimo, possano combinarsi con le esigenze e le regole dell’economia. Con Yunus sono venuto a parlare qui, a Modena, venti giorni fa, in un dibattito che aveva per tema proprio la povertà e la strategia del microcredito. E’ stato l’unico appuntamento della festa a cui ho voluto partecipare prima di oggi. E non è stato un caso. A qualcuno questa scelta è sembrata strana. A me no. Non è forse più interessante, non è forse più rispondente all’idea della politica che vogliamo affermare, discutere con un uomo come Yunus piuttosto che sapere dove diavolo è finito, nel corso della sua frenetica indecisione, il professor Rocco Buttiglione? Ecco allora il secondo punto, strettamente e intimamente connesso al primo, nell'agenda del nuovo internazionalismo: i diritti umani. Il secolo che si sta concludendo ci ha insegnato, in modo tragicamente chiaro, che giustizia e libertà sono due valori inscindibili: non può esserci vera libertà dove non c'è giustizia; e non può esserci vera giustizia senza libertà, senza democrazia, senza rispetto rigoroso e integrale dei diritti umani. Lo abbiamo detto più volte in questi mesi, a voce sempre più alta, senza guardare alla lingua, alla religione, o al colore delle bandiere dei nostri interlocutori. Lo abbiamo detto alla giunta militare della Birmania, che trattiene illegalmente la signora Auung San Suu Kyi, dopo averla privata del potere legittimo, conferitole dal popolo in elezioni democratiche. Lo abbiamo detto a Fidel Castro, quando a Cuba ha fatto arrestare uomini di cultura di opposizione. Lo abbiamo detto alla Turchia, rivendicando i diritti all'autonomia del popolo curdo e ammonendola a non applicare la pena di morte contro Ocalan, se non vuole allontanarsi per sempre dall'Europa. Lo abbiamo detto a Milosevic, invitandolo a non illudersi che la storica amicizia dell'Italia per la Serbia potesse trasformarsi in complicità con il suo criminale piano di pulizia etnica del Kosovo. In quella vicenda, così travagliata per tutti noi, sappiamo di esserci mossi, con coraggio, seguendo convinzioni etico-morali molto forti, avendo a cuore l’affermazione di idee e principi in grado di regolare il nostro futuro meglio di quanto non sia avvenuto in passato. Un futuro in cui vogliamo sia data coerenza e universalità all’emergente diritto-dovere di ingerenza umanitaria; in cui vogliamo che ordine internazionale e democrazia non siano più piani separati e a volte distanti; in cui vogliamo sia data certezza e uniformità al principio per cui nessun governo ha il diritto di nascondersi dietro la sovranità nazionale al fine di violare, in modo inaccettabile, i diritti umani o le libertà delle sue popolazioni. E’ questo che abbiamo detto nei giorni difficili del Kosovo, giorni difficili per tutti noi. Lo ha detto il partito e lo ha detto, a nome di tutti gli italiani, l’azione forte e responsabile del Presidente del Consiglio, Massimo D’Alema. Questo abbiamo detto a Milosevic. Abbiamo detto che se un governo, un dittatore, una giunta militare, calpesta i più elementari diritti dell’uomo, porta a termine assassinii collettivi e operazioni di pulizia etnica, la comunità internazionale ha il dovere di intervenire. E le stesse cose diciamo oggi a chi, a Timor Est, si è macchiato di orrendi crimini contro l'umanità. Le stesse cose abbiamo detto e diciamo al presidente cinese Jiang, ricordandogli come nessun interesse commerciale possa avere per noi un valore più alto di quello dei diritti umani. I diritti dei giovani democratici cinesi imprigionati perché esprimono le proprie idee e il proprio dissenso così come i diritti del popolo tibetano. E a tal proposito siamo particolarmente lieti e orgogliosi che sia nostro ospite, alla fine di ottobre, il Dalai Lama. Noi condividiamo le sue parole: siamo convinti, con lui, che "come il XX secolo è stato il secolo del sangue, il XXI deve diventare il secolo del dialogo". Il secolo che sta volgendo al termine porta via con sé la vecchia divisione del mondo in blocchi: Ovest contro Est, capitalismo contro comunismo. Un mondo che nessuno rimpiange. Un mondo nel quale le superpotenze si combattevano armando gli uni contro gli altri i popoli più poveri. Il mondo della corsa agli armamenti, dell'equilibrio del terrore, dell'incubo dell'olocausto. Il mondo che usciva da un incubo divenuto realtà, dall’inferno in terra, da una voragine spaventosa nella quale erano sprofondati milioni di esseri umani. Se penso al Novecento, se provo a far scorrere dentro di me le immagini e i momenti che ne hanno segnato la storia, non posso non pensare a questo. Non posso fare a meno di rivedere ciò che i miei occhi hanno visto quando ho visitato Auschwitz: quelle centinaia di valigie, con un nome scritto sopra, quegli occhiali sopravvissuti agli occhi che ne avevano bisogno, quei vestiti di bambini portati ai forni. Nel Novecento, il secolo che abbiamo vissuto, degli uomini hanno potuto immaginare e realizzare il genocidio degli Ebrei. C’è un libro – tra quelli che ho frequentato su questa tragedia, su questa "fine dell’uomo" - che mi torna sempre alla memoria. E’ un libro in cui si racconta come il Terzo Reich avesse invaso anche i sogni di chi viveva quell’incubo collettivo. Ha scritto lì Bruno Bettelheim: "Persino in sogno i sudditi del Terzo Reich dicevano a se stessi: ‘Non devo azzardarmi ad agire secondo i miei desideri’. L’angoscia li costringeva ad uccidere i sogni. Così il regime trionfava costringendo i suoi nemici a fare il tipo di sogni che voleva che facessero". Questo è stato il Novecento del sangue. Il sangue delle vittime delle persecuzioni dello stalinismo e del comunismo. Il sangue di Ian Palach. Il sangue di Salvador Allende, di Olaf Palme, di Itzak Rabin. Il sangue delle guerre del Vietnam e dell’Afghanistan. Ma il Novecento è anche stato un secolo di pagine meravigliose. Di libertà riconquistate, dell’Europa sottratta ad ogni dittatura, dell’Africa affrancata dal colonialismo, dell’America Latina piena di giovani democrazie. Se dovessi scegliere una immagine, una sola, della grandezza del Novecento, prenderei la foto di un ragazzo di cui nessuno sa il nome. E’ quel ragazzo cinese, con due buste di plastica in mano, che si parò da solo di fronte ad una colonna di carri armati che andavano a massacrare i suoi coetanei nella Piazza Tien An Men. Sia quel ragazzo sconosciuto e coraggioso, sia la sua voglia di libertà il simbolo del migliore Novecento. E’ la libertà la parola chiave di questo secolo al tramonto. Hannah Arendt diceva che "il senso della politica è la libertà". E questo mondo ha vissuto cento anni perdendo e guadagnando la libertà e le libertà. Questo mondo non c'è più, e noi lo consegniamo volentieri alla storia. Ma al vecchio ordine non può sostituirsi il "disordine stabilito" di una globalizzazione lasciata alla sola guida di un mercato senza regole. La forza del mercato deve essere accompagnata, temperata dalla politica, dal diritto, dalla solidarietà sociale, dalla democrazia. Questa è la grande sfida che sta oggi davanti alla sinistra e a tutti i riformisti. Una sfida che non è un'idea astratta, ma una costellazione di questioni attorno alle quali si gioca la qualità del futuro del pianeta: la costruzione della pace, potenziando il diritto internazionale e le istituzioni multilaterali; la diffusione della democrazia e dei diritti umani; la lotta alla povertà e al sottosviluppo; la promozione di una cultura del limite nello sfruttamento delle risorse ambientali, nella manipolazione tecnologica della natura e della vita. Una costellazione di questioni che ha bisogno di nuovi strumenti e nuovi soggetti politici sovranazionali.
