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Una lettura keynesiana della crisi

Forum per le discussioni sulle tematiche economiche e produttive italiane, sul mondo del lavoro sulle problematiche tributarie, fiscali, previdenziali, sulle leggi finanziarie dello Stato.

Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 23/02/2013, 9:20

Eurobaratro:

http://keynesblog.com/2013/02/22/perche ... l-baratro/

Perché il Fiscal Compact sprofonderà l’Europa nel baratro

Proponiamo da MicroMega online un capitolo da “Cosa salverà l’Europa. Critiche e proposte per un’economia diversa” a cura di B. Coriat, T. Coutrot, D. Lang e H. Sterdyniak


La crisi attuale, iniziata nel 2007, ha messo in evidenza i pericoli della costruzione europea attuale dominata dal neoliberismo. Nei primi mesi del 2012, le classi dirigenti così come la tecnocrazia europea sono state incapaci di superare la crisi. Ancora peggio, oggi utilizzano la crisi per raggiungere il loro principale e costante obiettivo: ridurre la spesa pubblica, indebolire il modello sociale europeo, il diritto al lavoro, e impedire ai cittadini di avere una qualsiasi voce in capitolo.

La situazione diventa così catastrofica. Per ammissione stessa della Commissione, la zona euro prevede un calo del Pil nel 2012 (-0,3%). Nel marzo 2012, il tasso di disoccupazione della zona euro ha raggiunto il 10,9%. La crisi si è tradotta nella perdita di circa il 9% del Pil. Tuttavia, la Commissione continua a imporre politiche di austerity, che spingono l’Europa verso una recessione senza fine. Sebbene siano la cecità e l’avidità dei mercati finanziari ad aver causato la crisi, sono la spesa pubblica e la protezione sociale a essere colpite.


.... (segue)

======================================
Cosa dovrebbe fare il nuovo governo

di Andrea Terzi(*) per Keynes Blog

Il prossimo governo avrà una priorità su tutte: Rilanciare la domanda in Europa e farlo in fretta!

Erano 18,7 milioni i disoccupati nell’eurozona a dicembre. Ed erano 26 milioni i disoccupati nei 27 paesi dell’UE, di cui 5,7 milioni avevano meno di 25 anni (ovvero la generazione che l’austerità dice di voler proteggere!). Si tratta di stime prudenti, che non includono ex-lavoratori scoraggiati, lavoratori part-time che cercano il tempo pieno, ecc. E tutte le previsioni indicano questi numeri ancora in crescita.

In Italia, il conto dei disoccupati ha raggiunto i 2 milioni e 875 mila, ma il numero non basta a raccontare le difficoltà finanziarie di lavoratori dipendenti e non, le conseguenze sulle relazioni sociali e familiari, o la perdita di dignità, che piuttosto ci raccontano tragici episodi di cronaca.

Cosa dovrà fare il governo che uscirà dalle urne di domenica?

Il nuovo governo sarà il governo di uno degli stati dell’area euro, non tecnicamente in grado di mettere in moto politiche di occupazione davvero incisive. Dovrà quindi prediligere la strada dell’Europa: Parlare forte e chiaro in Europa, facendo appello alla propria credibilità e fermezza.

La voce degli economisti è ormai in larga parte contraria alla politica dell’austerità. Ma occorre uno scatto in più.

Occorre convincersi che la strada dell’Europa passa necessariamente attraverso uno sguardo visonario in grado di mettere al centro gli interessi europei, e non di questo o di quel paese.

È nell’interesse di tutti gli europei fare ripartire la domanda facendo cessare la repressione dei risparmi privati in atto con l’austerità.

Volere è potere: si può emendare il patto fiscale europeo consentendo ai paesi di non dover intervenire per correggere i disavanzi pubblici sotto il 6%, si può decidere un coraggioso taglio delle imposte finanziato da un emissione di eurobonds, e altre misure ancora. Non è impossibile salvare l’Europa. Si può fare, adesso!

(*) Franklin College Switzerland e Mosler Economic Policy Center mecpoc.org; docente di Economia monetaria, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 15/03/2013, 1:22

Immagine

http://keynesblog.com/2013/03/14/la-not ... a-viventi/

La notte degli Alesina viventi

...Il FMI si è messo ad indagare l’austerità attraverso un esame delle politiche effettivamente adottate e i risultati di Alesina sono stati contraddetti. I critici hanno mostrato che tutti gli esempi di presunte espansioni attraverso l’austerità hanno coinvolto fattori come il deprezzamento della moneta o cali repentini dei tassi di interesse che attualmente non sussistono. Le politiche di Osborne nel Regno Unito hanno portato alla stagnazione; per non parlare della zona euro...

http://www.emilianobrancaccio.it/2013/0 ... -disastro/

LE CONSEGUENZE DELLA DEFLAZIONE SALARIALE


La BCE e la Commissione europea insistono con l’idea che il riequilibrio dei rapporti tra paesi creditori e paesi debitori dovrebbe avvenire a colpi di deflazione salariale a carico di questi ultimi. Questa politica però è stata già largamente adottata in Grecia, dove tra il 2008 e il 2012 i salari nominali sono diminuiti di quasi tre punti percentuali, i salari reali sono precipitati di diciotto punti e la quota salari sul reddito nazionale ha subito una caduta di oltre quattro punti. Più che migliorare la profittabilità e la competitività dell’economia greca, la caduta dei salari ha soprattutto contribuito a deprimere la domanda interna e ad aggravare la recessione. Ha senso riproporre la stessa ricetta in Italia? Maria Rosaria de Medici intervista l’economista Emiliano Brancaccio (Università del Sannio)...


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 11/04/2013, 12:30

Il vero “contagio” è quello dell’austerità
Pubblicato da keynesblog il 11 aprile 2013 in Economia, Europa, Italia

di Carlo Clericetti, da Repubblica.it

Adesso avremo anche la fama di appestati, visto che la Commissione Ue scrive che la nostra crisi rischia di contagiare il resto d’Europa? Ma contagiare chi, visto che – sempre secondo la Commissione – la lista dei malati è ben più lunga di quella dei paesi “sani”? L’elenco di chi ha squilibri definiti “seri” comprende, oltre a noi, Belgio, Bulgaria, Danimarca, Francia, Malta, Ungheria, Olanda, Finlandia, Svezia, Regno Unito. Già, anche l’Olanda, sempre pronta a rimbrottare gli spreconi mediterranei, anche la virtuosa Finlandia col braccino corto quando si tratta di finanziare strumenti comunitari anti-crisi. Per altri due, Spagna e Slovenia, gli squilibri sono definiti “eccessivi”, cioè stanno anche peggio. E poi ci sono quelli che hanno già dovuto chiedere aiuti, Grecia, Irlanda, Portogallo, Cipro.

