Da repubblica.it :
SPETTACOLI & CULTURA La replica dopo la pioggia di critiche sulla proposta di risorse per teatro e scuola
"Non ho scritto da nessuna parte che sarebbe meglio tagliare i fondi alle attività culturali"
Il cambio di scena che serve alla cultura
di ALESSANDRO BARICCO
STRANO PAESE: alle volte sembra morto, altre volte sembra elettrico. Si sveglia a strappi, si direbbe. Sulla faccenda dei soldi pubblici alla cultura è saltato su niente male: un sacco di interventi, in questi giorni, ognuno a dire la sua. Evidentemente abbiamo qualche conto aperto, con quella storia: o conserviamo, nascosta nel controsoffitto della nostra coscienza, l'impressione vaga di non averla mai veramente risolta. Bene. Si aprono i dibattiti perché la gente dibatta: fatto.
Quanto a me, ho più che altro passato la settimana a chiedere alla gente di leggere tutto il mio articolo e non solo il titolo o quel passaggio là, o quella frase lì. È un gioco di pazienza. È come cercare di dettare una ricetta a uno che ti ascolta mentre gioca alla playstation: dato che inesorabilmente salta dei passaggi, alla fine il piatto fa schifo, e te lo dice. Ha ragione lui, hai ragione tu.
La mia proposta, lo ricordo, era questa (la do in una versione così sintetica che potete tranquillamente continuare a giocare). 1. Spostare l'attenzione, le intelligenze e le risorse su scuola e televisione perché è soprattutto lì che in questo momento si combatte la battaglia per la difesa dei gesti, dei valori e del patrimonio della cultura.
Secondo punto. Abituarsi all'idea che il denaro pubblico può e deve fare un passo indietro venendo via da quella posizione centrale, e spesso monopolistica, che tende ad avere nella vita culturale del Paese. Terzo. Non aver paura di lasciare campo all'iniziativa privata e lavorare, piuttosto, per metterla in condizione, con l'aiuto del denaro pubblico, di andare a lavorare nella direzione della qualità e della diffusione più ampia e giusta possibile. Fine. (Come si vede, non c'è scritto da nessuna parte che sarebbe utile tagliare i fondi alla cultura: si suggerisce di collocarli diversamente, e di usarli al servizio di un modello differente. Se suggerisco di spostare un paziente gravemente malato da un reparto all'altro, pensando così di curarlo meglio, magari sbaglio, ma non c'entro niente con chi suggerisce di prendere il paziente e di sistemarlo in corridoio, che poi si vedrà, se crepa pazienza.)
Questi tre punti descrivono uno scenario: collocano una battaglia giusta e sacrosanta in un gioco diverso, con regole differenti e un campo da gioco ridisegnato. L'unica domanda utile, a questo punto sarebbe: è un modello che ci convince o preferiamo quello che ci siamo scelti anni fa e che è tuttora operativo? Provo a raccogliere gli interventi di questi giorni e azzardo una risposta. Ad alcuni sembra un modello buono, molto vicino a ciò che da tempo vanno rimuginando; ad alcuni sembra un modello magari brillante ma sostanzialmente inutile, perché tutto si risolverebbe applicando il modello attuale con maggior onestà, trasparenza e rigore; ad alcuni, infine, sembra un modello semplicemente irrealistico, poco più che una ingenua e irresponsabile fantasticheria.
Sono tre posizioni che capisco, e che rispetto, soprattutto quando sono porte con eleganza. Spero che vadano in circolo, nel sistema sanguigno dell'intelligenza collettiva, e producano, alla lunga, un passo avanti nel nostro modo di concepire il rapporto tra denaro pubblico e cultura. Una chiosa, però, mi preme farla, ora, a proposito dell'irrealismo, dell'ingenuità, dell'irresponsabilità, ecc.
