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Una lettura keynesiana della crisi

Forum per le discussioni sulle tematiche economiche e produttive italiane, sul mondo del lavoro sulle problematiche tributarie, fiscali, previdenziali, sulle leggi finanziarie dello Stato.

Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 16/01/2013, 17:09

La tecnica della falsificazione: Monti toglie soldi alla sanità e all'istruzione pubblica, ma finanza la Bocconi.

http://temi.repubblica.it/micromega-onl ... ficazione/


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 16/01/2013, 21:31

flaviomob ha scritto:La tecnica della falsificazione: Monti toglie soldi alla sanità e all'istruzione pubblica, ma finanza la Bocconi.

http://temi.repubblica.it/micromega-onl ... ficazione/

Falsificazione? "La spesa si è contratta di 2, non di 2mila miliardi..." lo stesso Guglielmo Forges Davanzati ammette il refuso.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 16/01/2013, 22:20

Sì, il refuso è stato evidenziato nei commenti in pagina.


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L'estremista

Messaggioda flaviomob il 07/02/2013, 12:17

Ovviamente, da Repubblica:

Se anche Keynes è un estremista


di BARBARA SPINELLI

I PRÌNCIPI che ci governano, il Fondo Monetario, i capi europei che domani si riuniranno per discutere le future spese comuni dell'Unione, dovrebbero fermarsi qualche minuto davanti alla scritta apparsa giorni fa sui muri di Atene: "Non salvateci più!", e meditare sul terribile monito, che suggella un rigetto diffuso e al tempo stesso uno scacco dell'Europa intera. Si fa presto a bollare come populista la rabbia di parte della sinistra, oltre che di certe destre, e a non vedere in essa che arcaismo anti-moderno.

A differenza del Syriza greco le sinistre radicali non si sono unite (sono presenti nel Sel di Vendola, nella lista Ingroia, in parte del Pd, nello stesso Movimento 5 Stelle), ma un presagio pare accomunarle: la questione sociale, sorta nell'800 dall'industrializzazione, rinasce in tempi di disindustrializzazione e non trova stavolta né dighe né ascolto. Berlusconi sfrutta il malessere per offrire il suo orizzonte: più disuguaglianze, più condoni ai ricchi, e in Europa un futile isolamento. Sul Messaggero del 30 gennaio, il matematico Giorgio Israel denuncia l'astrattezza di chi immagina "che un paese possa riprendersi mentre i suoi cittadini vegetano depressi e senza prospettive, affidati passivamente alle cure di chi ne sa". Non diversa l'accusa di Paul Krugman: i governanti, soprattutto se dottrinari del neoliberismo, hanno dimenticato che "l'economia è un sistema sociale creato dalle persone per le persone".

Questo dice il graffito greco: se è per impoverirci, per usarci come cavie di politiche ritenute deleterie nello stesso Fmi, di grazia non salvateci. Non è demagogia, non è il comunismo che constata di nuovo il destino di fatale pauperizzazione del capitalismo. È una rivolta contro le incorporee certezze di chi in nome del futuro sacrifica le generazioni presenti, ed è stato accecato dall'esito della guerra fredda.

Da quella guerra il comunismo uscì polverizzato, ma la vittoria delle economie di mercato fu breve, e ingannevole. Specie in Europa, la sfida dell'avversario aveva plasmato e trasformato il capitalismo profondamente: lo Stato sociale, il piano Marshall del dopoguerra, il peso di sindacati e socialdemocrazie potenti, l'Unione infine tra Europei negli anni '50, furono la risposta escogitata per evitare che i popoli venissero tentati dalle malie comuniste. Dopo la caduta del Muro quella molla s'allentò, fino a svanire, e disinvoltamente si disse che la questione sociale era tramontata, bastava ritoccarla appena un po'.

È la sorte che tocca ai vincitori, in ogni guerra: il successo li rende ebbri, immemori. Facilmente degenera in maledizione. Le forze accumulate nella battaglia scemano: distruggendo il consenso creatosi attorno a esse (in particolare il consenso keynesiano, durato fino agli anni '70) e riducendo la propensione a inventare il nuovo. Forse questo intendeva Georgij Arbatov, consigliere di politica estera di molti capi sovietici, quando disse alla fine degli anni '80: "Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico". Quando nel 2007-2008 cominciò la grande crisi, e nel 2010 lambì l'Europa, economisti e governanti si ritrovarono del tutto impreparati, sorpassati, non diversamente dal comunismo reale travolto dai movimenti nell'89.