Che senso hanno, allora, nel Duemila che viene, di fronte a queste grandi sfide epocali, le aspre divisioni ideologiche tra le famiglie politiche democratiche e riformatrici, le divisioni che hanno segnato la storia del Novecento? Nessuno, care compagne e cari compagni. Non hanno nessun senso. Sono un lascito della storia, che come tale va rispettato, ma anche coraggiosamente superato. Dobbiamo guardare avanti, dobbiamo aprire le porte e le finestre, dobbiamo soprattutto aprire le nostre menti per fare spazio ai nuovi problemi, alle nuove sfide, alle nuove imprese collettive alle quali ci chiama il nostro tempo. Noi siamo impegnati, con forza e determinazione, su questa strada. Una strada che non ci vede viandanti solitari, ma parte di un corteo più grande e affollato. L'Internazionale socialista è la nostra casa, il luogo privilegiato del dialogo e dell’incontro della sinistra nel mondo. Una casa nella quale da tempo stiamo lavorando, per renderla più ampia e accogliente rispetto al nuovo scenario, culturale e politico, che si annuncia così diverso da quello del secolo che finisce. Pensiamo all'Europa. Il Partito popolare europeo non è più il partito dei democratici cristiani, i partiti che De Gasperi definiva del "centro che guarda a sinistra". Con l'ingresso dei conservatori inglesi, dei gollisti francesi e di Forza Italia, il Ppe è diventato il contenitore di molti avversari della sinistra e del centro-sinistra. La domanda che ci poniamo è se anche la sinistra non abbia bisogno di promuovere una più ampia aggregazione di tutte le forze riformiste, in Europa e nel mondo. Da tempo, del resto, nell'Internazionale socialista è in corso un processo di cambiamento, di adeguamento ai nuovi termini della lotta politica. Nell'Internazionale ci sono ormai forze come l'Olp di Yasser Arafat o l'African National Congress di Nelson Mandela che non sono forze socialiste. E’ questa la strada giusta. La casa del socialismo deve aprirsi ancora fino a comprendere le forze della sinistra riformista, le nuove culture, di ispirazione laica e religiosa, che hanno scelto il grande campo della sinistra. Sono forze nuove dell’Europa dell’Est, dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. Nuove forze, nate non nel travaglio delle Internazionali di inizio secolo, ma nei processi democratici della fine del secolo. Anch’esse sono forze della grande, nuova, sinistra e aprirsi a loro è il modo migliore per l’Internazionale socialista di varcare il nuovo millennio. Noi vogliamo lavorare perché un simile processo si avvii anche in Europa. Dobbiamo farlo a partire da un grande disegno sul futuro dell'Europa. L'Europa, infatti, non uscirà dalle sue difficoltà interne se non saprà scoprire una propria "missione", più grande delle dispute tra i diversi interessi nazionali. La stessa moneta unica non riuscirà ad esprimere tutte le sue potenzialità, anche economiche, se non verrà intesa come lo strumento di una politica, di una nuova organizzazione istituzionale, di un disegno storico-civile, di una visione autonoma e originale, rispetto ad altre aree regionali del mondo, circa il futuro del pianeta. Dinanzi all'Europa sta oggi la responsabilità di articolare lo scenario mondiale, in una prospettiva di competizione e di collaborazione al tempo stesso. Gli europei hanno affidato alla sinistra e al centro-sinistra, a tredici governi di centro-sinistra su quindici, il compito di portare l'Europa in questa direzione. Il successo di questa scommessa dipende anche dall'Italia, che è uno dei quattro grandi paesi europei governati dal centro-sinistra. Dipende dunque anche da noi. Questa è una grande responsabilità, ma anche - diciamocelo una volta tanto - un valido motivo di orgoglio e di soddisfazione. I problemi che l'Italia ha davanti sono molti e complessi, ma sono, in definitiva, i problemi dell'Europa nel suo insieme. Non c'è più quell'umiliante "rischio Italia", quella insopportabile anomalia che rappresentava il tragico lascito degli anni Ottanta. Un lascito reso poi ancor più pesante dalle disavventure del fortunatamente breve governo Berlusconi. Oggi l'on. Berlusconi non perde occasione, non per criticare il nostro operato - che sarebbe cosa giusta, sarebbe fare il suo dovere nel posto che gli italiani gli hanno assegnato, che è l'opposizione. No, l'on. Berlusconi non perde occasione per dipingere le cose che facciamo, le nostre scelte politiche, come il frutto di un colpo di mano comunista, stalinista e illiberale. Ho qui una piccola antologia dei raffinati aforismi che l'on. Berlusconi ci ha dedicato in questi mesi. ANSA, 1° giugno 1999: "Berlusconi: da Veltroni disinformazione staliniana". Così il Cavaliere replicava alle nostre critiche sulle sue proposte in materia di fisco. ANSA, 8 giugno. Con i Ds, dice Berlusconi, "è molto difficile avere un dialogo, perché usano i vecchi metodi propri della scuola di Frattocchie, del sistema comunista..." ANSA, 22 giugno, in risposta ad un mio gentile appello per le riforme: "se prima vanno a Damasco, è già capitato a San Paolo e viene giù un fulmine e gli cambia la testa, noi possiamo sederci anche ad un tavolo, ma se rimangono statalisti, centralisti, dirigisti e forcaioli non c'è niente da fare". ANSA, 23 giugno. Così commenta, il Cavaliere, la proposta del governo sulla "par condicio": "ancora una volta la sinistra batte la strada dei colpi di mano parlamentari, dello squadrismo giustizialista e della persecuzione politica e giudiziaria contro Forza Italia e il suo leader". Per spiegarsi meglio, il Cavaliere rincara la dose: "la doppia strategia della sinistra" presenta elementi "allarmanti". "Si comincia con il presunto conflitto d'interessi e si prosegue con il divieto degli spot elettorali, per trasformare l'Italia nella vecchia Unione sovietica". Questo è il linguaggio, in Italia, di colui che si definisce il leader dei moderati. A starlo a sentire, care compagne e cari compagni, verrebbe da chiedere l'intervento in suo favore di Amnesty international. E invece, l'on. Berlusconi sa bene, sa meglio di noi, che nel nostro paese non c'è nessun perseguitato politico. Tanto meno può definirsi perseguitato un signore che è proprietario di televisioni, radio, quotidiani, settimanali, mensili, case cinematografiche e discografiche; che ora è entrato persino nella telefonia oltre ad essere nelle assicurazioni e quasi ovunque. In questi anni di "regime comunista" Mediaset ha visto crescere il fatturato delle sue aziende del 25 per cento tra il 1995 e il 1998 e i profitti del 19 per cento nel solo 1998 rispetto al 1997. Grazie a queste performance, l'on. Berlusconi, attraverso Mediaset, controlla oggi il 57 per cento della pubblicità televisiva e il 31 per cento dell'intero mercato pubblicitario italiano. Di illiberale, on. Berlusconi, in questo nostro paese, in questo nostro sistema politico, c'è solo la abnorme concentrazione di potere economico, mediatico e politico e il macroscopico conflitto di interessi di cui Lei è espressione. Di illiberale, on. Berlusconi, c’è solo la clamorosa anomalia, unica in tutto l'Occidente, di un leader politico, il capo dell'opposizione, colui che si candida a guidare il paese, che è anche detentore di una posizione dominante, ben oltre qualunque limite tollerabile in un sistema di democrazia liberale, nel campo delicato e strategico della comunicazione. Questa è la vera anomalia illiberale dell'Italia, on. Berlusconi. Una illiberale anomalia che Lei sta cercando di esportare in Europa e che noi intendiamo invece combattere decisamente in Italia, con le norme sulla "par condicio" e sul "conflitto d'interessi". Norme che la maggioranza di centro-sinistra è impegnata a portare all'esame del Parlamento in questi giorni. Norme che il leader di Forza Italia ha definito "liberticide". Chi usa questa parola è, a dir poco, un irresponsabile. La libertà è una cosa seria, le misure liberticide sono quelle che cancellano la libertà di stampa, di opinione, di individui e organizzazioni politiche. Quelle libertà per difendere le quali tanti esseri umani sono morti. E’ forse il suo caso on. Berlusconi? Le norme sulla par condicio si ispirano alla legislazione in vigore in tutti i paesi liberali e democratici europei, dove gli spot elettorali sono vietati. Sono