da flaviomob il 04/02/2015, 18:01
La logica di guerra occidentale ha generato prima Bin Laden e poi l'ISIS stesso.
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Da AMNESTY INTERNATIONAL
I AMNESTY - TRIMESTRALE SUI DIRITTI UMANI
Gennaio 2015
IL NEMICO DI TURNO
Di STEFANO CITATI
Nell’umidità costante dell’estuario del Tigri e
dell’Eufrate ha bollito lentamente per anni la
pentola a pressione dalla quale è scaturito lo
Stato islamico. La ricetta è stata fornita dagli americani,
la materia prima dalla guerra in Iraq. Il risultato è
il compimento, per ora parziale, del sogno ripreso
direttamente dai successori di Maometto: un califfato che
riunisca, anche fisicamente, la “umma” sunnita.
Tra le baracche col tetto di lamiera del campo di prigionia
fatto sorgere dagli americani alla periferia di Umm Qasr,
si è diffusa l’ideologia che ha portato alla fondazione
dello Stato islamico, esteso tra Siria e Iraq. Un’idea nata
circa 10 anni fa, nel ribollire della guerra civile irachena,
nella battaglia contro l’invasore infedele americano e
occidentale (il sud del regime di Saddam era stato affidato
a britannici e italiani, acquartierati i primi a Bassora,
i secondi a Nassiriya). Nella prigione, simile a una
Guantánamo mediorientale, venne condotto nel 2004 Abu
Du’a, secondo alcune cronache poco più che un ladruncolo,
un maneggione dal corpo tatuato che faceva affari più o
meno illegali nelle zone di confine. Ne sarebbe uscito pochi
anni dopo (o forse solo dopo una decina di mesi), come Abu
Bakr al Baghdadi, il prossimo e futuro leader di un gruppo
prima affiliato ad al-Qaeda, poi liberatosi dal marchio del
franchising del terrore islamico, per giocare in proprio nel
momento decisivo delle primavere arabe.
Nella costruzione del mito, anche personale, dell’uomo
da 10 milioni di dollari – la taglia posta dagli Usa,
seconda solo a quella del dottor Zawahiri, succeduto a
Bin Laden – e califfo di uno stato ad ora vasto come
il Texas, si ricorda la sua laurea in studi islamici a
Baghdad e le sue qualità carismatiche.
Su queste ultime, anche i guardiani di Camp Bucca pare
fossero d’accordo; secondo i racconti di alcuni compagni
di detenzione era considerato un “fixer”, un paciere nelle
continue diatribe che scoppiavano nell’affollato carcere.
Per i suoi futuri compagni di avventura, almeno quelli
che hanno finito per abbandonarlo, era un personaggio
carismatico, che teneva chiuso in sé un fondo oscuro,
come se non volesse rivelare del tutto le sue intenzioni
più profonde.
Entrare a Camp Bucca fu, come testimoniano diversi
ex detenuti, una manna. Si era liberi d’incontrarsi,
scambiarsi idee, con un sacco di tempo libero e pochi
controlli. “Se non ci fosse stata la prigione americana,
non ci sarebbe lo Stato islamico adesso. Bucca era una
fabbrica. E noi ne siamo il prodotto. Ha forgiato la nostra
ideologia”, secondo il racconto pubblicato dal Guardian
di Abu Ahmed, che due anni fa ha abbandonato il gruppo
con il quale Abu Bakr stava creando lo Stato islamico.
Il 90 per cento dei circa 100.000 detenuti passati per il
campo (ceduto in gestione agli iracheni nel 2009) sono
andati (o tornati) a combattere con gli “insurgents”,
secondo il lessico del Pentagono. Un documento
riservato della Croce Rossa sostiene che il 90 per cento
dei detenuti del carcere americano sia stato arrestato
per errore. Secondo fonti irachene 17 dei 25 leader
dello Stato islamico si sono “diplomati” a Camp Bucca,
crogiolo di odii e vendette, nello stesso periodo in cui il
ladrone di Samarra, dove Abu Bakr è nato nel 1971, si
trasformava da crisalide a farfalla della jihad sunnita,
facendo di Abu Musab Al Zarqawi il suo modello.
Il giordano venuto a combattere in Iraq per la Guerra santa
contro i crociati occidentali è stato il primo a discostarsi,
attorno al 2003, dal modello dominante della jihad di
al-Qaeda, sposando la causa sunnita e spostando la
frontiera della crudeltà sempre più in là, con i primi
video delle decapitazioni, come quella dell’ostaggio
americano Nick Berg nel 2004. Era convinto, forse non
a torto, che gli invasori stessero consegnando il paese
alla maggioranza sciita, strappandola al controllo che i
sunniti esercitavano sotto Saddam. Due anni dopo venne
colpito in un attacco mirato degli americani a Baquba,
a nord di Baghdad, di recente divenuta “frontiera”
meridionale del califfato. Alcune fonti arabe fanno
notare la coincidenza dell’ascesa di al Baghdadi con
l’eliminazione di al Zarqawi, per porre l’accento sul fatto
che il califfo sia in buona parte un prodotto americano
(come Osama bin Laden, logista dei rifornimenti bellici
americani durante la Guerra santa dei mujahiddin
contro i sovietici in Afghanistan).
Quella di al Zarqawi era una guerra senza quartiere e
senza stato. Dieci anni dopo, prima attraverso le battaglie
contro il raìs siriano Assad ad Aleppo e poi attraverso
conquiste mirate di campi petroliferi, di crocevia di
traffico tra Iraq e Siria, di tasse e ruberie, di sequestri
e vessazioni e con la potente lente d’ingrandimento dei
social network a moltiplicare in Occidente gli effetti
mediatici delle teste mozzate, al Baghdadi ha fatto della
sua internazionale del terrore (alcuni suoi luogotenenti
vengono dal Maghreb e soprattutto dalla Cecenia), una
nazione che rispetta il credo islamico assoluto, almeno
secondo la visione del gruppo.
Ed ecco allora i racconti di conversioni forzate, le regole
ferree per le donne, l’armamentario dell’islamismo
radicale che spaventa e affascina spesso noi occidentali
e insieme le lapidazioni e le defenestrazioni dei colpevoli
di “reati” come l’omosessualità. Un inventario di crimini
che si aggiungono alla ferocia dei combattenti sui campi
di battaglia, segnati dalle fosse comuni dei soldati e dei
miliziani sciiti o dei curdi sconfitti.
"Dovremmo aver paura del capitalismo, non delle macchine".
(Stephen Hawking)