[GARGONZA:9147] Re: Bravo il Barak
stefano gatto  Mercoledi`, 12 Luglio 2000


Rolando Alberto Borzetti wrote:

> Scontro sulla trattativa coi palestinesi, tre partiti
> lasciano la coalizione. Esecutivo in minoranza in Parlamento
>
> Israele, governo in crisi
> Barak: andrò a Camp David
>
> ENRICO FRANCESCHINI
>
>  GERUSALEMME - E' costata cara a Ehud Barak la decisione di andare a Camp
> David: tre partiti della sua coalizione lo hanno abbandonato, il governo è
> caduto, e il premier di Israele si è ritrovato di colpo a guidare una
> minoranza in Parlamento. Il leader laburista aveva l'appoggio di 68 deputati
> sui 120 della Knesset, una fragile, eterogenea, litigiosa alleanza di
> centro- sinistra, rimasta insieme per un anno esatto; ora di deputati gliene
> restano soltanto 42, dopo le dimissioni del partito dei Russi (4 seggi), di
> Shas (17) e del partito Nazional-Religioso (5). Motivo della rottura: il
> vertice negli Stati Uniti, a Camp David, la residenza di campagna del
> presidente americano che da martedì ospiterà Barak e Arafat.
>
> Per i partiti israeliani di centro, il premier si appresta a fare
> concessioni inaccettabili e rifiuta di stabilire insieme a loro i punti
> fermi su cui non si può trattare. In realtà, questa è un po' come la
> scoperta dell'acqua calda: i moderati conoscevano le intenzioni di Barak, ma
> sono sempre stati scettici sull'opportunità di un accordo con i palestinesi.
> E arrivato il momento della verità, sono obbligati a farsi da parte. Non a
> caso, i tre partiti che ieri hanno abbandonato Barak militavano nel governo
> di centro-destra guidato da Netanyahu fino allo scorso anno.
>
> Può andare lo stesso al summit il premier di un governo che non esiste più?
> Barak - e oggi lo ha ripetuto - ritiene di sì, per due ragioni. La prima è
> che in Israele il primo ministro viene eletto direttamente dal popolo,
> mentre con un secondo voto separato gli elettori scelgono il partito a cui
> dare la loro preferenza. Barak ha vinto le elezioni del maggio '99 con il 54
> per cento dei voti, gli israeliani sapevano che voleva fare la pace con i
> palestinesi, quindi ora lui si sente autorizzato a proseguire la trattativa
> fino in fondo. La seconda ragione è che Barak ha la possibilità di formare
> un nuovo governo, aggiungendo ai 42 seggi di cui dispone una decina di seggi
> di partiti radicali laici (che rifiutavano di sedere in un governo coi
> religiosi) e facendosi poi appoggiare "dall'esterno" da una decina di
> deputati dei partiti arabo-israeliani. In gergo si chiama "governo di
> minoranza", comunque utile a sopravvivere.
>
> Tanto, se a Camp David ci sarà uno storico accordo, Barak dovrebbe poi
> sottoporlo a un referendum nazionale e contemporaneamente potrebbe indire
> elezioni anticipate. Mentre se a Camp David non ci sarà accordo, Israele
> dovrà pensare a un nuovo conflitto, anziché a un nuovo governo.

Egregio Rolando:

Non so se il "bravo Barak" del tuo titolo sia da prendere alla lettera o abbia
un tono umoristico: mi permetterai comunque un breve commento sul negoziato di
Camp David.

Ritengo del tutto corretta la scelta di Barak di andare avanti nei negoziati.
Tutti sappiamo che Clinton vuole a tutti i costi lasciare la presidenza con
qualche grande risultato di politica estera al suo attivo, visto che le grandi
riforme che si era ripromesso in politica interna sono fallite anche se non per
colpa sua. E´in questo contesto che va visto il nuovo Camp David.