norme che hanno un solo obiettivo, semplice e lineare: superare l'attuale, scandalosa e grottesca situazione, che vede una parte politica, la nostra, costretta a finanziare, per mandare in onda i suoi spot, un'altra parte politica, la sua parte politica, on. Berlusconi. Che invece paga se stessa per fare gli spot. In quale paese liberale, in quale paese democratico, in quale paese europeo e occidentale sono ammesse situazioni del genere? Ma noi sappiamo, care compagne e cari compagni, perché l'on. Berlusconi ci chiama stalinisti. Non lo fa per scortesia. Non è solo il segno di una modesta civiltà politica. Dietro questo atteggiamento, dietro i suoi insulti, c'è un preciso disegno politico. C'è la volontà di risuscitare vecchi fantasmi, per rimettere in circolazione vecchie e radicate diffidenze della società italiana nei confronti della sinistra. C'è la volontà di rispolverare il vecchio schema politico, quello che ha dominato in Italia per cinquant'anni: uno schema politico fondato su due pilastri, il conflitto ideologico e il consociativismo politico. Più si era lontani sul piano ideologico, più ci si copriva di insulti infamanti durante le campagne elettorali, più ci si accordava consociativamente in Parlamento. Questa lunga stagione è finita, perché quel conflitto ideologico non c'è più. Non c'è più nel mondo e non c'è più nel nostro paese. E non basteranno le battute di Berlusconi per restaurarlo. Da dieci anni, i dieci anni forse più tormentati della recente storia italiana, noi ci battiamo per una democrazia compiuta. Noi vogliamo che anche in Italia, come in tutto l'Occidente democratico, le forze politiche si rispettino, sappiano collaborare sul piano istituzionale e siano ugualmente capaci di conflitto duro e leale sul piano politico e programmatico. E possano tranquillamente alternarsi al governo del Paese. Questa è la politica nuova per la quale ci battiamo. Noi abbiamo sempre distinto tra polemica politica e dialogo istituzionale. Ad esempio abbiamo sempre guardato con attenzione e rispetto all'evoluzione di Alleanza nazionale. E mai ci è venuto o ci verrebbe in mente di attaccare Fini ricordandogli il suo passato. Noi non abbiamo mai strumentalizzato le vicende giudiziarie che hanno coinvolto i nostri avversari politici, né mai lo faremo. In questi anni abbiamo cercato ogni convergenza possibile sulle questioni istituzionali. E le cercheremo ancora. Noi nei confronti del Polo abbiamo sempre dimostrato grande senso di responsabilità. E, a dire il vero, qualche volta anche di più. Non sbagliavamo quando speravamo che la nostra correttezza e cortesia potesse essere alimento di un positivo atteggiamento del Polo sulle riforme istituzionali. Ma non è stato così. E allora voglio dire una cosa chiara: il tempo in cui Berlusconi si permette di darci ogni giorno degli stalinisti e noi di fronte a questa sua arroganza mostriamo quasi paura o pudore di nominare le parole "conflitto di interessi", questo tempo, care compagne e cari compagni, è finito. E’ invece il tempo di ritrovare quella sana voglia di animare un franco, sereno, deciso confronto politico, programmatico, ideale e di valori con la destra italiana. Un confronto senza colpi bassi, senza le volgarità a cui una certa polemica politica è abituata. No, un confronto sulle scelte politiche, sui comportamenti parlamentari, sulle parole che si usano. Sul "Corriere della Sera" di ieri Paolo Franchi mi ha posto tre giuste domande, alle quali penso, in questo discorso, di fornire una risposta chiara. Voglio cominciare dalla questione riguardante il confine tra dialogo e conflitto nel rapporto tra gli schieramenti. La Commissione bicamerale fece un buon lavoro, in un clima di rispetto e dialogo. Ma quel lavoro fu gettato a mare, all’ultimo momento, da Berlusconi. E così è stato sempre, fino a condizionare le riforme al voto parlamentare su Cesare Previti, fino al proclama "o ritirate la par condicio o niente riforme". Io ho una posizione diversa. Abbiamo cercato di metterla in campo in questi mesi. Questa posizione nasce da una radicata coerenza bipolare, da una idea "europea"del rapporto maggioranza-opposizione. Ciò che escludo è un clima da "pastrocchio" consociativo, una melassa che corroda la residua voglia di partecipazione dei cittadini. E’ troppo immaginare che sia possibile far convivere, alla luce del sole, la convergenza sulle regole e il conflitto politico più severo? E’ su questa linea che si è iniziato a fare dei passi in avanti. E’ con questa linea, in questi mesi, che si sono approvati il "giusto processo" e l’elezione diretta del presidente della giunta regionale. E’ nel nuovo clima che si sono ricercate le convergenze necessarie per la scelta del Quirinale. Questa nostra disponibilità permane e permarrà sempre. Questa è la mia risposta, quella che darebbe un leader di qualsiasi forza europea. L’anomalia italiana - fatta di insulti pubblici e cene private - la considero un retaggio di un passato che spero non ritorni. Voglio dire un’altra cosa chiara: è venuto il tempo di mostrare tutto l’orgoglio per quello che in questi tre anni i governi Prodi e D’Alema hanno fatto per l’Italia. Mai il nostro Paese ha conosciuto una stagione di così profondo risanamento e di così intensi cambiamenti. Vediamoli insieme, cominciando col dire una cosa: se fosse stato per Forza Italia, avremmo non solo mancato, ma addirittura rinunciato a correre per l'obiettivo dell'ingresso dell’Italia nell'Euro fin dalla prima fase. Se l'Italia avesse seguito la politica anti-europeista dell'on. Berlusconi, i tassi d'interesse italiani non sarebbero scesi, come sono scesi, al livello di quelli tedeschi; l'inflazione non si sarebbe ridotta a poco più dell'1 e mezzo per cento; il cambio della lira sarebbe stato travolto dalle varie crisi finanziarie internazionali di questi anni e oggi dovremmo prepararci alla solita Finanziaria "lacrime e sangue", invece che discutere, come stiamo facendo, di riforme strutturali e di rilancio dello sviluppo. Ricordate cos’era l’Italia del 1994, quella dei pochi mesi in cui fu governata da Berlusconi? Indro Montanelli, noto bolscevico, scriveva il 1° settembre: "il governo è per Berlusconi una punizione: significa costringerlo a fare l’unica cosa che non sa fare". E il premio Nobel per l’economia Franco Modigliani, il 24 settembre: "Berlusconi allarma i mercati". Giudizio simile a quello di Rudiger Dornbush, professore di economia al Mit, che commentava così, a novembre, le difficoltà della lira: "Effetto Berlusconi, questo è il prezzo". E ancora oggi sapete, i cittadini italiani sanno bene, cos'è che frena l'economia italiana: è la gigantesca massa del debito pubblico, accumulato negli anni della finanza allegra e del triste crepuscolo della Prima Repubblica. Ebbene, in questi ultimi tre anni, per la prima volta da tempo immemorabile, il debito ha smesso di crescere ed ha anzi cominciato a diminuire. Era al 124 per cento, nel 1996. Oggi è al 116. E l'Italia, in questi anni, non è solo andata meglio sul piano economico. L'Italia ha cominciato a cambiare nella sua struttura profonda, nei meccanismi fondamentali che fanno funzionare il rapporto tra economia, società, istituzioni. C'è ammirazione, in Europa, per come l'Italia, l'Italia dell'Ulivo, l'Italia governata dal centro-sinistra, ha saputo recuperare, in così poco tempo, così tanto del terreno perduto. Abbiamo raggiunto l’obiettivo storico più importante del dopoguerra. Un obiettivo che solo tre anni fa appariva irraggiungibile. Ora siamo una delle nazioni dell’Euro e un italiano, il protagonista di questa stagione, è il Presidente del governo europeo. A te Romano, giunga il sentimento di orgoglio e l’augurio di buon lavoro di tutti noi. In anni durissimi, grazie alla determinazione dei governi di centro-sinistra, ma anche alla concertazione e al clima di coesione sociale che essa ha saputo creare, politiche di estremo rigore sono state seguite senza che ne soffrisse