La Germania, naturalmente, non è nella lista: eppure dovrebbe esserci anche lei, seppure per motivi opposti. Quali? L’eccesso di avanzo della bilancia commerciale. Anche quello è uno squilibrio, e persino le regole Ue lo riconoscono. Solo che, con una acrobazia dialettica, stabiliscono che per questo parametro si debba applicare una “asimmetria intelligente”. E dunque lo squilibrio diventa grave se il deficit delle partite correnti supera il 4% rispetto al Pil, ma se all’opposto il saldo è attivo, allora il limite viene opportunamente innalzato al 6% e la Germania, anche se per poco, non è arrivata a superarlo. Comunque almeno il principio è sancito: anche un avanzo può costituire uno squilibrio, e in quel caso il paese interessato dovrebbe prendere provvedimenti per ridurlo, ossia adottare una politica espansiva che faccia aumentare i consumi interni e quindi le importazioni. Proprio quello che da almeno un paio d’anni si chiede alla Germania, che però, essendo all’interno dell’”asimmetria intelligente”, ha sempre risposto picche.

Tornando all’elenco dei “malati”, il fatto che siano più dei “sani” qualche problema alle teste d’uovo della Commissione dovrebbe pur porlo: non sarà che, oltre ai vizi nazionali, che certo ci sono, la situazione è aggravata da una politica europea profondamente sbagliata? Ma una discussione del genere, evidentemente, non è all’ordine del giorno. Se si evita di affrontare la questione di fondo anche le diagnosi ovviamente ne risentono. Prendiamo quella sull’Italia. Chi potrebbe contestare che sia opportuno rafforzare il sistema bancario, riformare la pubblica amministrazione, semplificare il sistema fiscale, aumentare la concorrenza nei mercati dei prodotti e dei servizi? Nessuno, ovviamente. Qui siamo tra i peggiori “vizi” italiani e li conosciamo bene, anche se da decenni nessuno riesce a risolverli. Poi il rapporto aggiunge: “Siccome l’aumento stagnante della produttività non si è riflesso pienamente nelle dinamiche salariali, la competitività dei costi dell’Italia si è deteriorata, come dimostrato dall’incremento dei costi unitari del lavoro in rapporto agli altri paesi europei”. Tradotto in chiaro: la produttività è ferma da tempo, mentre i salari sono aumentati, seppure di poco, tenendo a stento dietro all’inflazione (non tutti, come abbiamo visto dai recenti dati sugli stipendi pubblici). Male, dice la Ue, dovevano seguire la produttività, cioè diminuire in termini reali.

Questa osservazione, se si considera solo il parametro della competitività con gli altri paesi, è corretta. Ma non considera che la produttività risente anche del disastroso livello dell’attività economica. Quando l’economia si contrae pesantemente come in questi anni può accadere che le aziende non possano adeguare completamente la riduzione della manodopera al calo del fatturato. Non solo perché magari cercano di non licenziare per spirito di solidarietà, ma anche perché oltre un certi livello si compromette l’operatività dell’azienda. Per banalizzare: se ho una trattoria con un cuoco e tre camerieri e crolla il numero degli avventori, potrò magari mandar via due dei camerieri, ma se poi licenzio anche il cuoco semplicemente non sono più in grado di produrre. Così tengo il cuoco e riesco anche a sopravvivere, ma il valore aggiunto per addetto (cioè la produttività) cala lo stesso.

L’economia dell’Italia in questi anni, a parte i casi disperati tipo la Grecia, è andata peggio di tutti. Come mai? E’ l’altra faccia della “virtù di bilancio”: il drenaggio di risorse per arrivare al pareggio (strutturale) di bilancio nel 2013 ha soffocato la domanda interna, e con essa tutte le aziende che non esportano. Per la produzione industriale si è registrato oggi il 18° calo consecutivo, e il livello complessivo è inferiore di circa il 20% a quello raggiunto prima dell’inizio crisi. Ma la Commissione continua a chiederci di proseguire nel consolidamento dei conti pubblici, ignorando completamente questo dramma. Se ci aggiungessimo un ulteriore calo delle retribuzioni aggraveremmo ulteriormente le condizioni della domanda, già prostrata da aumenti di tasse e riduzione di spesa pubblica e certo non alimentata da tre milioni di disoccupati e due di cassintegrati.

La Ue se la prende anche con il nostro export, l’unica cosa che tiene in questo disastro. E’ vero, la bilancia commerciale è tornata in attivo solo grazie al crollo delle importazioni (la paralisi della domanda interna vale anche per quelle), ma l’export già da qualche mese ha superato i valori precedenti alla crisi. E questo, tra l’altro, dovrebbe far capire che se la produttività media è in effetti stagnante, evidentemente non è così per tutti i settori e le imprese, e ce n’è un buon numero perfettamente in grado di competere vittoriosamente sui mercati esteri. Insomma, la Commissione persevera nel proporre la stessa ricetta: più concorrenza (e va bene), austerità e riduzioni salariali (e va malissimo). Intanto la lista dei “malati” si allunga. Tra poco non ci sarà più nessuno da contagiare.

http://keynesblog.com/2013/04/11/il-ver ... austerita/


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda trilogy il 11/04/2013, 13:54

Aspetta che fanno il governo che poi ce la danno subito la manovra di rilancio..... :?

Def: in 2015-2017 manovre per 20 miliardi, salgono a 60 senza Imu. Piu' il taglio del debito imposto dall'Europa

(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Roma, 11 apr - Una manovra da 15 miliardi nel 2015, 20 miliardi nel 2016, 25 nel 2017. E' questo lo scenario che prospetta il Documento di economia e finanza per i prossimi anni con il rischio dell'Imu 'sperimentale' che incombe. Il Documento, infatti, calcola la correzione necessaria per condurre l'indebitamento tendenziale dal 2,5% del Pil all'1,5% programmatico nel 2015, dal 2,1% allo 0,9% nel 2016 e dall'1,8% allo 0,4% nel 2017, qualora non venisse confermata l'Imu che e' stimata valere 7 decimi di punto nel 2015 (11,7 miliardi), 8 nel 2016 e 2017 (13-14 miliardi).