Se Clinton ha fretta, tale fretta mi sembra sia benvenuta per obbligare i vari
attori del processo di pace in Medio Oriente a stringere i tempi: i negoziati si
erano da tempo avvitati su stessi, era necessario un nuovo aut - aut che non
poteva che venire da Washington.

L'elezione di Barak aveva acceso molte speranze, forse eccessive: la realta'
della societa' israeliana e' oggi talmente complessa e frastagliata da impedire
facili suddivisioni tra falchi e colombe, pacifisti e guerrafondai.

Se Barak non e' una colomba, di certo il suo atteggiamento nei confronti del
proceso di pace rappresentava una novita' in positivo rispetto al voluto
immobilismo di Netanyahou, il cui obiettivo era di cristallizzare il conflitto
ad infinitum.

Questo non deve pero' far credere che Barak rappresenti un Israele disposto alla
pace ad ogni costo: nessuno in Israele considera opportuno cedere a tutte le
pretese palestinesi pur di avere la pace. Ne' nessuno, nemmeno i piu' pacifisti,
prende come riferimento le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, prodotto di
una situazione internazionale molto diversa dall' attuale. Un negoziato che
voglia prendere come punto di riferimento le Risoluzioni ONU e' destinato a
fallire (come e' stato sino ad oggi) perche' quelle posizioni di partenza non
sono accettate dalla societa' israeliana nel suo complesso (non solo dai
falchi).

Da qui la relativa delusione del periodo successivo all'elezione di Barak: che
divide la societa' israeliana in "buoni e cattivi", "falchi e colombe", pensava
ad una conclusione rapida della vicenda, soprassedendo sulle enormi difficolta'
oggettive del negoziato. La verita' e' che con Netanyahou si sarebbe rimasti
fermi in eterno, con Barak si puo' navigare a vista.

A fronte della radicalizzazione del confronto tra israeliani e palestinesi, la
diplomazia statunitense aveva pensato di sbloccare il dossier siriano -
libanese. L'incontro di Ginevra tra Clinton ed Assad era pero' fallito perche'
il presidente siriano si era incaponito sulla pretesa di ritiro immediato e
completo delle forze israeliane alle frontiere del 1967. Assad si scudava sulla
Risoluzione in materia del Consiglio di Sicurezza e sul preteso assenso di Rabin
sulla questione. Tutto giusto in teoria, ma fino a che punto e' realistico
considerare come punto di partenza un accordo ipotetico (probabilmente reale) ma
non confermato dai fatti (anche per la prematura morte di Rabin)? Siamo sicuri
che in quel caso i falchi siano stati gli israeliani? Io credo di no, Assad ha
compiuto un errore non sbloccando il negoziato, trasmettendo in questo al figlio
Bachir una patata bollente che non e' detto che sia in grado di gestire.

L'eventuale accordo con la Siria avrebbe poi dovuto facilitare la ritirata
israeliana dal Libano, che e' avvenuta lo stesso in modo pero' in modo confuso,
indebolendo le posizioni di Barak in Israele: l'opinione pubblica israeliana
non chiedeva altro che abbandonare il Libano al piu' presto, ma il modo in cui
il ritiro e' avvenuto e' stato interpretato da molti come una sconfitta, la
prima della storia militare di Israele. Sarebbe stato molto piu' facile per
Barak lasciare il Libano a seguito di un accordo complessivo con la Siria.

A questo punto non restava che affrontare di petto il negoziato - chiave, quello
con i palestinesi.