il potere d'acquisto di salari e pensioni. E soprattutto rimettendo poco a poco il paese sulla strada dello sviluppo e dell’occupazione. Fatemelo dire davvero con orgoglio. Nell’aprile del ’96, quando l’Ulivo vinse le elezioni, si contavano in Italia 20 milioni e 95 mila occupati. Nel luglio di quest’anno l’occupazione è arrivata a 20 milioni 721 mila unità: la crescita è di più di 600 mila occupati. Attenzione, on. Berlusconi: queste sono cifre vere. Sono fatti. Non sono i suoi sondaggi. Non sono le sue errate previsioni di continui trionfi elettorali. Non sono promesse strampalate, come quelle che Lei incautamente fece quando annunciò l’arrivo di un milione di posti di lavoro, per poi ritrovarsi, nei mesi del suo governo, a registrare una caduta di più di 200 mila occupati. Se guardiamo ai dati reali c’è un solo fatto che conta: all’apice del governo di centro-destra l’occupazione aveva raggiunto il minimo storico in Italia. Oggi, dopo tre anni di centro-sinistra, ha toccato il valore più alto mai raggiunto a partire dal momento della grande crisi del 1992.E il dato Istat più recente, uscito pochi giorni fa, conferma la tendenza positiva: 84 mila occupati in più fra aprile e luglio del ’99, 255 mila in più nel corso dell’ultimo anno. In questi tre anni, però, abbiamo anche imparato che il buongoverno non basta a soddisfare le domande, le incertezze, le paure delle italiane e degli italiani in questa fine di millennio. Oggi assistiamo a un distacco crescente fra politica e società, a una insofferenza montante contro partiti e sindacati, a una crisi di rappresentanza che si trasforma in crisi di fiducia. Una delle nostre costanti preoccupazioni deve essere allora quella di far vivere meglio i fatti della politica e l'azione riformista in cui siamo impegnati. Dobbiamo ricostruire un circuito di comunicazione, in tutti e due i sensi: dalla politica ai cittadini, e dai cittadini alla politica. In particolare ai giovani dobbiamo dire che da trentasei anni la scuola italiana aspettava una riforma che la riportasse al passo con i tempi, e oggi abbiamo tutti gli strumenti necessari per dare avvio a questo processo: aumento dell'obbligo scolastico e formativo, in linea con i più grandi paesi europei e con le nuove esigenze del mondo del lavoro; nuovo contratto per gli insegnanti e riapertura dei concorsi per l'insegnamento; autonomia scolastica e diversificazione dell'offerta formativa; un piano di investimenti che finanzia l'adeguamento delle scuole e la loro attrezzatura tecnologica. Quando mai è successo qualcosa di paragonabile? Tutta l'Italia, così, investe sul suo futuro. Perché è la formazione il centro di gravità del futuro italiano. E quando abbiamo votato la riforma dei cicli scolastici il Polo ha fatto come sempre: ha lasciato l’aula sperando di far mancare il numero legale. Quale opposizione in Europa si comporta così? E noi, oggi, ai ragazzi italiani possiamo dire che dopo molti anni di incertezza e di discussioni ideologiche il Parlamento è in grado di approvare un disegno di legge, presentato dal governo, che corrisponde a un impegno preso in campagna elettorale: in Italia non ci saranno più la cartolina precetto e l’obbligo di passare dodici mesi sotto le armi. In Italia un ragazzo potrà scegliere se fare o no il servizio militare e potrà comunque, con la necessaria riforma del servizio civile, dare una mano allo Stato, alle istituzioni, alla società, con forme di lavoro volontario. Ma visto che parliamo di leva fatemi dire che c’è una cosa sulla quale, questa estate, avremmo voluto vedere un più netto segno di discontinuità con il passato. Una cosa che ci fa chiedere ancora alla magistratura e alle istituzioni di fare fino in fondo la loro parte. Perché ancora non sappiamo come è morto Emanuele Scieri. Come è morto un ragazzo italiano che, come ha detto sua madre, era andato sotto le armi ed è tornato a casa in una bara. Per lui, per tutti i ragazzi che hanno sofferto e soffrono le conseguenze di atti di "nonnismo", e anche per quei ragazzi che in divisa tengono alto l’onore della patria in Kosovo e domani a Timor, diciamo che c’è bisogno di verità. Perché per avere fiducia nel futuro e nel suo Paese un giovane ha bisogno di questo. Così come ha bisogno di veder facilitato il proprio ingresso nel mondo del lavoro. E’ per questo che abbiamo riformato e rilanciato l'apprendistato, che abbiamo introdotto nuove forme di accesso al lavoro - a tempo determinato, a tempo parziale, di tipo interinale - che sono alla base di più della metà della nuova occupazione creata. Ancora di più si può fare con il part-time, a condizione che sia un part-time sufficientemente lungo, in modo da fornire al lavoratore o alla lavoratrice un reddito dignitoso. La flessibilità sul mercato del lavoro, infatti, è necessaria e deve crescere, ma va governata e regolata. Ecco una delle differenze fra sinistra e destra che esisterà sempre: alla destra non importa che tutti i costi della competitività vengano scaricati sul lavoro; la sinistra invece si fa carico della domanda di sicurezza, di riduzione dell'incertezza che soprattutto i giovani esprimono. Incertezza che riguarda in particolare il lavoro, che è al primo posto, in ogni indagine statistica, nell’elenco delle preoccupazioni delle ragazze e dei ragazzi italiani. Incertezza alla quale si deve rispondere con ricette nuove, puntando a rendere più dinamica e aperta la società, ma certo non con proposte che sono ben lontane dall’essere battaglie di libertà. Penso ad alcuni dei referendum radicali. Essi vengono presentati, come gli aerei di Berlusconi, come battaglie di libertà. Ma non è una bella libertà quella di licenziare senza giusta causa un lavoratore come fosse un ferrovecchio scassato. E non è una bella libertà quella di diminuire la sicurezza sul lavoro in un paese che ha il triste record delle "morti bianche" . Non c’è buona libertà quando il diritto di molti è schiacciato dalla libertà di pochi. Noi vogliamo più flessibilità. Ma anche più opportunità. Dopo un’occupazione a tempo parziale o a tempo determinato, potrà venirne una a tempo pieno o a tempo indeterminato, nel lavoro dipendente o nel lavoro autonomo. Il lavoro sta cambiando, ma non è certamente destinato a esaurirsi, se il paese riprende - come sta riprendendo - insieme a tutta l’Europa la via della crescita. Noi vogliamo più flessibilità. Ma anche un welfare migliore. Non vogliamo un modello in cui un ragazzo che perde il suo posto di lavoro precipita ai margini della società. Questo è ciò che ci differenzia dalla destra. E’ la lotta contro il concetto e la pratica per cui chi non ha un contatto stabile con il mercato del lavoro e con il sistema formativo viene escluso, finisce per essere di fatto messo fuori dalla sfera della cittadinanza. E’ il fatto di pensare a una società capace di includere, di "tenere dentro", tutti gli individui, a ognuno dei quali deve essere concessa l’opportunità di realizzare se stesso e di vedere realizzate le proprie aspirazioni. E’ il fatto di lavorare per fare in modo che chi perde il posto possa incrociare un funzionante sistema di formazione permanente e di collocamento, tali da consentirgli di incamminarsi verso un nuovo lavoro. E’ il fatto di volere uno Stato sociale moderno che accompagni l’intera vita lavorativa. Non assistenzialismo vecchia maniera, ma uno Stato sociale dinamico e protettivo, in grado di considerare il lavoro una risorsa e di valorizzare le capacità di ognuno. Con la sinistra al governo non solo l'occupazione è cresciuta, ma sono cresciute anche le retribuzioni reali, al netto dell'inflazione: del 2,5% fra il 1996 e il 1997, dell'1% circa fra il 1998 e il 1999, prima dell'applicazione dei nuovi rinnovi contrattuali. Questo dimostra che la concertazione sociale non è uno strumento favorevole solo alle imprese, che acquistano la pace sociale e riducono i conflitti, ma anche ai lavoratori. Il risanamento finanziario del Paese, compiuto