Mettete la Playstation in pause e io prometto che sarò brevissimo. In qualsiasi sistema bloccato, che ha fissato le sue regole e tracciato dei confini, quel sistema è l'unica possibilità: tutto il resto è sogno. Ma se prima sblocchi il sistema, e accetti il campo aperto, molto incauto diventa fare previsioni su cosa è possibile e cosa no. Traduco: fare il teatro lirico in un modo diverso da quello usato dallo Stato attualmente è impossibile fino a che lo Stato farà il teatro lirico in quel modo con la scusa che in altri modi è impossibile. Traduco ancora: nessuno può fare meglio dei Teatri Stabili in un mondo con i Teatri Stabili: ma nessuno può dire che questo sarebbe impossibile in un mondo senza Teatri Stabili.
È una faccenda di cambio di scenari, di regole, di confini. Quando vedo tanta, appassionata gente di teatro chiedersi incredula se mi sono bevuto il cervello a immaginare un avvento dell'impresa privata nel loro mondo, riconosco la stessa miscela di buon senso e cecità che mi affascina in altri umani messi di fronte a situazioni simili: i dirigenti della British Air il giorno prima che aprissero un volo low cost Londra-Dublino, i direttori della Treccani il giorno prima che inventassero Google e Wikipedia, i direttori di giornali l'ultimo giorno prima di vedersi uscire la free-press, gli editori il giorno in cui qualcuno inventò i tascabili, il mobiliere il giorno prima di scoprire che esisteva Ikea, e il mio barista il giorno prima che inventassero Starbucks.
Non vorrei si scatenasse un dibattito sul caffè americano e sui comodini Ikea (vedo già il titolo: Teatri low cost!). Vorrei solo ricordare che dove l'intervento pubblico non blinda un mercato (e perfino dove lo blinda ma non completamente, come nelle linee aeree), qualsiasi linea di demarcazione tra possibile e impossibile è incauta. Fino al giorno prima, quella era tutta roba impossibile. Dal giorno dopo stava cambiando i nostri gesti, le nostre abitudini, la nostra quotidianità.
Ancora una cosa, l'ultima. Perché c'è un'obbiezione che ho sentito ripetermi fino alla nausea, in questi giorni. Inizia così: "Proprio adesso...". Proprio adesso che ci sarebbero da combattere i tagli del governo tu te ne esci con una proposta di quel tipo? Nella sua formulazione più brusca, l'obbiezione suona così: noi qui a lottare e tu stai lì a portare acqua alla politica del governo. Che dire... Ho già detto e ripetuto che la differenza tra ciò che io propongo e ciò che questo governo fa mi sembra immensa. Ma so anche che non è questo il punto. Il punto è che quello che io dico può essere usato per portare acqua a quella politica. Basta un semplificazione qua, una massiccia censura là, un'aggiustatina...
Lo so, è vero. Ma vorrei dire che è un rischio da correre. La cautela strategica ha ucciso fin troppe idee, nella sinistra, in questi anni. Abbiamo idee, soluzioni, visioni, ma non è mai il giorno giusto per dirle a voce alta. Sarà vent'anni che, più o meno confusamente, penso le cose che ho detto e posso testimoniarlo serenamente: non ho mai visto passare un giorno che secondo voi fosse quello giusto per dirle. Sempre stai a disturbare la delicatissima partita a Risiko che state giocando. E invece pensare è un gesto che non può farsi dare il calendario dalla politica.
Quando cerchiamo di abbozzare idee formate, schizzare modelli alternativi, immaginare soluzioni inedite, stiamo facendo un gesto lungo, sporto nel futuro: stiamo cercando di arrivare puntuali a un appuntamento che avremo tra anni: non domani, non alla prossima riunione sindacale, non alla prossima seduta della Commissione parlamentare, non alle prossime elezioni. Per quello c'è la politica. Ma riflettere, è un'altra cosa. Una cosa che non dobbiamo temere, anche quando strategicamente è scomoda. Un compito per cui nessun giorno è sbagliato.
(4 marzo 2009)