Se l'Imu fosse confermata, invece, le manovre necessarie scenderebbero a 3 miliardi nel 2015 (0,2 punti di Pil), 7 miliardi nel 2016 e 10-11 nel 2017. Tutto questo senza considerare che il Fiscal compact ci impone di ridurre il debito di un ventesimo l'anno a partire dal 2015: il rapporto debito/Pil e' visto al 130,4% nel 2013, al 129 nel 2014, al 125,5% nel 2015, al 121,4% nel 2016 e al 117,3% nel 2017.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 23/04/2013, 8:48

http://www.sinistrainrete.info/teoria-e ... scita.html

Il debito pubblico deprime la crescita?
Il clamoroso errore di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff
di Paolo Zacchia

Siti e blog di economia non parlano d’altro. Un famoso paper di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, tra i più citati negli ultimi anni, nel quale si evidenziava l’esistenza di una correlazione tra un alto rapporto debito/PIL (maggiore del 90%) e la bassa crescita, è inficiato da gravi problemi metodologici e addirittura da un banale errore nel foglio di calcolo, tanto che su twitter si parla di #excelgate. Eppure, anche sulla base di questo studio, è stata giustificata l’austerità, il pareggio di bilancio e il “rimettere a posto i conti”, al di qua e al di là dell’Atlantico
...


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda trilogy il 23/04/2013, 17:12

flaviomob ha scritto:http://www.sinistrainrete.info/teoria-economica/2736-paolo-zacchia-il-debito-pubblico-deprime-la-crescita.html

Il debito pubblico deprime la crescita?
Il clamoroso errore di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff
di Paolo Zacchia

Siti e blog di economia non parlano d’altro. Un famoso paper di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, tra i più citati negli ultimi anni, nel quale si evidenziava l’esistenza di una correlazione tra un alto rapporto debito/PIL (maggiore del 90%) e la bassa crescita, è inficiato da gravi problemi metodologici e addirittura da un banale errore nel foglio di calcolo, tanto che su twitter si parla di #excelgate. Eppure, anche sulla base di questo studio, è stata giustificata l’austerità, il pareggio di bilancio e il “rimettere a posto i conti”, al di qua e al di là dell’Atlantico
...


Tutta colpa di excel :mrgreen:

Does High Public Debt Consistently Stifle Economic Growth? A Critique of Reinhart and Rogo ff
Thomas Herndon Michael Ash Robert Pollin

April 15, 2013

workingpaper link:
http://www.peri.umass.edu/fileadmin/pdf ... /WP322.pdf
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 27/04/2013, 23:29

Il nuovo ministro dell'Economia, Saccomanni, aveva sostenuto che nel 2012 l'Italia avrebbe avuto una contrazione del PIL dell'1,2% - 1,5% in contrasto con il FMI che parlava del -2,2%. In effetti è stata il doppio delle previsioni di Saccomanni: -2,4%


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 07/05/2013, 20:38

trilogy ha scritto:Tutta colpa di excel :mrgreen:

No, pare di no. La cosa è piu' complessa e trattandosi di cose da "dottorato" non mi meraviglio che sia cosi'.
Poco digeribile da un pubblico facile (keynesiano o liberista che sia) questo articolo - potenzialmente noioso a detta dello stasso autore - tenta di spigare quello che va spiegato.


http://noisefromamerika.org/articolo/qu ... piace-cosi

Sul caso Reinhart&Rogoff si è scritto di tutto. C'è speranza di dire qualcosa di originale? Provo a farlo con un post pieno di dettagli noiosi.

Breve cronistoria degli eventi.

Ricerca 1 (anno 2010):

Il nostro risultato principale è che [...] i tassi mediani di crescita per Paesi con debito pubblico superiore all’incirca al 90% del PIL sono inferiori di circa l’1% [Più precisamente, la Figura 2 mostra come storicamente la crescita mediana del PIL sia di poco superiore al 3% se il rapporto deficit/PIL è al di sotto del 90%, mentre sia di poco superiore al 2% se il rapporto è al di sopra del 90%, ndr]

Ricerca 2 (anno 2012):

La crescita media annua del PIL è del 3,5 per cento per l’intero periodo in cui il debito/PIL è meno del 90%. Il rispettivo valore medio per periodi di debito eccessivo (sopra al 90% del PIL, ndr) è 2,3 per cento (cioè 1,2 per cento più basso che in periodi con debito inferiore)
[...]

Ricerca 3 (anno 2013):

Il gap effettivo (in termini di crescita del PIL, ndr) tra la categoria più alta (quella sopra il 90%, ndr), e la seconda categoria più alta del rapporto debito/PIL è dell’1 per cento (cioè 3,2% meno 2,2%).


Tre distinti lavori di ricerca, tre metodologie diverse, pubblicati in tre anni diversi. I tre riferimenti citati indicano tutti la medesima conclusione sostanziale, e cioè che la correlazione fra crescita e indebitamento pubblico è negativa per soglie di indebitamente debito sufficientemente alte. In particolare, ad un indebitamento superiore al 90% del PIL è statisticamente associata una riduzione nel tasso di crescita dell’economia di circa l’1%. Val la pena qui di notare che una correlazione negativa fra elevati indebitamenti pubblici da un lato, e crescita del PIL dall’altro, non è ottenuta solo dai tre studi sopra riportati. Piuttosto, si tratta di un generale risultato nella letteratura empirica.

Abbiamo dunque il seguente Risultato empirico, cui più volte, in questo post farò riferimento,

Risultato: molti studi concordano sul fatto che per diversi Paesi, con diverse caratteristiche economiche, e in periodi anche molto distanti nel tempo, a un elevato indebitamento pubblico si associa una più bassa crescita economica.

Tutto apposto? Non proprio. Ricerca 1 altro non è che il lavoro del 2010 di Reinhart&Rogoff (R&R2010). Ricerca 3 è invece l’ormai celebre (nei media) lavoro in cui Herndon&Ash&Pollin (H&A&P) trovano degli errori veri, più una serie di errori presunti, in R&R2010. Errori che comunque da qualche tempo non erano più rintracciabili in Ricerca 2, che a sua volta è un altro lavoro di Reinhart&Rogoff (R&R2012), successivo quindi a R&R2010 ma antecedente a H&A&P2013.

A questo punto, spero siate giustamente confusi. Il primo motivo di confusione è che avete letto da qualche parte che H&A&P mandano gambe all’aria tutti i risultati di R&R. Invece io sono qui a mostrarvi come R&R2010, R&R2012 e H&A&P siano sostanzialmente in accordo fra loro nel replicare il Risultato. Il secondo motivo di confusione è che forse non vi capacitate di come sia possibile che ci sia accordo sui risultati quando proprio H&A&P hanno scoperto degli errori in R&R2010. Scusatemi, ma per rispondere a questa questione devo accennare a degli aspetti un po’ noiosi. Il lavoro di ricerca è in gran parte questo: un sacco di sudore nel curare dettagli noiosi, il tutto spessissimo per non raggiungere alcun risultato importante che possa essere dato in pasto alla stampa, ai blog, agli uomini potenti. La ricerca di qualità è fatta di noiosa lentezza, di pedanti dettagli, e di frequentissima assenza di risultati mirabolanti. Tutto l’opposto del quick, dirty, extreme che però piace tanto a un certo tipo di pubblico, e che quindi attrae come una sirena chi il lavoro di ricerca lo sa fare. Se siete curiosi e volete dunque avere risposte all’apparente confusione che vi ho creato, vi suggerisco di leggere i prossimi paragrafi, in cui ho fatto del mio meglio (spero sia sufficiente) per riassumere e spiegare la questione. Se invece non siete interessati ai noiosi dettagli, potete saltare l'intera prossima sezione.