grazie allo sforzo delle parti sociali e al senso di responsabilità del sindacato non è stato uno sforzo inutile. In cambio, i lavoratori si sono ritrovati in busta paga il rimborso dell'Eurotassa, la riduzione del carico fiscale sulle prime abitazioni, l'aumento delle detrazioni d'imposta per i carichi familiari. In cambio, i nuclei familiari con più di tre figli e le famiglie monoparentali con figli a carico hanno ottenuto nuovi assegni di sostegno. In cambio, per la prima volta, le giovani madri che non percepiscono indennità di maternità sono sostenute dallo Stato con un assegno. A favore delle coppie più giovani, inoltre, sono stati introdotti incentivi fiscali nella nuova legge di riforma degli affitti. Con i crediti d'imposta le imprese del Mezzogiorno hanno assunto circa 100 mila persone, per lo più a tempo indeterminato. Un passo nella giusta direzione, perché sappiamo che è nel Sud che è concentrato il problema dell’occupazione; e che è nel Sud che occorre lanciare grandi programmi riguardanti le infrastrutture. Con i fondi forniti dall'Unione Europea è stata reimpostata e rilanciata la politica di sostegno delle aree depresse del territorio nazionale, nel Sud e nel Centro-Nord. Pensate che a maggio del ’96, quando il Governo Prodi è entrato in carica, abbiamo trovato una situazione in cui solo l’8 per cento delle risorse comunitarie disponibile era stato utilizzato. In tre anni, il centro-sinistra ha portato fino al 55 per cento la spesa sui fondi comunitari. Alla fine del 1999 arriveranno al 70 per cento. Con le nuove politiche di solidarietà sociale si stanno sperimentando nuove vie. Una famiglia in condizioni di povertà può usufruire di un assegno minimo vitale. Non si tratta di un salario garantito, né di un sussidio di disoccupazione. Si tratta di dare un’opportunità alle famiglie cadute nel circolo vizioso della marginalità. Cinquantamila famiglie italiane potranno essere protette temporaneamente con questo strumento. Per i più sfortunati, per i portatori di handicap, sono state stabilite nuove misure di sostegno e si è fissato l’aumento degli assegni familiari. E c’è un’altra cosa di cui possiamo essere orgogliosi: dopo anni di chiacchiere è la prima volta che la corretta amministrazione, le riforme riducono una delle piaghe antiche d'Italia: l'evasione e l'elusione fiscale. Sembrava impossibile, eppure ci stiamo riuscendo. Da due anni il gettito fiscale cresce più del previsto, nonostante le minori entrate dell’Irap, che il Governo ha deciso di non compensare. E’ un dividendo di circa diecimila miliardi l’anno.E’ il dividendo della lotta all’evasione. Se si continuerà così davvero diverrà realtà il sogno degli italiani onesti: pagare meno, pagare tutti. In passato, in questi giorni di settembre, l’argomento all’ordine del giorno era: dove tagliare le spese? Oggi c’è un’altra discussione in corso: cosa fare di questi soldi in più che lo Stato ricava dalla lotta all’evasione? Noi, i Democratici di sinistra, proponiamo che la riduzione dell'evasione venga restituita ai cittadini sotto forma di minori imposte. I pensionati, poi, vedono aumentate le loro pensioni minime e quelle integrate al minimo di 100 mila lire al mese. Vedono aumentata la detrazione Irpef per i redditi da pensione. Vedono che è stata esentata dall'imposta sui redditi la maggiorazione sociale sulle pensioni. Da quanto tempo questo non accadeva? Per questo chi oggi è pensionato può star sicuro che la sinistra democratica vigilerà sempre e con forza contro ogni attacco ai suoi diritti acquisiti. Cerchiamo di fare chiarezza, perché si è fatta una gran confusione, in questi mesi, sul tema delle pensioni. E’ una questione che non può essere trattata con demagogia: occorre serietà, ma soprattutto occorre avere la prospettiva lunga, guardare al lungo periodo, preoccuparsi - come la sinistra ha il dovere di fare - dell'equità e del futuro delle giovani generazioni. Con l’opera di riforma avviata fin dal 1992 la maggior parte della strada è stata fatta. Quello che occorre fare oggi è legato a obiettivi di equità e alla possibilità di fornire ai lavoratori e alle lavoratrici un percorso verso la pensione integrativa. Sarebbe un paradosso se su questo la sinistra democratica e il sindacato si facessero spingere sulla difensiva. Il merito del risanamento finanziario del paese è nostro, e non dobbiamo correre il rischio di essere messi all'angolo, adesso, per colpa di un difetto di nostra iniziativa o di un'eccessiva prudenza di proposta politica. E' per questo che in agosto ho rilanciato il tema di un riassetto definitivo del sistema pensionistico. Un tema che va discusso con serenità, da oggi al 2001. Un tema su cui nessuno può decidere da solo, perché occorre attivare la concertazione sociale e la discussione fra le lavoratrici e i lavoratori. Un tema a partire dal quale abbiamo la possibilità, se lavoriamo bene nei prossimi quindici mesi, di predisporre una generale riforma del sistema di protezione sociale italiano, per renderlo più equo, più efficace, più aderente agli assetti demografici e del lavoro della società del 2000. Noi vogliamo difendere il sistema pensionistico pubblico di base; introdurre uniformità di regole in tutte le gestioni pensionistiche, fatti salvi i lavori usuranti e i diritti acquisiti; utilizzare i flussi del trattamento di fine rapporto nei fondi pensione. Si è aperta, così, una discussione serena e concreta, e mi ha fatto molto piacere che il primo a rilanciare questa sfida sia stato Sergio Cofferati, uno dei protagonisti del riformismo italiano. Nuova occupazione, nuovo sviluppo, nuovo Welfare. Questi non sono sogni, o programmi. Sono le realizzazioni concrete dei governi riformisti. Per dare più sviluppo all’Italia abbiamo imboccato con forza - e dobbiamo proseguire - la strada delle liberalizzazioni, delle privatizzazioni, delle semplificazioni, della lotta contro i monopoli e contro gli eccessi della burocrazia. Sapendo anche che non c'è lavoro se il mondo dell'impresa non può svilupparsi in modo sano e pluralistico. Di qui le liberalizzazioni dei monopoli pubblici, la riforma del funzionamento del mercato dei capitali, gli incentivi per le imprese che investono gli utili, l’impegno per la crescita delle piccole e medie imprese nell'industria, nei servizi, nell'artigianato, nel commercio, nell'agricoltura. Ed anche nel campo della cultura molto, quasi tutto, è cambiato. Si sono riaperti i battenti di musei chiusi da decenni, si tengono aperti i musei più che in ogni parte del mondo, si stanno riformando teatro e musica, si è visto rinascere il pubblico del cinema. Insomma, l'Italia sta cambiando, care compagne e cari compagni: grazie al riformismo, all'incontro del realismo e della concretezza con la voglia di cambiare, con la spinta a trasformare e a migliorare. Quella voglia e quella spinta che dobbiamo avere anche nei due anni scarsi che ci separano dalla fine della legislatura. Fine della legislatura alla quale vogliamo arrivare con il nostro governo. I problemi del Paese sono ancora tanti e talvolta drammatici. Dobbiamo allora lavorare sodo, per presentare alle elezioni del 2001 un’Italia che cresca di più. E più in fretta, come ha giustamente detto, nei giorni scorsi, il Capo dello Stato. Un’Italia, più giusta, più sicura e più libera. Quello della libertà, care compagne e cari compagni, è un valore troppo grande perché si possa pensare di regalarlo al Polo. Siamo noi, è il centro-sinistra il soggetto politico che può e vuole conquistare più libertà per la società italiana. Più libertà di intraprendere, di creare, di lavorare. Più libertà dalle burocrazie, dai centralismi, dai monopoli, dalle rendite di posizione, dai potentati consolidati. Più libertà come autonomia, pluralismo, autodeterminazione delle persone e responsabilità delle coscienze, in tutti i campi del vivere associato, da quello economico a quello sessuale. Noi facciamo nostro quanto scriveva Piero Gobetti nella