Altro che “choosy”, i laureati sono figli di una bolla formativa
Posted by Roberto Ciccarelli on 13 giugno 2013 at 09:38
Prendete il XV rapporto Almalaurea sul profilo dei laureati e scoprirete quante menzogne sono state raccontate dai ministri della Repubblica a proposito degli studenti italiani. È facile, basta andare sul sito di questa seria istituzione bolognese per capire che nel 2012 tra i 227 mila studenti che hanno concluso un ciclo di studi universitario l’età media dei laureati è diminuita: 23,9 anni per i laureati di primo livello, 25,2 anni per le lauree magistrali e 26,1 per quelle magistrali a ciclo unico. Almalaurea delinea un’altra tendenza: anche il numero dei fuoricorso è diminuito tra il 2001 e il 2011: le studentesse e gli studenti che si laureano regolarmente sono aumentati in dieci anni del 41% da 172 mila a 299 mila.
Non se n’erano accorti l’ex ministro dell’Istruzione Francesco Profumo o l’ex viceministro al Welfare Michel Martone, entrambi professori ordinari il primo al Politecnico di Torino e il secondo all’università di Teramo i quali, solo un anno fa, lanciarono l’allarme: le nostre università sarebbero popolate da persone che impongono alla comunità «costi sociali» insostenibili (Profumo) o da «sfigati» che non si laureano in tempo e cercano rifugio al calduccio nelle aule (Martone). La sconfessione non poteva essere più clamorosa. Non solo cresce la frequenza delle lezioni (68%), ma tra i laureati aumenta chi ha fatto una o più esperienze di stage e tirocini durante il corso degli studi (+56%), mentre il 18% di chi ha una laurea magistrale ha fatto un’esperienza di studio e lavoro all’estero. Diversamente, poi, da quanto credeva il ministro Cancellieri il 44% dei laureati è disposto a cambiare città e dunque a vivere lontano da mamma e papà.
I dati del fact-checking di Almalaurea permettono di rifiutare gli inviti a «non perdere tempo per una laurea se si vuole avere successo nella vita». E di non dare credito ad un’altra leggenda alimentata a piene mani dalle istituzioni, e dai grandi media: quella per cui l’Italia avrebbe «troppi laureati per di più mal assortiti», e «lavoratori non richiesti dal mercato». Questi pregiudizi nascondono il fatto che in Italia solo il 21% della popolazione è laureata, contro il 42% negli Stati Uniti. In altre parole, i laureati sono troppo pochi tra i giovani e sono ancora di meno tra chi ha tra i 54 e i 65 anni: solo l’11%.
Tra i paesi Ocse l’Italia ha la popolazione meno preparata nell’istruzione terziaria, cioè quella necessaria a vivere in una società complessa, precaria e in crisi com’è quella occidentale oggi. Il problema è che questi pochi trovano sempre meno lavoro. È dal 2004 che diminuiscono gli occupati con un’alta qualificazione (laurea, dottorato o specializzazioni), mentre negli altri paesi europei accade l’opposto. Anche se i laureati continuano a godere di un tasso di occupazione più elevato di oltre 12 punti rispetto ai diplomati, questa realtà è dilagata negli anni della crisi danneggiando il senso, sociale e simbolico, di un corso universitario.
Almalaurea spiega anche così il motivo per cui tra il 2003 e il 2011 le immatricolazioni sono calate del 17% da 338 mila a 279 mila. Ma su questo dato ha anche influito il taglio dei fondi all’istruzione che confermano l’Italia agli ultimi posti per finanziamento alla scuola e all’università.
Riletti attentamente questi dati preparano anche l’università del futuro. Quando cioè la riforma Gelmini sarà entrata in vigore completamente, l’agenzia di valutazione delle università e della ricerca scientifica (Anvur) avrà concluso la prima tornata di misurazione della “produttività” e dell’”efficienza” degli atenei. E infine quando il decreto AVA (Autovalutazione, Valutazione periodica e Accreditamento) avrà collaborato a ridurre l’attuale “offerta didattica” ridimensionandola al numero dei docenti superstiti ai tagli delle cattedre e dei corsi di laurea.
La bolla formativa
I dati di Almalaurea possono essere letti anche in questa direzione. La disponibilità soggettiva degli studenti a studiare di più, e più velocemente, il loro impegno ad assicurarsi – come si legge nel rapporto – un lavoro stabile, una sicurezza economica e maggiore autonomia vengono usati nel dispositivo che governa gli atenei italiani per produrre più laureati, rispondere ai criteri di “efficienza” stabiliti da Anvur e Ava. Insomma risponde alla strategia adottata da tutte le riforme universitarie (e scolstiche) che si sono succedute in Italia almeno dal 1989.