I dettagli noiosi
Ci sono tre aspetti che H&A&P2013 contestano a R&R2010: (i) gli errori di calcolo nel foglio di Excel, (ii) l’esclusione di alcuni Paesi dal campione utilizzato per il calcolo, e (iii) l’utilizzo nel calcolo di un metodo di “pesatura” dei diversi Paesi che a H&A&P non piace.

(i) Gli errori di calcolo consistono nell’aver fatto una media fra le celle che vanno dalla riga 30 alla riga 44, invece che dalla riga 30 alla riga 49. Questi errori di calcolo sono stati prontamente riconosciuti da R&R (che R&R abbiano fornito volontariamente ad altri ricercatori il proprio foglio di lavoro Excel mi pare provare in modo rassicurante che R&R non abbiano volontariamente truccato i propri risultati. Si tratta piuttosto di un errore materiale). Ad ogni modo, gli errori di R&R provano una grave disattenzione degli autori, ma non cambiano in alcun modo sostanziale i risultati del loro lavoro, che su questo tema tra l’altro si compone non di uno ma, come visto, di vari articoli scientifici.

(ii) L’esclusione di alcuni Paesi, e solo in alcuni periodi storici, dal campione utilizzato per il calcolo. H&A&P mostrano in particolare come l’esclusione della Nuova Zelanda per gli anni 1946-1949 porti, quando in aggiunta si utilizzi (iii) il metodo di “pesatura” da loro suggerito, ad una sostanziale revisione verso l’alto nella stima della crescita media dei Paesi altamente indebitati, cioè quelli con rapporto debito/Pil superiore al 90%. Non è vero, dicono dunque H&A&P, che l’alto debito faccia così male alla crescita...

Fermiamoci un attimo. All’inizio del post vi ho riportato due citazioni in cui sembra che sia R&R2010 che H&A&P trovino esattamente lo stesso risultato: la crescita annua dei Paesi con debito sotto del 90% del PIL è di poco più del 3%, mentre la crescita annua dei Paesi con debito sopra al 90% è di poco più del 2%. Ma com’è possibile che sia R&R2010 sia H&A&P trovino, per i Paesi al di sopra del 90%, la medesima crescita (poco più del 2%) quando invece nel paragrafo appena sopra vi ho detto che H&A&P fanno una sostanziale revisione al numero dato da R&R2010? Insomma, R&R2010 e H&A&P trovano circa lo stesso numero o ne trovano due sostanzialmente diversi?

E qui non mi resta che tediarvi nuovamente con dei noiosi dettagli. Il punto è che R&R2010 riportano due misure di crescita annua per i Paesi sopra la soglia del 90% di debito. Una misura è la crescita mediana, che è la misura contenuta nel passaggio citato all’inizio del post. L’altra è la crescita media, che risulta, nei conti di R&R, essere sostanzialmente più bassa della mediana (mentre la mediana è poco più del 2%, la media è appena sotto allo 0%). È bene notare che, nel lavoro originale del 2010, R&R non pongono alcun particolare accento nè sulla mediana né sulla media: li calcolano tutti e due, vedono che sono entrambi più bassi quando il debito supera la soglia del 90% del PIL, e concludono che i dati mostrano che Paesi altamente indebitati crescono sostanzialmente di meno degli altri. Il lavoro di H&A&P, invece, tralascia completamente di ri-calcolare la mediana riportata da R&R2010, e si focalizza solo sulla media. In sostanza, il contributo di H&A&P è molto semplice: H&A&P mostrano come, una volta corretti alcuni errori materiali relativamente di poca importanza quantitativa, e una volta utilizzati sia un campione diverso di Paesi, sia una diversa metodologia di pesatura, la media di crescita nel database di R&R coincide sostanzialmente (anche se non totalmente) con la mediana riportata dagli stessi R&R2010, che a sua volta coincide con la media calcolata in R&R2012, che a sua volta è confermata da altri e vari studi...H&A&P di fatto validano ulteriormente la robustezza dei risultati del 2012 degli stessi R&R, e mostrano che nel R&R hanno fatto benissimo a seguire nel 2010 la buona prassi di riportare, come test di robustezza dei risultati, sia la media che la mediana. Così facendo, infatti, R&R2010 si sono “assicurati” che il loro risultato principale fosse meno dipendente da eventuali errori materiali (che ci sono stati) su singoli Paesi, da eventuali esclusioni/re-inclusioni di singoli Paesi, e da eventuale diversa “pesatura” dei singolo Paesi.

In fondo, non stupisce che le revisioni di H&A&P, unite alla loro diversi criteri di inclusione dei Paesi e di “pesatura”, portino ad ottenere valori che sostanzialmente confermano sia la mediana di R&R2010 che la media in R&R2012. Infatti, come detto sopra e come più volte rimarcato da H&A&P, la revisione alla media riportata da R&R2010 è in gran parte dovuta all’effetto congiunto dell’inclusione nel campione, e alla sua particolare metodologia di pesatura, delle osservazioni relative alla Nuova Zelanda nel periodo 1946-1949. Il lavoro di H&A&P in concreto non fa altro che mostrare che la media di R&R2010 è molto sensibile ai valori “estremi” osservati per un singolo Paese in un periodo abbastanza ridotto. La mediana, invece, è molto meno sensibile a questi valori “estremi” (e potenzialmente fuorvianti). Surprise, surprise? Non proprio, infatti l’insensibilità’ della mediana ai valori estremi è proprio il motivo per cui, a mò di test di robustezza, è consigliabile inserirne il calcolo accanto a quello della media. L’unica sorpresa vera sembra piuttosto essere che R&R2010 non abbiano perso tempo a chiedersi quale fosse il probabile outlier che faceva così tanto divergere la loro media dalla loro mediana. Magari se l’avessero fatto si sarebbe pure accorti del loro errore in Excel. Ma porsi certe questioni di “dettaglio” implica il voler prendersi il tempo di non fare le cose quick and dirty...Diamo però atto che il peccato dell’aver scelto la via quick and dirty è stato almeno compensato dal naturale instinto (questo sì del buon ricercatore) di affiancare al quick and dirty un minimale test di robustezza dei risultati, cioè il calcolo della mediana. Sembra proprio che il test, questo sì, abbia tenuto.