sua "rivoluzione liberale": "Il problema italiano non è di autorità, ma di autonomia: l'assenza di una vita libera fu attraverso i secoli l'ostacolo fondamentale per la creazione di una classe dirigente, per il formarsi di un'attività economica moderna e di una classe tecnica progredita". Questo è ancora, per noi, un programma politico e di governo. Noi vogliamo un'Italia più giusta, più libera, ma anche più sicura. Cinque mesi fa, per la prima volta dopo dieci anni, abbiamo riempito una piazza romana per manifestare la nostra speranza - anche se i nostri cuori erano gonfi d'angoscia per la guerra in Kosovo - in un'Italia capace di impegnarsi per più sicurezza, ma senza razzismo. Noi rilanciamo da qui, da questa festa nel cuore di una regione che è a sua volta il cuore del Nord Italia, il nostro "no" a qualunque forma di razzismo e di intolleranza, "no" al cortocircuito, inaccettabile e sbagliato, tra criminalità e immigrazione. Ma quando abbiamo chiesto "mano dura" contro la violenza abbiamo allo stesso tempo voluto dire che la lotta alla criminalità e alla delinquenza è uno dei capisaldi di una politica che voglia definirsi di sinistra. Perché se la legge e chi deve farla rispettare è debole, a soffrirne sono coloro che della legge hanno più bisogno, quelli che non hanno mezzi privati per farsi rispettare e per farsi valere. Una società violenta, nella quale la violenza sia tollerata e impunita, diventa una società più inospitale per i più piccoli, i più miti, i più pacifici, i più deboli. Diventa una società nella quale i bambini non possono giocare tranquilli nel parco, gli anziani hanno paura di essere scippati, le ragazze di uscire sole la sera. Dinanzi a situazioni come queste, che purtroppo si stanno moltiplicando nelle nostre città, è inammissibile che i commercianti che hanno scelto coraggiosamente di denunciare il racket dopo poche settimane si vedano camminare davanti al negozio i loro estorsori. E' inammissibile, come è successo a Brescia, che delinquenti arrestati, con addosso coltelli insanguinati, siano scarcerati dopo poche ore, in attesa di processi e condanne definitive che non arrivano mai. E' inammissibile che si confonda la necessaria solidarietà e l'accoglienza nei confronti dei più deboli - dagli immigrati, agli emarginati, ai tossicodipendenti - con la sottovalutazione del rischio rappresentato da organizzazioni criminali, soprattutto italiane, che ne sfruttano cinicamente la condizione di bisogno e di debolezza. Noi stiamo sostenendo in Parlamento un "pacchetto sicurezza" fatto di certezza della pena, di maggior considerazione per i reati di furto e scippo, di maggior rigore nella concessione dei benefici ai condannati, di migliore coordinamento tra le forze di polizia. La destra ha annunciato una dura opposizione. Non riesco proprio a capire, per quanto mi sforzi, i leader del Polo. Per mesi hanno condotto una campagna all'insegna dello slogan "tolleranza zero", adesso dicono che si opporranno con tutte le forze al nostro tentativo di costruire in Italia uno "stato di polizia". O almeno lo hanno detto fino a domenica scorsa. Perché solo due giorni dopo - il lunedì deve essere stato di attenta e approfondita riflessione - l’on. Gasparri proponeva di armare persino i vigili urbani, mentre Pier Ferdinando Casini, moderato, cristiano e garantista, tuonava sulla necessità di sparare addosso agli scafisti lungo le coste pugliesi. La verità è che persino in materia di sicurezza la destra italiana non sa quello che vuole e quindi non sa quello che dice. Sono garantisti i giorni dispari e giustizialisti i giorni pari. Di solito sono garantisti coi pesci grossi e giustizialisti con quelli piccoli: forti coi deboli e deboli coi forti. Ora circola, come balsamo su tre anni di sconfitte elettorali della destra, il "modello Guazzaloca". L’ho tenuto d’occhio, in questi mesi, il nuovo sindaco di Bologna. Un giorno d’agosto era a magnificare il modello rappresentato da se stesso in non so quale ridente cittadina del Sud. In sua assenza un assessore maligno di An ha proposto l’idea balzana del numero chiuso per gli immigrati nella sola Bologna. Una pura, pericolosa baggianata che contrasta con la buona legge Turco-Napolitano oltre che con la ragione. Poi a settembre Guazzaloca ha dovuto, in Consiglio comunale, non votare un ordine del giorno approvato dalla sua maggioranza. E si è precipitato a convocare, dopo solo due mesi di governo, concitate verifiche e trattative tra i partiti della maggioranza, roba vecchia. Ma il più forte di tutti è il giovane candidato del Polo alla presidenza della regione Sardegna. Di lui l’imprudente Berlusconi aveva detto: "E’ bravissimo, può essere il numero due nazionale di Forza Italia". Bene, in una terra di sana cultura autonomistica, il "numero due" di Berlusconi ha pensato bene di arrivare in Consiglio regionale presentando la sua giunta - al cui interno non aveva proposto neanche una donna - e illustrando il proprio programma. Solo che il programma non era il suo. Lo aveva copiato di sana pianta da quello del Presidente della Lombardia. Tanto aveva copiato che ha detto, pensando di parlare della Sardegna: "le undici province della nostra regione". E Berlusconi, a questo punto, prima per giustificare il suo pupillo ha detto - un vero signore - che la colpa era "della dattilografa". Poi, resosi conto di quanto fosse maldestra questa uscita, ha comunque tagliato la testa al toro rivelando che "sarebbe assurdo voler pretendere che un programma regionale sia originale". Una cosa è certa: la destra sa fare molte cose ma non sa fare quella che conta di più per i cittadini: governare bene. E’ per questo, anche per queste posizioni, per questa scarsa considerazione delle istituzioni e dei cittadini, per questa mancanza di competenza, che non possiamo e non dobbiamo lasciare alla destra la battaglia per la sicurezza. Sarebbe un errore doppio. Perché la destra finirebbe per colorare questa battaglia di toni intolleranti, autoritari e perfino razzisti. E perché invece, se condotta in modo fermo ma pacato e nel pieno rispetto dei valori della democrazia, dei diritti umani e di giustizia, della solidarietà, la battaglia per la sicurezza è una battaglia di sinistra, una battaglia che i nostri elettori, i lavoratori e i ceti popolari sentono in modo sempre più vivo.
Care compagne e cari compagni, la politica, tanto più la buona politica, quella fatta di serietà e impegno per il cambiamento, ha bisogno di un tempo giusto per realizzare le decisioni e mostrarne i risultati. Il riformismo ha bisogno di stabilità. Se l'Italia, nei cinquant'anni di storia della Repubblica, ha avuto poche riforme è anche perché ha avuto poca stabilità. Il ceto politico era sempre lo stesso, il potere sostanziale era sempre nelle stesse mani, ma i governi non riuscivano a durare più di un anno e cadevano al primo scossone negli equilibri interni di questo o quel partito. Le cose, negli ultimi anni, anche grazie al nostro impegno, sono cambiate: i sindaci sono eletti direttamente dai cittadini, così avviene per i presidenti di provincia e, tra poco, sarà così anche per i presidenti di regione. Il bipolarismo si sta affermando e consolidando, anche a livello nazionale. Ma la stabilità dei governi nazionali non è ancora una certezza. Noi vogliamo invece che chi vince le elezioni possa governare per cinque anni e rispondere ai cittadini del suo operato alla fine della legislatura. Perché ciò accada, serve una legge elettorale molto migliore di quella attuale. La riforma elettorale è dunque una assoluta priorità nazionale, perché il paese non può permettersi di andare a votare nel 2001 con un sistema come l'attuale, che non è in grado di assicurare governi stabili e maggioranze coese. Noi siamo impegnati a produrre questo risultato in Parlamento, attraverso un confronto serio e costruttivo tra maggioranza e opposizioni. Nel Paese c'è una domanda forte di riforma della politica, che oggi