È il dramma che fa da sfondo alle tante invettive che prorompono nella campagna elettorale: gli attacchi dei centristi a Niki Vendola e alla Cgil in primis, ma anche al radicalismo della lista Ingroia, a certe collere sociali del Movimento 5 stelle, non sono una novità nell'Italia dell'ultimo quarto di secolo. Sono la versione meno rozza della retorica anticomunista che favorì l'irresistibile ascesa di Berlusconi, poco dopo la fine dell'Urss, e ancora lo favorisce. Il nemico andava artificiosamente tenuto in vita, o rimodellato, affinché il malaugurio di Arbatov non s'inverasse. Se la crisi economica è una guerra, perché privarsi di avversari così comodi, e provvidenzialmente disuniti? Quando Vendola dice a Monti che occorrerà accordarsi sul programma, nel caso in cui la sinistra governasse col centro, il presidente del Consiglio alza stupefatto gli occhi e replica: "Ma stiamo scherzando?", quasi un impudente eretico avesse cercato di piazzare il suo Vangelo gnostico nel canone biblico. Anche i difensori di Keynes sono additati al disprezzo: non sanno, costoro, che la guerra l'hanno persa anch'essi, nelle accademie e dappertutto?

In realtà non è affatto vero che l'hanno persa, e che lo spettro combattuto da Keynes sia finito in chiusi cassetti. Quando in Europa riaffiora la questione sociale - la povertà, la disoccupazione di massa - non puoi liquidarla come fosse una teoria defunta. È una questione terribilmente moderna, purtroppo. La ricetta comunista è fallita, ma il capitalismo sta messo abbastanza male (non quello della guerra fredda: quello decerebrato e svuotato dalla fine della guerra fredda). Non è rovinato come il comunismo sovietico, ma di scacco si tratta pur sempre.

È un fallimento non riuscire ad ascoltare e integrare le sinistre che in tantissime forme (anche limitandosi a combattere illegalità e corruzione politica) segnalano il ritorno non di una dottrina ma di un ben tangibile impoverimento. Prodi aveva visto giusto quando scommise sulla loro responsabilizzazione, e li immise nel governo. Fu abbattuto dalla propaganda televisiva di Berlusconi, ma la sua domanda non perde valore: come fronteggiare le crisi se non si coinvolge il malcontento, compreso quello morale? Ancor più oggi, nella recessione europea che perdura: difficile sormontarla senza il rispetto, e se possibile il consenso, dei nuovi dannati della terra. Forse abbiamo un'idea falsa delle modernità. Moderno non è chi sbandiera un'idea d'avanguardia. È, molto semplicemente, la storia che ci è contemporanea: che succede nei modi del tempo presente. Se la questione sociale ricompare, questa è modernità e moderni tornano a essere il sindacalismo, la socialdemocrazia, che per antico mestiere tentano di drizzare le storture capitaliste - con il welfare, la protezione dei più deboli. Sono correzioni, queste sì riformatrici, che non hanno distrutto, ma vivificato e potenziato il capitalismo. È la più moderna delle risposte, oggi come nel dopoguerra quando le democrazie del continente si unirono.

Non a caso viene dal più forte sindacato d'Europa, il Dgb tedesco, una delle più innovative proposte anti-crisi: un piano Marshall per l'Europa, gestito dall'Unione, simile al New Deal di Roosevelt negli anni '30. Dicono che i vecchi rimedi keynesiani - welfare, cura del bene pubblico - accrescono l'irresponsabilità individuale e degli Stati, assuefacendoli all'assistenza. Paventato è l'azzardo morale: bestia nera per chi oggi esige duro rigore. L'economista Albert Hirschman ha spiegato come le retoriche reazionarie abbiano tentato, dal '700-800, di bloccare ogni progresso civile o sociale (Retoriche dell'intransigenza, Il Mulino). Fra gli argomenti prediletti ve ne sono due, che nonostante le smentite restano attualissimi: la tesi della perversità, e della messa a repentaglio. Ogni passo avanti (suffragio universale, welfare, diritti individuali) perfidamente produce regresso, o mette a rischio conquiste precedenti. "Questo ucciderà quello", così Victor Hugo narra l'avvento del libro stampato che uccise le cattedrali. Oggi si direbbe: welfare o redditi minimi garantiti creano irresponsabilità. Quanto ai matrimoni gay, è la cattedrale dell'unione uomo-donna a soccombere, chissà perché.

Non è scritto da nessuna parte che la storia vada fatalmente in tale direzione. In astratto magari sì, ma se smettiamo di dissertare di "capitale umano" e parliamo di persone, forse l'azzardo morale diventa una scommessa vincente, come vincente dimostrò di essere nei secoli passati.