Da notare che H&A&P usano per la loro critica a R&R2012 dei dati che sono sbagliati. Quali? Ma ovviamente quelli sulla Nuova Zelanda, il nostro outlier! Fatto sta che R&R hanno costruito il proprio database usando, per quegli anni, i famosi dati di Maddison. Tuttavia i dati di Maddison, per gli anni a cavallo del 1950 in Nuova Zelanda, sono sbagliati, come indicato dall’istituto statistico neozelandese. Cose che capitano (la ricostruzione dei dati “storici” di contabilità nazionale è un lavoro problematico, e soggetto a vari potenziali errori). I risultati di R&R2010 sono meno soggetti a questo errore di quanto non siano i risultati di H&A&P proprio in quanto R&R hanno finito per escludere dai propri conti la maggior parte degli anni dove i valori di Maddison erano errati. Accortisi successivamente dell’errore nei dati della Nuova Zelanda, R&R hanno provveduto a comunicarli al Maddison Project (Il lavoro di R&R del 2012 non soffre invece di problemi sui dati della Nuova Zelanda, in quanto R&R avevano per quel lavoro gi utilizzato i dati corretti). D’altro canto, va dato atto a H&A&P di aver giustamente messo in rilievo che R&R2010 non si sono nemmeno presi la cura di spiegare perché alcuni Paesi siano stati esclusi dal campione...quick, dirty.

La morale della favola
Spero, a questo punto, che la noia sia calata come un macigno sulle spalle dei lettori che si sono sorbiti le spiegazioni dettagliate contenute nel riquadro qui sopra. Se così è, avrò raggiunto il mio obiettivo, che è il convincervi di due cose. La prima, che la critica di H&A&P non sposta sostanzialmente nulla di ciò che sappiamo, anche grazie ai lavori di R&R, riguardo alla correlazione empirica fra debito e crescita. Al massimo, H&A&P non fanno altro che confermare il Risultato principale di R&R2010, quello di R&R2012 e quelli di altri lavori in questo tipo di letteratura. La seconda è che il vero peccato di R&R non è dunque stato quello di “ingannare il mondo”, nemmeno a livello involontario (il dolo invece, come detto, è da ecludersi), tramite le celle di Excel mal selezionate. Il loro primo peccato, piuttosto, è stato quello di cedere al quick and dirty. Hanno pubblicato, senza tanta cura e con la sola attenuante dell’aver inserito la mediana come test di robustezza, un lavoro che (a differenza di R&R2012) non ha nemmeno seguito un processo di peer-review. Sì, perché quando dei ricercatori della (meritatissima) fama di R&R scrivono qualcosa, quel “qualcosa” può finir per essere pubblicato alla cieca nei Proceedings di una qualche conferenza. Da questo punto di vista, quindi, la reprimenda che R&R hanno subito mi pare giustissima. Giustissimo e confortante è poi il fatto che dei ricercatori poco noti come H&A&P si siano presi il tempo, e abbiano ottenuto da R&R stessi i dati, per cercare di replicare i risultati di R&R2010.

Se la reprimenda per il quick and dirty di R&R è corretta, montare però un caso imperniato sull’idea che H&A&P abbiano svelato che il Risultato, a cui tra gli altri R&R hanno contribuito, sia un inganno è, come spiegato sopra, assolutamente ridicolo. Non c’è nessun inganno: il Risultato è sempre quello, confermato e ri-confermato, anche dagli autori stessi (R&R2012). H&A&P non fanno altro, di fatto, che portare una ulteriore prova che la correlazione predicata dal Risultato effettivamente esiste. H&A&P non svelano alcun inganno perché l’”inganno vero”, se così lo vogliamo chiamare, non sta nei fogli di Excel di R&R. Piuttosto, l’aspetto più importante è che anche H&A&P non fanno altro che aggiungere se stessi alla lunga lista di coloro che nell’”inganno vero” continuano a cascarci come sacchi di patate. Ma quale sarebbe questo “inganno vero”?

L’inganno non è nel calcolo della correlazione secondo cui quando i debiti pubblici sono alti la crescita media e mediana scendono. L’inganno non sta nel risultato. L’inganno sta nel voler far credere che quel Risultato statistico sia qualcosa di importante, qualcosa da cui voler magari tirar fuori una qualche ricetta prescrittivo.

Quel risultato statistico è necessariamente ottenuto buttando in un unico calderone Paesi diversi, in periodi storici diversi, in regimi monetari diversi, dove i debiti pubblici si sono creati per motivi diversi (guerre, crisi finanziarie...va dato un qualche credito a R&R di aver più volte sottolineato questo fatto, cercando di catalogare, per esempio in R&R2012, ma anche nel famoso libro del 2009, le origini dell’indebitamento), dove la stessa definizione di cosa sia debito pubblico è altamente variabile (le pensioni future sono, per esempio, una forma di indebitamento presente dello Stato, ma non sono incluse nella definizione di “debito” utilizzato nei suddetti lavori). R&R, come molti altri ricercatori, conoscono benissimo il problema del “calderone”. Il problema è che affrontarlo in modo soddisfacente è statisticamente impossibile, perché abbiamo troppi pochi dati per “controllare” statisticamente tutti gli elementi nel calderone. Legata a questa questione, in particolare, c’è il fatto che in questo caso è probabilmente impossibile mettere in piedi una batteria di test statistici che ci dica, in modo molto convincente, quanto la correlazione negativa fra crescita economica e debito pubblico sia dovuta ad una causazione che va dal debito alla crescita, piuttosto che dalla crescita al debito. L’inganno vero non sta dunque nel fatto che R&R abbiano taroccato il Risultato. L’inganno vero è credere che dobbiamo dare troppa importanza al Risultato. La teoria economica stessa ci dice, infatti, che dobbiamo ben guardarci dal dare peso a risultati che ci dicano che sopra una soglia predeterminata del X% di indebitamento pubblico il debito abbia un effetto particolarmente negativo sulla crescita. Proprio a causa del calderone, infatti, è altamente improbabile, se non impossibile, che la soglia X%, ammesso che esista, sia la stessa (per esempo X%=90%) per tutti i Paesi, in tutte le circostanze. Una soglia fissa del X%, quindi, non dovrebbe nemmeno esistere!