sta perdendo la speranza in un cambiamento istituzionale e sta quindi assumendo le forme nuove e negative di un massiccio astensionismo. Nel Paese si vanno anche moltiplicando le iniziative referendarie per spingere verso la riforma. Noi abbiamo sostenuto convintamente il referendum dello scorso aprile. Eravamo consapevoli che un fallimento del referendum avrebbe ulteriormente allungato i tempi della riforma. I fatti, purtroppo, ci hanno dato ragione. Il fallimento del referendum non ha reso più facile la riforma, né più forte il centro-sinistra. Anzi, ha riacceso le nostalgie dei proporzionalisti. La riforma è stata allontanata da quella sconfitta, che ha indebolito il profilo di innovazione del centro-sinistra e ha rappresentato il vero successo dell'on. Berlusconi. Noi siamo per la democrazia dell’alternanza, per un sistema bipolare in cui i cittadini decidono con il loro voto chi governa. Per questo lavoriamo affinché il Parlamento approvi una buona riforma elettorale. Me se ciò non accadrà, la situazione andrà comunque sbloccata, checché ne dica Berlusconi. Ce lo hanno chiesto 21 milioni di italiani ad aprile. Ce lo ha chiesto, andando a votare, il 72% dei nostri elettori, la percentuale più alta tra tutti i partiti. E noi, ovviamente, appoggeremo con grande convinzione le iniziative referendarie che coincidono perfettamente con il testo che votammo ad aprile. E’ da questa evoluzione che dipenderà l’assetto definitivo del sistema politico italiano, quello di cui si discute in questi giorni. Se il sistema diventerà integralmente maggioritario sarà inevitabile una nuova, compiuta, stagione del bipolarismo. Fatemelo dire con chiarezza: è sbagliato pensare che la pluralità delle culture politiche debba per forza generare o essere espressa da decine di partiti. Anche il bipolarismo, e persino il bipartitismo, necessitano, al loro interno, di dialettica e pluralità politica. Quella pluralità che è un valore reale, politico e culturale. Ma che si faccia o non si faccia la riforma elettorale, care compagne e cari compagni, noi tutti sappiamo che non riusciremo a conquistare di nuovo la fiducia dei cittadini se non sapremo ricreare, in termini nuovi, senza alcuna nostalgia, ma mobilitando creatività e fantasia, il clima di fiducia, di impegno, di forte energia diffusa, che fece vincere la nostra coalizione, la coalizione dell'Ulivo, il 21 aprile di tre anni fa. Non si tratta di fare un'operazione a tavolino, ma di riannodare fili tra la politica e la società che le vicende di questi anni hanno in parte logorato e talvolta spezzato. Come sapete, in questi anni io non ho mai cambiato idea. Anche quando era difficile sostenere ciò che oggi è giustamente acquisito. Ho sempre pensato e continuo a pensare che l'obiettivo per il quale dobbiamo batterci è un grande Ulivo, in cui viva una grande sinistra. Questa doppia appartenenza, quasi una duplice dimensione di una medesima identità, è ormai iscritta nel codice genetico del nostro partito. Un partito che già con la "svolta" promossa da Achille Occhetto dieci anni fa mise in rapporto di stretta dipendenza il proprio rinnovamento e il proprio rilancio con il disegno di una grande alleanza delle diverse tradizioni e culture del riformismo italiano. Un disegno che fu ripreso all'indomani della sconfitta del 1994, con la proposta di un "nuovo centro-sinistra", che lanciammo dalle colonne de "l’Unità". E’ una grande idea politica, la più importante di questi anni, quella di una nuova sintesi tra le culture riformiste di questo Paese. Quella cattolico-democratica, quella ambientalista, quella laica e quella della sinistra riformista. E’, almeno per quanto mi riguarda, il progetto di una vita. Rimettiamoci sulle tracce di questo sentiero, almeno in parte smarrito, se non vogliamo correre il rischio di ritrovarci, nel 2001, senza Ulivo e senza sinistra. Nessuno ha più interesse di noi, del nostro partito, a rilanciare lo spirito della coalizione. I fatti, che in politica sono innanzi tutto i risultati elettorali, ci hanno detto più volte che il nostro partito cresce quando più fortemente è avvertito lo spirito di coalizione. Ricordiamoci sempre che il risultato migliore del nostro partito, negli ultimi sette anni, è stato il 21 aprile del ’96, quando l’Ulivo sconfisse la destra. E che il consenso cala, anche elettoralmente, quando la coalizione viene ridotta ad una somma di partiti, quasi ad un espediente tattico, privata della sua spinta dinamica, della sua capacità di sprigionare energia positiva. Un grande Ulivo, in cui viva una grande sinistra. Perché le due prospettive sono intimamente legate. Nessuno di noi può pensare ad una sinistra che faccia da sola, che si senta autosufficiente o che coltivi lo sciagurato proposito di riedizioni di fronti "progressisti". E nessuno, in Italia, può pensare oggi di battere il Polo senza l'apporto, essenziale e trainante, della sinistra democratica. Io continuerò, care compagne e cari compagni, a battermi per la ripresa e il rilancio della coalizione. Continuerò a proporre una strutturazione più forte e visibile della coalizione, una ripresa di quello spirito che abbiamo vissuto nella indimenticabile campagna del’96. Perché, lo voglio ripetere ancora una volta, è l’Ulivo il futuro dell’Italia. Proviamo a passare dalle parole ai fatti. E’ la sommessa proposta, in tre punti, che rivolgo ai partner dell’Ulivo e della coalizione di governo. - Uniamoci per sostenere una riforma elettorale e comunque per rafforzare il maggioritario. Così l’Ulivo, il nuovo centro-sinistra, diventerà il simbolo unico e permanente delle competizioni politiche. Alleanza non solo di partiti, ma anche casa della società civile riformista. Non dimentichiamolo mai: nel proporzionale avevamo perso le elezioni del ’96. Le abbiamo vinte nel maggioritario perché centinaia di migliaia di elettori hanno scelto la coalizione e non i partiti che la componevano. Quel di più è un valore che va rilanciato. - Facciamo nella prossima legislatura ciò che, sbagliando, non abbiamo avuto il coraggio di fare in questa: costituiamo alla Camera e al Senato i gruppi parlamentari dell’Ulivo, del nuovo centro-sinistra. - Diamo vita a coordinamenti stabili degli eletti a tutti i livelli e a forme e strumenti di comunicazione integrati e unitari. Nell’attuale condizione istituzionale, i partiti vivranno all’interno di questo processo, conferendo alla coalizione sovranità in importanti decisioni. E le diverse aree del centro-sinistra dovranno porsi il problema di una nuova capacità di coesione, del superamento di una eccessiva frammentazione. Noi, per parte nostra, ci sentiamo impegnati a costruire una sinistra più ampia e più plurale, che si senta soggetto attivo della più vasta alleanza dell’Ulivo. E questo processo è accelerato dalla presenza, ormai in noi, di altre nuove culture politiche, quelle che hanno dato vita ai Democratici di sinistra. C'è un banco di prova regionale, nel nostro immediato futuro, che è anche una straordinaria occasione. In tutte e quindici le regioni a statuto ordinario si vota alla fine di marzo. Vincere queste elezioni è obbligatorio, se vogliamo dare futuro al nostro impegno riformista, al nostro lavoro per cambiare l'Italia. Per vincerle, dobbiamo bandire personalismi, particolarismi ed egoismi di partito o di gruppo. Dobbiamo, tutti, metterci a servizio delle scelte che, caso per caso, regione per regione, si riveleranno le più adatte a far vincere la coalizione. Poco importerà come si etichetteranno, per provenienza di partito, i candidati presidenti: importerà invece se vinceranno o no. Noi Democratici di sinistra, per la forza che abbiamo, ma anche e soprattutto per la storia e la cultura che ci caratterizzano, nutriamo una sola ambizione: quella di concorrere a far vincere, in tutte le regioni, le alleanze di centro-sinistra. Questo è per noi costruire "un grande Ulivo in cui viva una grande sinistra". Questo è per noi fare tesoro della