Sapendo pero' che entrambi i negoziatori sono relativamente deboli:

- la maggioranza su cui conta Barak e' eterogenea ed instabile, come del resto
e' inevitabile in un paese socialmente ed etnicamente complesso, spaccato in due
dall' eterno conflitto ed alle prese con un sistema elettorale perfettamente
proporzionale che acuisce l'instabilita'. Una maggioranza comoda per una pace a
tutti i costi non esistera' mai in Israele, il leader che voglia avanzare verso
la convivenza con i palestinesi dovra' sempre correre forti rischi, non solo
politici ma anche personali;

- l'esperienza di governo dell' ANP e' stata oggettivamente deludente. Arafat
deve fare i conti si' con le difficolta' economiche dell' enclave palestinese ma
soprattutto con l'ingordigia ed il malgoverno di tanti dei suoi: ci si poteva
aspettare qualcosa di piu' in termini di idealita' e voglia di fare bene da una
generazione di dirigenti temprati dalle difficolta' e dalla lotta. Purtroppo non
e' stato cosi' ed il governo dell' ANP non ha al suo attivo che ben pochi
risultati incoraggianti. Tanto che il radicalismo e l'opposizione interna
crescono:  non e' solo la reazione di chi non vuole compromessi con Israele ma
anche il rigetto dello spettacolo d'inefficienza del governo dell'Autorita'
Palestinese.
Arafat sa poi di avere poco tempo a disposizione e di dover fare di tutto per
trovare un accordo con Israele a breve termine. Oggi come oggi e' impossibile
prevedere che tendenze prevarranno in Palestina dopo l'eventuale scomparsa di
Arafat.

Tenendo conto di tutti questi fattori, Barak ha fatto bene ad andare a Camp
David.
Non ha ricevuto carta bianca dai cittadini israeliani, ma si' un consenso di
massima sul principio del negoziato con i palestinesi: questo era stato il senso
della sua elezione. Per fare la pace non si puo' aspettare che la maggioranza
governativa sia solida, perche' non lo sara' mai.
Cito Sharansky, noto dissidente ed ora ministro dimissionario degli Interni
(partito Israel Be'alya, rappresentante della comunita' russa): "Un capo di
governo dovrebbe assicurarsi il sostegno dei suoi connazionali e quindi cercare
il consenso internazionale.Invece lui fa l'opposto: spera che il mondo convinca
i citadini israeliani della bonta' di un trattato". (Intervista sul Corriere
della Sera del 10 luglio).

Forse sara' deformazione professionale dato che faccio il diplomatico, ditemelo
se e' cosi', ma come si puo' ragionevolmente pensare che un governo di
coalizione, od un parlamento, approvino pubblicamente, prima di concluderlo, le
linee maestre di un trattato di tale complessita'? Cosi' facendo esporrebbero
all'altra parte le loro posizioni negoziali, rendendo molto piu' debole la
posizione dei negoziatori.

Non a caso nel diritto internazionazle esiste l'istituto della ratifica di un
trattato internazionale, normalmente negoziato e concluso dall' esecutivo e
convalidato a posteriori dal legislativo.

Quindi Barak fa benissimo a negoziare rischiando, per poi giocarsi tutto nei
confronti dell'opinione pubblica una volta firmato l'accordo. E' cosi' che si fa
politica internazionale, non sbandierando urbi et orbi le proprie posizioni.

La mia impressione e' che i partiti che stanno abbandonando Barak non siano
affatti preoccupati dalle prospettive del processo di pace, ma piuttosto da piu'
immediati obiettivi interni. Ad esempio, i problemi dello Shas sono legati al
finanziamento delle proprie scuole, non a dissensi sui negoziati. Ed il capo del
partito e' andato in prigione per prosaiche questioni d'illecito uso di fondi,
non per essersi opposto al processo di pace per ragioni ideali.

In conclusione, speriamo che da Camp David venga fuori qualcosa e che il
processo di pace vada avanti. Che ognuno si assuma le proprie responsabilita':
Barak ed Arafat rischiano grosso, ma sanno che non trovare un accordo ora puo'
portare ad una nuova radicalizzazione del conflitto.

Il primo obiettivo di Clinton sara' pure quello di entrare nella Storia (a mi
avviso ne fa gia' parte): ben venga anche questo se il risultato e' un
contributo alla pace.

Cordali saluti.


Stefano Gatto




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