Il vero problema è che il Risultato, che davvero esiste, è stato utilizzato da molti in modo ingannevole. In particolare, il Risultato è stato abbondantemente riportato dalla stampa e dai blog come una prova a favore delle misure di contenimento dei deficit pubblici attualmente in atto in varie parti del mondo. Il Risultato è così entrato a far parte dei papponi inutili e dannosi di cui si legge continuamente, e di cui si nutrono ragionamenti, posizioni, e scontri che non trovo altro modo di definire se non col termine raccapriccianti (un ulteriore esempio di pappone raccapricciante è quello sui moltiplicatori fiscali, altra questione importante ma empiricamente non ancora risolta e, purtroppo, difficilmente risolvibile. Una questione quindi che suggerisce di prendere con le pinze i vari studi che si susseguono, studi che invece vengono usati nel pubblico dibattito come una clava). La situazione è talmente raccapricciante che non solo il lavoro H&A&P è stato falsamente venduto al pubblico come un modo per smentire il Risultato. Non solo H&A&P non fanno altro che perpetuare essi stessi il “vero inganno” sulla presunta rilevanza pratica del Risultato (H&A&P concludono dicendo “Il fatto che i risultati di R&R sono sbagliati dovrebbero perciò portarci ad una rivisitazione dell’agenda di austerity sia in Europa che negli USA”). Ma, cigliegina sulla torta, il polverone alzato dal lavoro di H&A&P ha portato ad una serie di articoli sul New York Times in cui R&R e H&A&P si confrontano a distanza sulle metodologie e sui risultati (il tutto, ovviamente, senza neanche poter inserire tabelle esplicative dei dati. In fondo, cosa ci si può aspettare da un dibattito scientifico su un quotidiano?).

Ora chiediamoci, ma di che raccapricciante livello di dibattito pubblico stiamo parlando? Esiste anche solo una persona seria, all’interno della professione, che crede che lo spostamento di qualche decimo di punto (sia in un verso che nell’altro!) nelle medie o mediane delle stime di R&R debba avere un seppur vago effetto sull’ “agenda di austerity sia in Europa che negli USA”?

La risposta all’ultima domanda credo non possa che essere negativa. Non ho alcun dubbio che la quasi totalità degli economisti professionisti, siano essi in accademia o nelle varie istituzioni pubbliche, sappiano benissimo quando profondi sono i limiti delle analisi empiriche del tipo sopra citato (di nuovo, lo stesso vale per la miriade di lavori empirici sui “moltiplicatori fiscali”). Non c’è nulla di male nel fatto che certe analisi abbiano dei limiti: non si tratta di dire che gli autori sono degli incapaci, non si tratta nemmeno di dire che certe analisi non vadano neanche fatte (io sono tra quelli che credono che anche analisi parziali possano servire a imparare qualcosa, o a tracciare almeno l’inizio di una strada fruttuosa). Si tratta piuttosto di riconoscere che i dati a disposizione sono quello che sono. Le scelte da fare in Europa, come altrove, non possono basarsi (nè, mi sento di rassicurarvi, si basano nella realtà) su un foglio di Excel di R&R.

Ma allora, perché tanta pubblicità sui media per questioni che, in buona parte, andrebbero affrontate con toni pubblici molto più bassi, per esempio limitando le discussioni, magari accese, sui noiosi e dettagliati metodi di “pesatura” delle osservazioni ad un consesso scientifico, invece che sul New York Times?

Lascio a voi la risposta, che secondo me ha a che fare con le mode,con la visibilità pubblica (che si ottiene più facilmente con l’extreme), con la voglia di contare davvero, con il buio assoluto in cui spesso brancolano i policy-makers che, a differenza degli accademici, non hanno il lusso di poter aspettare tempi o dati migliori prima di prendere le decisioni (anche il non-decidere-ora è già una decisione, con possibili ripercussioni immediate. Spesso il quick and dirty appare quindi come meglio del niente). Nel girone infernale delle diatribe raccapriccianti sono cascati, questa volta, anche R&R. In fondo, in queste diatribe raccapriccianti ci sono volontariamente scesi, e da queste diatribe raccapriccianti hanno tratto una certa visibilità. Insomma, ci hanno un po’ marciato sopra. Ed ora, il quick, dirty and extreme torna indietro loro come un boomerang. La giusta pena del contrappasso è che, invece di spiegare il perché ed il per come dei propri numeri di fronte ad un consesso di colleghi economisti, si trovano a spiegarli e giustificarsi dalle pagine di un quotidiano.

Ancora due considerazioni, prima di terminare. La prima, più che una considerazione, è un esercizio che propongo come metodo per selezionare la qualità dei blog o dei giornalisti che leggete. Blogs e giornalisti sono parte integrante del meccanismo mediatico del quick, dirty, extreme. Personalmente credo che la qualità di un giornalista o di un blogger possa intuirsi anche dal modo in cui ha trattato la vicenda R&R. Se in passato il blogger in questione vi ha detto che i lavori di R&R sono una importante prova a favore dell’austerity in Europa, allora cambiate blogger. Allo stesso tempo, se in questi giorni il blogger vi ha raccontato che il lavoro di H&A&P conferma che l’austerity in Europa è un errore allora, esattamente come detto sopra, cambiate letture. In entrambi i casi, vi trovare di fronte ad un commentatore che non cerca altro che vendervi un’idea preconfezionata. Uno che non ha le competenze, il tempo, o la voglia per leggere i lavori che va sbandierando in giro. Uno che replica luoghi comuni, anche se magari questi luoghi comuni sono presi dalla newsletter di una banca d’investimento o dall’abstract di un lavoro accademico. Ho fatto il seguente esercizio. Ho cercato su Google il nome dei blogger che vanno per la maggiore, seguiti dalle parole chiave quali Reinhart Rogoff. I più attivi di recente sono stati, ovviamente, gli esultanti blogger “anti-austerity”. Tra di loro, il commento di alcuni è stato del tipo “l’ho sempre detto/ve l’avevo detto io/finalmente ci sono arrivati anche loro...”. Beh, evitateli, apparentemente sapevano che c’erano errori anche senza aver mai visto il foglio di Excel di R&R. Evitate quei blogger che vi dicono che H&A&P hanno finalmente smentito il Risultato, che invece è ancora lì. Ma, cosa ancora più importante, evitate quei blogger che perpetuano, non importa se per incapacità o per fini di auto-promozione, l’inganno vero di farvi credere che la verità o meno del Risultato abbia una certa importanza per decidere se l’“austerity” in Europa sia stata o no una scelta corretta.