E’ interesse degli atenei “produrre” più laureati, così come è interesse degli studenti a laurearsi in tempo, e con buoni voti. Ma questo meccanismo, come più volte ha osservato lo stesso presidente del consorzio Almalaurea Andrea Cammelli, si scontra con la dura realtà del “mercato del lavoro” che non a caso penalizza la forza lavoro qualificata. Come si spiega l’inceppamento dell’economia della conoscenza che continua ad alimentare una bolla, proprio come accade in altre settori dell’economia, e in particolare della finanza?
I “successi” degli atenei italiani, a dispetto degli stereotipi paternalistici adottati dalla “classe dirigente”, e in particolare da alcuni esponenti dell’accademia che hanno fatto i ministri, sono alimentati proprio da una bolla: si producono (con tutti i limiti strutturali italiani) sempre più laureati, ma la disoccupazione o la precarietà colpisce crudelmente tutte queste figure. Da tempo riteniamo che questo meccanismo sia il prodotto dell’esplosione di una “bolla formativa” che ha conosciuto, dalla metà degli anni Settanta a oggi, diversi episodi e micro-esplosione che corrispondono ai picchi della disoccupazione giovanile che è una regola del mercato del lavoro italiano.
Disoccupazione giovanile: un continente sconosciuto
Nel 2008, con Tremonti e Gelmini, lo Stato italiano ha scelto di risolvere alla radice, in maniera brutale, questo problema. Ha semplicemente tagliato le spese fisse nella produzione del “capitale umano” e “sociale” degli studenti universitarie. Agli atenei, e alle scuole, sono stati tagliati 10 miliardi di euro, in clamorosa controtendenza rispetto a tutti i paesi Ocse. L’Italia pagherà a lungo, forse per tutta la prossima generazione questa scelta scellerata, ma non si può oggi nascondere le ragioni strutturali che hanno portato ad essa. Il dato, assolutamente parziale, della disoccupazione giovanile al 38,7% – quello per cui tutte le autorità oggi si dolgono – è solo una piccola spia di questo mondo. L’Istat lo rileva solo tra chi ha tra i 15 e i 24 anni. Parliamo di poco più di 600 mila persone. Ad oggi non sappiamo nulla, o quasi, della disoccupazione che esiste tra chi ha tra i 24 e i 35 anni, cioè il campione più interessante anche per chi riflette sulla condizione occupazionale dei laureati. Le analisi di Almalaurea inizia a scavare in questo continente, per questo sono importanti.
La scelta di recidere alla radice le condizioni per la produzione di un “capitale cognitivo” in Italia è stata adottata per riposizionare l’italia sulla scala medio bassa della produttività globale: da paese produttore di servizi, manifattura avanzata, distretti industriali deve diventare un paese che consuma e importa i servizi altrui, le competenze e i saperi riservati a sempre meno persone.
Il ventennale assalto all’istruzione pubblica
In questo quadro macroeconomico emerge la consapevolezza che lo Stato italiano sia incapace di amministrare, e prospettare una crescita dell’università pubblica di massa. La decisione di ristrutturarla, favorendo mediante i tagli l’accorpamento di interi atenei e privilegiando quelli del nord più vicini alla piccola e media impresa in crisi, risponde ad una tragica assenza di un disegno complessivo di politica industriale, oltre che di politica sociale diretta alle giovani generazioni.
Ma ciò che conta di più adesso, nel momento in cui l’università è stata ridotta ad un deserto postatomico dalla riforma Gelmini, è il fallimento della strategia di avvicinamento del mondo universitario (e scolastico) al mondo del lavoro. Questo è un problema storico dell’università moderna, e in particolare di quella di massa, che tutte le riforme hanno cercato di affrontare cercando di “professionalizzare” i corsi di studio e producendo forza lavoro cognitiva che rispondesse alla domanda delle imprese just-in-time. Questo tentativo è fallito.
I dati di Almalaurea rappresentano l’ultima conferma del fallimento di una strategia ventennale di assalto all’istruzione pubblica.
Apparso su La furia dei cervelli e Il Manifesto Blog il 30 maggio 2013
http://www.roars.it/online/altro-che-ch ... formativa/