dura lezione che gli elettori hanno voluto impartirci, tre mesi fa, a Bologna. Una lezione che dovremo dimostrare coi fatti di avere mandato a memoria. Non per Bologna, per l’Italia intera. Non per ieri, ma per oggi e per domani. Basta con l’arroganza, con le illusioni di autosufficienza, con le ambizioni personali che fanno perdere il senso del disegno comune, con le tentazioni egemoniche sulla società civile. Basta con l’illusione che possano esserci rendite di posizione garantite per sempre. Mai, tra noi, gente che ha perso la capacità di guardare al proprio dovere, alla politica, con la consapevolezza dei limiti della politica stessa. Parlo di dovere, parlo dell’importanza di concepire la politica come una missione, non come fredda tecnica. Non si tratta solo di uno stile di vita e di pensiero. Si tratta anche di un'idea di partito, in parte antica e in parte nuova, che dobbiamo fare nostra. Siamo stati sommersi, negli ultimi tempi, di retorica sull'importanza dei partiti. Non saremmo qui, noi tutti, se non credessimo nella necessità del ruolo democratico dei partiti. Ma questa convinzione non ha nulla a che vedere con l’astratta invocazione della centralità di partiti ridotti poi, nei fatti, a strumenti di ristrette cerchie oligarchiche. Il modo migliore per salvare il ruolo e la funzione democratica dei partiti è non temere di aprirli e innovarli, se necessario radicalmente. Questo è ciò che dobbiamo riuscire a fare in questo autunno di fine secolo, che abbiamo deciso di impiegare per riunirci a congresso, un congresso che culminerà nella assise nazionale che terremo in gennaio a Torino. Un congresso nuovo, in cui gli iscritti conteranno molto di più. Un congresso che si proporrà di dar vita ad un confronto politico vero ed unitario, di produrre decisioni fortemente innovative sulla forma e la vita del partito e soprattutto di produrre il progetto di cui finalmente il partito si doterà, il cui obiettivo è definire i lineamenti fondamentali della sinistra italiana del Duemila. Abbiamo scelto Torino perché, come poche altre città italiane, è crocevia insieme storico e geografico: tra Italia ed Europa, innanzi tutto, ma anche tra la storia, la grande storia democratica e riformista italiana - penso a Bobbio e a Foa, a Gobetti e a Einaudi, a Gramsci e a Frassati - e il futuro, le grandi sfide che il nuovo millennio ci pone dinanzi: il lavoro che cambia, la rivoluzione tecnologica, la globalizzazione dei mercati, la società dell'informazione. Tra memoria e mutamento, dovremo essere capaci di avanzare alla società italiana un progetto politico credibile, dalle profonde radici e dai grandi orizzonti; insieme a un modello di partito rinnovato e riformato, abitabile per le donne, aperto al loro talento, alle loro idee; abitabile per le ragazze e dai ragazzi di oggi, aperto alla fantasia politica e progettuale della Sinistra Giovanile; abitato da una nuova generazione di dirigenti, di cui abbiamo bisogno urgente. Questo è il sogno, questo è il principale obiettivo che coltivo, dal giorno in cui sono stato chiamato a dirigere il nostro partito. Da quel giorno sono passati dieci mesi. E’ stato un anno difficile, intenso, di cui non faccio molta fatica a ritrovare il giorno più bello, il giorno in cui, anche grazie all’ostinazione e la coerenza con cui abbiamo sostenuto il suo nome, Carlo Azeglio Ciampi è stato eletto Presidente della Repubblica. Il miglior Presidente della Repubblica che l’Italia potesse avere. Ma di quest’anno ricordo anche il giorno più brutto, il giorno più triste e carico di dolore. Il giorno in cui, così come facevano vent’anni fa, un commando di terroristi delle Brigate rosse uccideva a Roma un intellettuale, uno studioso, mentre si recava al lavoro percorrendo la strada che faceva ogni mattina. La moglie di Massimo D’Antona, Olga - che oggi è qui con noi, insieme a sua figlia Valentina - parlando alla manifestazione sindacale di Piazza del Popolo si domandò, domandò a tutti noi, in quale caverna avessero mai vissuto gli uomini che spararono a suo marito. Da quale caverna fossero mai usciti per non accorgersi della profonda trasformazione e del progresso politico e sociale del nostro Paese. Olga aveva ragione. Le sue parole erano e sono vere. L’Italia è cambiata. E noi siamo stati i protagonisti di questo cambiamento. Di questo siamo consapevoli, e lo diciamo non per vanagloria, ma perché sappiamo che è a noi che spetta la responsabilità di proseguire su questa strada. Dobbiamo, allora, accelerare il cammino. Dobbiamo arrivare alla fine di questa legislatura potendo dire: cinque anni fa abbiamo trovato un paese lontano dalla nuova Europa e in crisi economica; restituiamo agli italiani un paese europeo, più civile e in ripresa. Così come a tutti noi dobbiamo essere capaci di restituire una dimensione della politica "alta". Della politica che si fa con il cervello e con il cuore, con la ragione e con la passione. Della politica fatta di impegno civile e non di carrierismo. Di voglia di rischiare e di mettere in gioco se stessi. Quella stessa idea della politica e dell’impegno civile che in tutti questi anni ha spinto Daria Bonfietti - anche lei, oggi, è su questo palco - a lottare per la trasparenza e la verità. A lottare contro silenzi, resistenze e deviazioni, per non lasciar chiusa la verità dentro i mille pezzi di quell’aereo esploso in aria e inabissatosi al largo di Ustica quasi vent’anni fa. A lottare come ancora sono costretti a fare Luciana e Giorgio Alpi, la mamma e il papà di Ilaria, per sapere la verità sull’assassinio di una ragazza, di una giornalista coraggiosa, che cercava a sua volta verità, perché questo era il modo in cui intendeva il suo lavoro. Anche Luciana è qui con noi, oggi, insieme a Olga, a Valentina, a Daria. Quattro donne. E forse non è un caso che siano donne, donne italiane, a rappresentare fierezza, coraggio, impegno civile. Noi le abbracciamo, le abbiamo sostenute e continueremo a sostenerle, con ancora maggiore forza, così come continueremo a sostenere e a rappresentare l’Italia onesta, l’Italia che lavora, l’Italia civile, l’Italia che è pronta ad entrare nel nuovo millennio sapendo che dentro di sé avrà sempre di più - e sarà una ricchezza - tutti i colori del mondo. Una persona che per noi è un riferimento, a cui vogliamo bene, Vittorio Foa, ha detto una volta che essere di sinistra significa "pensare, oltre che a se stessi, anche agli altri e pensare, oltre che al presente, anche al futuro". Facciamo nostre queste parole. Fatele vostre voi, ragazze e ragazzi italiani, che vivrete i vostri desideri, le vostre preoccupazioni, le vostre gioie nel nuovo millennio e nel mondo che verrà. Fatelo non accontentandovi mai delle cose così come le troverete, non permettendo mai che le vostre speranze e i vostri ideali si debbano inchinare alle esigenze del momento. Fatelo senza pensare che il vostro sguardo si debba fermare alla montagna che avete di fronte, senza pensare che l’universo finisca sulla riva del fiume, senza pensare che l’umanità finisca con le persone che abitano vicino a voi, che hanno il vostro stesso colore della pelle e le vostre stesse opinioni. Fatelo avendo il coraggio di "staccare l’ombra da terra". Sapendo che i nostri tempi saranno sempre più aperti alle energie creative dell’uomo, sapendo che ognuno di voi può contribuire al mutare degli eventi, sapendo che dal lavoro delle vostre mani, da quello delle vostre menti, dai sentimenti e dalla passione dei vostri cuori, potranno venire le risposte ai mali che affliggono il mondo, potrà venire la forza per combattere la miseria e l’ignoranza, l’ingiustizia e la violenza. Fatelo, soprattutto, sapendo che in questa impresa non sarete soli. Che lungo il cammino troverete altre ragazze e altri ragazzi, altre donne e altri uomini, che pensano che questa debba essere la politica, che questa debba essere la sinistra. Walter Veltroni
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