Sono stato fin qui abbastanza critico di alcuni tratti dell’atteggiamento di R&R, ma anche di quello di H&A&P. Concludo, però, respingendo al mittente le accuse secondo cui l’affaire R&R dimostra come gli economisti siano ancora distanti dai criteri etico-scientifici vigenti, secondo costoro, in altre discipline (un refrain che ogni tanto alcuni intonano...vabbè ognuno c’ha le proprie fisse e i propri irrisolti). Piuttosto, l’affaire R&R mostra, a mio avviso, quali siano le trappole in cui gli scienziati, di qualsiasi disciplina, possono cadere quando si trovano attirati dalle sirene e dalla pubblicit del quick, dirty extreme. Sono sirene che cantano forte ogni qualvolta lo scienziato, di qualsiasi disciplina, si trovi a lavorare su temi caldi, dove gli interessi economici e quindi l’attenzione del pubblico sono sostanziali, e dove magari i fenomeni empirici sono particolarmente complessi da misurare con certezza (i Risultati andrebbero perciò presi con le dovute pinze). Esempi di questa situazione sono il tema scottante del cambiamento climatico (se n’è parlato anche qui), o la questione dell’effetto sull’uomo e sull’ambiente dell’utilizzo di organismi geneticamente modificati. È bene poi ricordare, infine, che nessuno ha accusato R&R di aver volontariamente truccato i dati. Né il lavoro di R&R è stato pubblicato su prestigiose riviste che utilizzano processi di peer-review (anche se non mi stupirei se un eventuale processo di peer-review non avesse scoperto l’errore materiale). Niente a che fare, insomma, con quanto accaduto in alcuni casi infinitamente più gravi, ma che di certo non giustificano un attacco ad altezza uomo contro l’intera comunità scientifica di riferimento.
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Ma il vero problema non è il debito — di Gerardo Coco

Messaggioda franz il 11/05/2013, 8:36

Sempre sul lavoro di Ken Rogoff and Carmen Reinhart



Ma il vero problema non è il debito — di Gerardo Coco

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Gerardo Coco.

La famosa coppia di economisti statunitensi Ken Rogoff and Carmen Reinhart pubblicavano nel 2008 un libro di successo This time is different. Eight Centuries of Financial Folly (2009). Ripercorrendo 800 anni di storia finanziaria gli autori hanno mostrato che 250 casi di crisi da debito in 66 paesi e 5 continenti si sono conclusi con la bancarotta. In ogni epoca i leader politici ed economici hanno ignorato quanto era accaduto in quella precedente illudendosi che ciò che aveva causato le catastrofi nel passato non era operante nel loro tempo e quindi… via a manetta col debito nella convinzione che “questa volta è diverso”. Ma ogni volta l’epilogo e stato lo stesso: il default.

Nel 2010 Rogoff e Reinhart pubblicavano Growth in a Time of Debt (http://www.nber.org/papers/w15639) una ricerca che evidenzia che un debito superiore al 90% del PIL blocca la crescita. Quest’ultimo lavoro ha avuto grande influenza ed è stato utilizzato come riferimento nel dibattito sulle politiche di austerità per stigmatizzare le politiche basate su un debito eccessivo.

Ora, è avvenuto che un gruppetto di economisti abbia scovato un errore nella ricerca: Rogoff e Reinhart hanno infatti omesso di inserire nel loro lavoro alcuni paesi col risultato di abbassare il tasso di sviluppo medio da 2.2% a zero, il che inficerebbe tutta la loro tesi. Apriti cielo! Le forze pro-debito hanno scatenato una querelle macroeconomica che ha dominato i blog economici nelle ultime settimane. Agli economisti infuriati non è parso vero di dichiarare la ricerca priva di fondamento e di invocare la fine dell’austerità economica. Governi, non lasciatevi influenzare da quei pasticcioni di Rogoff e Reinhart, continuate a spendere e indebitarvi!!

Precedentemente, due altri famosi economisti, Robert Shiller e Paul Krugman avevano criticato la ricerca contestando, da un lato, il legame causale tra debito e crisi e dall’altro, l’insufficiente spiegazione sulle conseguenze dell’impatto del debito sull’economia. Per la verità quest’ultima critica è abbastanza pertinente. Se infatti Rogoff e Reinhart avessero dato spiegazioni più approfondite, oggi la domanda: come mai il debito pubblico riduce lo sviluppo?, sarebbe talmente ovvia da vergognarsi a porla.

Innanzi tutto, la prima cosa che viene spontaneo chiedersi è: se non si accetta la tesi degli Autori a quali fenomeni sarebbero imputabili le crisi negli USA e nella UE? Dovremmo rispondere alla maniera dei keynesiani e monetaristi? (che non hanno mai azzeccato una previsione economica) e cioè che sarebbero dovute alla diminuzione della domanda aggregata, al fatto che la gente non spende abbastanza o alla inadeguata dotazione monetaria per stimolarla? Entrambe queste scuole sostengono che nella misura in cui queste variabili sono manipolate con intelligenza, lo sviluppo è assicurato. Purtroppo ignorano che come per una famiglia, la spesa di un paese dipende dal reddito, cioè da quanto si produce meno quello che si consuma, comprese le eventuali rate di debito.

Ora il debito totale, la somma dei deficit annuali, di per sé non rappresenterebbe un problema e, in teoria, un’economia potrebbe sopportare un deficit perpetuo a condizione che il rapporto debito/Pil rimanesse costante e l’economia crescesse pure in modo costante. Esemplificando: se il PIL è 10 e il debito è 9 cioè il 90%, un paese potrebbe sopportare un deficit perenne anche del 4.5% a condizione che l’economia crescesse in modo costante del 5%. Infatti dopo il primo anno il debito diventerebbe a 9,45 mentre il PIL 10.5, lasciando costante il rapporto debito/PIL (9.45/10.5= 90%). Il secondo anno le cifre salirebbero rispettivamente a 9.87 e a 11.02, il cui rapporto è sempre del 90%. E così di via.

Il punto è che l’economia con un livello di debito così elevato non potrebbe crescere del 5% perché gli incrementi di PIL verrebbero erosi dagli interessi composti del debito e l’economia dovrebbe crescere ad un tasso superiore per pagarli. Da un lato infatti, la collettività dei contribuenti dovrebbe pianificare un ammontare di tasse future pari al loro valore attuale (o valore pronta cassa) per poter pagare i futuri interessi. Ciò che ridurrebbe la disponibilità del capitale privato necessario per nuovi investimenti e creare aumenti di prodotto per pagare il servizio del debito (questo spiega perché la pressione fiscale non calerà mai finché il debito permarrà elevato). Dall’altro, come illustrato nel precedente articolo La frontiera del debito i deficit finiscono per avere una produttività marginale negativa, cioè non generano reddito sufficiente per ripagarsi. Se le spese da sostenere sono quelle per il welfare o per finanziare perdite è logico che successivi deficit invece di aggiungere risorse all’economia, le detraggono. Naturalmente ci sono altri fattori che possono mitigare gli effetti di un debito elevato (ad es. le importazioni di capitale dall’estero) che la ricerca di Rogoff e Reinhart non ha preso in considerazione, ma la relazione causale tra debito e crisi è incontrovertibile: ad un certo punto per la legge dei rendimenti decrescenti ogni nuova dose di debito provoca un decremento di prodotto.

