da mariok il 30/05/2016, 18:35
LE MODIFICHE COSTITUZIONALI
Con la riforma entreremo nella «vera» Seconda Repubblica
Dobbiamo migliorare le capacità decisionali della nostra democrazia - l’efficienza delle istituzioni, la competitività dell’economia, il rispetto delle leggi — quali che siano le nostre idee politiche. Nelle intenzioni dei suoi estensori, questo è il fine del progetto
di Michele Salvati
«La riforma costituzionale è problema troppo serio per essere affidato ai soli costituzionalisti»: l’adattamento di questa famosa battuta mi è venuto spontaneo notando la piega che la discussione sta prendendo. Nessuno nega l’importanza del ruolo dei costituzionalisti, imprescindibile, ma il protagonismo che sinora hanno avuto nel dibattito è ingiustificato: la riforma è un grande problema storico-politico, che riguarda tutti i cittadini e richiede tutte le competenze — di storici, politologi, economisti, sociologi, e altri ancora — che sono necessarie per valutare le cause e soprattutto le conseguenze di un mutamente di tale rilievo.
Se il referendum passerà entreremo in una «vera» Seconda Repubblica: avere così definito l’assetto politico in cui siamo entrati più vent’anni fa, dopo la riforma elettorale del 1993 e le elezioni del 1994, è stata una semplificazione giornalistica che non corrisponde alle ragioni per le quali i francesi distinguono in questo modo i diversi regimi repubblicani. Entreremo — anzi, cominceremo a entrare — nella Seconda Repubblica, perché l’adattamento alla svolta impressa dalla riforma non sarà breve: le transizioni, come gli esami, non finiscono mai.
Partiamo dall’origine. Storici e giuristi hanno ampiamente documentato come la Costituzione del 1948 sia frutto non solo di un compromesso tra orientamenti ideologico-culturali diversi (democristiano, socialista, liberale) ma di un problema politico allora dominante: come porre limiti e freni all’azione dell’esecutivo nel caso — non improbabile — che le elezioni venissero vinte dal Partito Comunista e dai suoi alleati. Anche grandi personalità costituenti, che avevano a cuore l’obiettivo dell’efficacia dell’azione di governo e riconoscevano l’importanza di una democrazia capace di decidere, dovettero rassegnarsi al fatto che la cortina di ferro — ne aveva appena parlato Churchill — attraversava il nostro Paese e bisognava imbrigliare quanto possibile un partito anti-sistema che avesse ottenuto una maggioranza elettorale.
Non era solo l’anomalo bicameralismo paritetico e indifferenziato a rendere faticoso il processo decisionale. Erano la stessa struttura del processo legislativo, i regolamenti parlamentari, la legge elettorale proporzionale a produrre effetti di rallentamento che solo una mediazione politica quasi consociativa era in grado di superare: di questa fu maestro il Partito comunista quando divenne chiaro che la sua estromissione dal governo, la conventio ad excludendum, era un dato di fondo della Prima Repubblica.
Insomma, la lentezza e l’incoerenza delle decisioni, la moltiplicazione dei poteri di veto, gli ostacoli frapposti a riforme promosse dal governo e non condivise dall’opposizione, erano caratteri emergenti del modello di democrazia della nostra carta costituzionale, ai quali il sistema dei partiti si adattò e sostenne. Adattandosi, produsse esiti indesiderati: il debito che abbiamo sulle spalle, l’inefficienza delle istituzioni, la fatica a riformare e a reagire a mutamenti esterni, derivano in larga misura dalla Prima Repubblica.
E l’aspirazione alla Grande Riforma, il mito della Governabilità, rimasero aspirazioni e miti fino a quando la situazione politica non mutò radicalmente a seguito di fratture interne ed internazionali: l’implosione dell’Unione Sovietica e la scomparsa della minaccia comunista; la crisi politica italiana dei primi anni 90 che spazzò via i vecchi partiti; il nuovo regime economico neoliberale e globalizzato, che sostituì il tollerante regime di Bretton Woods che aveva accompagnato gran parte della Prima Repubblica; il trattato dell’Unione Europea e l’Unione Economica e Monetaria che trasformarono l’Europa da madre in matrigna, come molti pensano con qualche ragione. E’ ponendosi all’altezza di questi cambiamenti storici che va valutata l’opportunità di una riforma costituzionale, non ragionando sulla base di principi giuridici astratti e, sotto sotto, con il rimpianto per il lasco andare del vecchio regime.
Si tratta di cambiamenti che, in larga misura, sono avvenuti a livello internazionale o europeo: possiamo auspicare che in futuro possano modificarsi ancora, riportandoci al «mondo di ieri» della Golden Age e dei trent’anni gloriosi successivi alla guerra. Come Paese semi-periferico, possiamo fare poco per ottenere questo scopo. Nel frattempo dobbiamo andare avanti e migliorare le capacità decisionali della nostra democrazia - l’efficienza delle sue istituzioni, la competitività della sua economia, il rispetto delle sue leggi — quali che siano le idee politiche che professiamo.
Nelle intenzioni dei suoi estensori, questo è il fine della riforma costituzionale. Speriamo che alle intenzioni corrispondano i risultati, ma questo, se passa il referendum, lo vedremo tra molto tempo.
29 maggio 2016 (modifica il 29 maggio 2016 | 17:42)
« Dopo aver studiato moltissimo il Corano, la convinzione a cui sono pervenuto è che nel complesso vi siano state nel mondo poche religioni altrettanto letali per l'uomo di quella di Maometto» Alexis de Tocqueville