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deindustrializzazione

Forum per le discussioni sulle tematiche economiche e produttive italiane, sul mondo del lavoro sulle problematiche tributarie, fiscali, previdenziali, sulle leggi finanziarie dello Stato.

Re: deindustrializzazione

Messaggioda flaviomob il 26/09/2013, 21:14

Non è vero che chi vuole sopravvivere deve ungere. Questa è apologia. Chi unge danneggia chi è onesto.

Io non assolvo nessuno, ne' lo stato (la parte disonesta) ne' i privati (la parte disonesta) ne' i cittadini (collusi, adescati, indifferenti che siano: purtroppo non è solo la parte disonesta ma anche una parte ideologizzata, indottrinata, disinformata, abulica, disorganizzata, poco attiva, etc etc)


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Re: deindustrializzazione

Messaggioda franz il 27/09/2013, 7:16

flaviomob ha scritto:Non è vero che chi vuole sopravvivere deve ungere.

Beh, si, ho esagerato con quel "deve". Lo stato di fatto pero' è che si ipotizzano 60 miliardi di corruzione pubblica e 180 di evasione e che possiamo affiancare questo totale (240 miliardi) ai circa 720 miliardi di consumi delle famiglie italiane.
Ne consegue che 1/3 (33.71%) delle spesa delle famiglia italiane è legata a (sostenuta da) fenomeni corruttivi o evasivi.
Non è la maggioranza, per fortuna, ma è comunque una mole enorme, che pesa sulla politica e sulle sue decisioni.
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Re: deindustrializzazione

Messaggioda flaviomob il 28/09/2013, 9:39

Condivido.
Io direi che di fronte a questi numeri non si può affatto parlare di uno stato "corruttore" e di una società sana, ma di un tessuto socio-economico-imprenditoriale gravemente malato che genera uno stato, o meglio una classe politica che ne è l'espressione peggiore. Del resto la cultura dell'illegalità è talmente diffusa e capillare che abbiamo le peggiore mafie del continente (forse se la giocano con quelle russe).


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Re: deindustrializzazione

Messaggioda pianogrande il 28/09/2013, 11:09

flaviomob ha scritto:Condivido.
Io direi che di fronte a questi numeri non si può affatto parlare di uno stato "corruttore" e di una società sana, ma di un tessuto socio-economico-imprenditoriale gravemente malato che genera uno stato, o meglio una classe politica che ne è l'espressione peggiore. Del resto la cultura dell'illegalità è talmente diffusa e capillare che abbiamo le peggiore mafie del continente (forse se la giocano con quelle russe).

Condivido anche io.
Il problema è meglio averlo chiaro e non illudersi che la situazione possa cambiare di molto da un momento all'altro.
Qualsiasi miglioramento sarà il benvenuto ma sarà lunga e durissima.
Ci vogliono generazioni e fatti pesanti.
Avere coscienza di questo (per quei pochi che ce l'hanno) è già un miglioramento.
Il lavoro culturale è un filone che può rendere molto.
Fotti il sistema. Studia.
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Re: deindustrializzazione

Messaggioda franz il 28/09/2013, 13:38

flaviomob ha scritto:Condivido.
Io direi che di fronte a questi numeri non si può affatto parlare di uno stato "corruttore" e di una società sana, ma di un tessuto socio-economico-imprenditoriale gravemente malato che genera uno stato, o meglio una classe politica che ne è l'espressione peggiore. Del resto la cultura dell'illegalità è talmente diffusa e capillare che abbiamo le peggiore mafie del continente (forse se la giocano con quelle russe).

Ok, ma di per se stesso non è che lo stato è corruttore. Lo diviene quando supera una certa mole (come in Italia).
Uno stato "normale" (tra il 25 ed il 35% del PIL) non ha potere corruttivo. Se lo ha, è gestibile, arginabile.

Una discussione su "chi genera cosa" credo che si avvicinerebbe allla classica discussione su chi sia nato prima tra uovo e gallina. facciamo prima a capire come interrompere la spirale negativa. E perché la spirale si alimenta.

Considera che per i numeri che ho dato, (corruzione ed evasione) arriviamo ad 1/3.
Ma abbiamo anche 165 miliardi di stipendi pubblici. Poi abbiamo l'assistenza pubblica che possiamo precisare in 30-35 miliardi di sussidi alle imprese (che elimineri del tutto) ed una sessantina alle famiglie, sotto varie forme, centrali e locali (che invece potenzierei, usando altre forme come il reddito minimo o l'imposta negativa).