Del resto uno dei più eminenti ed apprezzati economisti del ‘900, Irving Fisher scriveva (Boom & Depressions) che un debito elevato rispetto al PIL scatena una serie di eventi che sfociano nella depressione e ha descritto con efficacia la dinamica debito/deflazione. Fisher sottolineava che è proprio l’altezza del debito a determinare la gravità della crisi osservando che quella degli anni ’30 aveva avuto effetti più virulenti della precedente e altrettanto grave crisi del 1921, perché il debito totale era maggiore. L’aspetto critico del fenomeno crisi è la riduzione dell’aggregato monetario che viene innescata dalla liquidazione dei debiti, un processo di “deleveraging” cioè di vendita forzata delle attività patrimoniali per pagare i debiti e che è l’esito di una precedente fase di leveraging innescata da un boom che spinge ad un debito esagerato rispetto al capitale proprio.

Una critica che si potrebbe fare allo studio a Rogoff e Reinhart ma che non ne pregiudica le conclusioni è di aver preso in esame solo il debito pubblico e non anche quello privato: non si può infatti analizzare l’economia senza riferirsi al suo bilancio totale: mutui, carte di credito, derivati e passività fuori bilancio (unfunded liabilities) sono pesi che impediscono la crescita. Se sommiamo tutte queste passività al debito pubblico, il debito mondiale sale a qualcosa come il 1000% del PIL mondiale. Una bolla terrificante. Potremmo dire, parafrasando Rogoff e Reinhart, che questa volta sarà diverso, ma solo perché sarà peggio.

La seconda critica più significativa è che nella loro analisi gli autori non hanno evidenziato lo spartiacque fondamentale tra il periodo in cui vigeva il sistema aureo da quello in cui è stato abbandonato in modo definitivo. Nel primo caso il debito si poteva estinguere perché esisteva il mezzo per farlo: l’oro. Nel secondo è diventato impossibile. Il rapido sviluppo economico tra il 1950 e il 1960, pur in presenza di una simultanea espansione monetaria, ridusse rapidamente il debito della seconda guerra mondiale. Ma ciò fu appunto possibile grazie alla presenza nel sistema monetario dell’oro la cui forza centripeta vincolava il debito. Non è un caso che dopo averlo esiliato, cioè a partire dalla seconda metà del XX secolo, il debito se ne sia andato per la tangente. Una volta superata la soglia della saturazione il debito non può più essere ridotto e diventa perpetuo. E’ questo l’aspetto cruciale completamente trascurato da Rogoff e Reinhart, dai loro detrattori e da tutti coloro che con analisi macroeconomiche tanto sofisticate quanto vane continuano a brancolare nel buio senza trovare una vita d’uscita. E non la trovano semplicemente perché nel sistema monetario vigente, una via d’uscita non esiste.

Ciò che ci porta a concludere che il debito in quanto tale non è il problema vero ma l’effetto dell’interventismo implicito nel sistema monetario attuale. Questo è un gigantesco monopolio guidato e coordinato dalle banche centrali che comprando i debiti dei governi e monetizzandoli pongono a fondamento del sistema il debito stesso. Ne risulta che il denaro, essendo debito, non può mai estinguere in modo definitivo altro debito ma solo trasferirlo. Per questo motivo è permanente. Raggiunta poi una certa soglia, lungi da produrre reddito lo dissolve, come un sovente chimico distrugge la materia.

Oggi c’è la tendenza a sostituire il termine con quello più rassicurante ma subdolo di “liquidità” che ha l’apparenza ingannatrice di un fondo illimitato e permanente di risorse a disposizione dei governi per finanziare le loro politiche scellerate. Tutte le discussioni sul debito sviano dunque l’attenzione da questo problema assolvendo l’operato delle banche centrali viste come salvatrici di ultima istanza mentre sono la causa primaria della destabilizzazione economica e finanziaria. Vale la pena di ricordare, in chiusura, l’opinione di Ludwig von Mises in merito: Uno dei punti essenziali della filosofia interventista è l’esistenza di un fondo inesauribile che può essere spremuto senza fine. Tutta questa dottrina crolla quando questa fonte è prosciugata. L’economia di babbo natale crollerà da sé. (Mises, Human Action).

http://www.chicago-blog.it/2013/05/04/m ... ardo-coco/
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 14/05/2013, 13:21

Trovata sul web (amico di amico, quindi per privacy non riporterò il nome): i numeri sono corretti secondo voi?

Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ci informa , che gli interessi sul debito pubblico quest’anno saranno 82 miliardi di euro. L’ FMI ci comunica anche un’altra cifra da infarto collettivo: gli interessi , che abbiamo pagato sul nostro debito pubblico, tra il 2007 e oggi sono stati pari a 523 miliardi di euro. In concreto gli interessi sono stati maggiori del totale delle entrate tributarie…che sono state pari a 482 miliardi di euro. Riduzione welfare, tagli sanità, previdenza, scuola, università e mancati investimenti in strade, ferrovie, digitale etc….solo per pagare gli interessi sul debito pubblico e per rispettare due numeri da CABALA quali il 3% del deficit e la mortale convergenza vero un debito pari al 60% del PIL: Questo è quanto ci ha prodotta una classe politica indecente e una Europa al servizio dei paesi del nord. I giapponesi se ne fottono delle pippe dei monetaristi !!! Hanno un rapporto debito/PIL al 236% praticamente quasi un rapporto doppio del nostro (126%) e un deficit all’11,5%...ovvero quasi 4 volte (3,96) il nostro deficit (2013) ….con relativa genuflessione a Bruxelles di Saccomanni…per far chiudere una procedura per deficit eccessivo…che nel 2003…..non è valsa per Francia e Germania. Da noi le imprese muoiono, i vecchi recuperano nei mercatini rionali gli avanzi di frutta e verdura buttati nella spazzatura, i meno vecchi risparmiano su medicine e analisi….nel mentre il Giappone….con il raddoppio della base monetaria in due anni…..ovvero creando liquidità per 1400 mld di dollari….si prefigge di cerare 600 mila posti di lavoro.


"Dovremmo aver paura del capitalismo, non delle macchine".
(Stephen Hawking)
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