Facendo le somme sono circa 500 i miliardi che direttamente e legalmente (stipendi, assistenza) o indirettamente e llegalmente (corruzione ed evasione) oppure in modo assai discutibile (aiuti alle imprese) alimentano la spese delle famiglie. E qui arriviamo quasi al 70% dei consumi totali. Persone i cui consumi dipendono in qualche modo da cio' che lo stato dispensa o da cio' che lo stato tollera o addirittura genera in modo criminale o illiberale.
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Re: deindustrializzazione

Messaggioda trilogy il 22/10/2013, 13:57

Il vero rischio del «deserto dell'industria»
di Valerio Castronovo


A giudicare dalla sostanziale passività con cui si sta assistendo da tempo nel nostro Paese alla costante flessione tendenziale della produzione industriale, si ha l'impressione che vada diffondendosi nella classe politica e nella cultura sociale un atteggiamento fra l'insensibilità e la rassegnazione di fronte alla prospettiva di una crescente deindustrializzazione.

Anche il dibattito sulla legge di stabilità è, alla fine, un "parlar d'altro". E nemmeno è imputabile, questa strisciante apatia e questa scarsa consapevolezza, a una scelta voluta in sede governativa verso un'economia dei servizi, rivolta a un terziario ad alto valore aggiunto. Eppure sarebbero ben gravi le conseguenze se non si ponesse freno all'emorragia della nostra industria manifatturiera e del suo indotto.

Insomma, si è in presenza di una sorta di malattia del languore, di un immobilismo altrettanto opaco quanto flaccido, a cui non sembrano contrapporsi efficaci antidoti corroboranti ma neppure seri motivi di riflessione su questo allarmante stato di cose che valgano a generare tangibili segnali di reazione da parte dell'opinione pubblica.
Eppure senza l'industria non ci saranno né crescita dell'economia né ripresa dell'occupazione: sia perché il settore manifatturiero ha una funzione determinante di traino, per le sue ricadute positive in altri comparti d'attività; sia perché produce e alimenta una serie di conoscenze e innovazioni tecnologiche, abilitanti per uno sviluppo su livelli più avanzati e sostenibili.
È quanto ha affermato, del resto, la Commissione di Bruxelles nella sua relazione programmatica per la definizione del nuovo budget comunitario 2014-2020.

A maggior ragione questo monito dovrebbe, quindi, valere per l'Italia se vuole mantenere il secondo posto in Europa dopo la Germania sul versante industriale, che finora si è riusciti a difendere, ma con sempre maggiori affanni e una logorante perdita di competitività, dovuta soprattutto alla mancanza di adeguate riforme strutturali.
In Eurolandia il contributo del settore manifatturiero al Pil s'aggira attualmente intorno a una media del 15,2 per cento. Sono perciò quasi cinque i punti in più da conseguire per raggiungere l'obiettivo del 20 per cento, indicato dalla Commissione, entro i prossimi sette anni: sia per migliorare la produttività della Ue (oggi in fase calante) rispetto agli Stati Uniti, al Giappone e alle nuove potenze industriali emergenti; sia per continuare ad avvalersi dei vantaggi comparativi acquisiti in alcuni settori di produzione più complessi e di elevata qualità, al confronto dell'America del Nord e dell'Asia sud-orientale.

È evidente, dunque, l'esigenza cruciale per il nostro Paese non solo di bloccare la parabola declinante dell'industria manifatturiera ma di risalire decisamente la china affrancandosi da una cappa penalizzante, mista di sconforto e di torpore.

Nei giorni scorsi il Parlamento europeo ha proposto una reinterpretazione del Patto di stabilità, che dovrebbe consistere nel liberare, per un certo periodo di tempo, dal vincolo del rapporto del 3 per cento fra deficit e Pil, gli investimenti destinati allo sviluppo delle infrastrutture, delle innovazioni e della ricerca, e quindi al di fuori della spesa pubblica corrente. E questo per ridare ossigeno e vigore all'economia reale, altrimenti appassitasi e tuttora penalizzata da un'eccessiva politica di rigore con pesanti effetti depressivi. Che è quanto i rappresentanti delle principali Associazioni imprenditoriali dell'Eurozona hanno auspicato a loro volta, anche ai fini della coesione sociale e della costruzione politica europea.

È pertanto indispensabile che, nel corso dell'iter parlamentare della Legge di stabilità, si giunga a valutare la possibilità (in base a un programma congiunto di politica industriale a livello europeo) di un rientro nel medio periodo nei parametri di Maastricht nel caso di interventi volti a migliorare il rendimento delle imprese e a incentivarne la specializzazione produttiva. Ciò che consentirebbe di ridurre, insieme al cuneo fiscale, il peso delle rendite di posizione e delle pastoie burocratiche.

Occorre comunque, da un lato, evitare che si riproducano sotto altre sembianze certe forme di capitalismo relazionale; e, dall'altro, prendere piena ed effettiva coscienza che, senza un consistente rilancio dell'industria, il destino del nostro Paese sarà compromesso inesorabilmente.

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