(06 febbraio 2013)


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 18/02/2013, 3:12

La crisi finanziaria e i suoi sviluppi*
Gli insegnamenti di Hyman Minsky

di RIccardo Bellofiore

http://www.sinistrainrete.info/teoria-e ... luppi.html


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda trilogy il 18/02/2013, 15:20

flaviomob ha scritto:La crisi finanziaria e i suoi sviluppi*
Gli insegnamenti di Hyman Minsky

di RIccardo Bellofiore

http://www.sinistrainrete.info/teoria-e ... luppi.html


E' un articolo interessante, però c'è un aspetto sostanziale che non condivido e che nella prassi produce disastri. Mi riferisco a: addirittura sostiene che ci si debba muovere verso una forma di socialismo che controlli – è letterale – i towering heads (in italiano potrei tradurlo con: i centri di comando) e si muova verso forme di communal consumption. Parla anche di un’economia trainata dal consumo, ma nella sua filosofia non credo che si tratti tanto di un puro e semplice aumento della propensione al consumo trainato dal reddito monetario ma sia semmai una diversa forma di intervento statale.

Più avanti riprende ancora questo tipo di ragionamento. In generale c'è la convinzione che accentrando le informazioni, le decisioni che ne conseguono hanno maggiore "razionalità".
In campo sociale, l'equazione: maggiori informazioni = maggiore prevedibilità = decisioni ottimali, è tutta da dimostrare.
Quando poi si parla di previsioni economiche e finanziarie, e decisioni in campo economico e finanziario questa convizione è pressochè del tutto infondata.
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Flessibilità o produttività?

Messaggioda flaviomob il 19/02/2013, 13:32

http://keynesblog.com/2013/02/19/la-fle ... duttivita/

Immagine

Capita spesso di leggere che le cosiddette “riforme strutturali“, tra cui quella del mercato del lavoro, siano necessarie per accrescere la produttività stagnante delle nostre imprese. In base a questo assunto e all’idea (facilmente falsificabile) che maggiore flessibilità porti a maggiore occupazione, negli anni si sono susseguite diverse modifiche del diritto del lavoro, sia da parte di governi di centrosinistra che di centrodestra.

Il risultato è che per il nostro Paese l’indice di protezione del lavoro (EPL), calcolato dall’OCSE, è precipitato da 3,57 (prima del “pacchetto Treu“) a 1,82 nel 2003. Nel 2008, ultimo anno di rilevazione, è risalito appena ad 1,89. Come ammette la stessa OCSE, siamo il paese che ha liberalizzato di più il mercato del lavoro relativamente alla posizione abbastanza rigida del passato.

Eppure se si giudicano i risultati della flessibilità, sembrano essere piuttosto deludenti. Non solo la produttività non è aumentata, ma la sua crescita è rallentata fino a diventare sostanzialmente nulla nell’ultimo decennio (si veda il grafico su riportato). Non necessariamente questo risultato negativo deve attribuirsi alla crescente flessibilità. Tuttavia i dati sembrano dire con chiarezza che la liberalizzazione del mercato del lavoro non ha prodotto effetti positivi misurabili sulla produttività.

Nonostante ciò, la convinzione che maggiore flessibilità porti a maggiore produttività è rintracciabile nel dibattito pubblico, quasi che un lavoratore precario sia più propenso a “impegnarsi” per il timore di perdere il posto di lavoro. Se ciò non bastasse, in un recente documento della stessa OCSE si afferma che la “dualità” tra lavoratori garantiti e non garantiti porta a inefficienze nella distribuzione delle risorse umane disponibili. Non si capisce tuttavia come rendere precario anche l’attuale “posto fisso” possa dare risultati migliori della precarietà sinora introdotta, così pesantemente, nel mercato del lavoro italiano.


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Re: Flessibilità o produttività?

Messaggioda trilogy il 20/02/2013, 13:23

flaviomob ha scritto:http://keynesblog.com/2013/02/19/la-flessibilita-non-fa-crescere-la-produttivita/


Capita spesso di leggere che le cosiddette “riforme strutturali“, tra cui quella del mercato del lavoro, siano necessarie per accrescere la produttività stagnante delle nostre imprese......


Amburgo è una delle città con la più alta produttività in Europa. Lasciando stare la teoria, sono molte interessanti le risposte chiare e pragmatiche che il direttore del Dipartimento del Ministero dell’Economia e del Lavoro della città fornisce in questa intervista:

link: http://www.reportonline.it/economia/lib ... pania.html

riferito a certe interviste che si leggono in Italia sembra di stare in un altro pianeta :mrgreen:

[..]Nella nostra regione‚ il cluster dell’aeronautica è collaudato da anni da imprese molto competitive, tecnologicamente attrezzate e con una produttività molto elevata. alta qualificazione professionale Ad Amburgo ormai funziona perfettamente sia la rete d’integrazione tra i players e la filiera delle PMI, che il sistema di formazione e aggiornamento professionale delle risorse umane. Queste condizioni rendono gli impianti di Airbus di Amburgo molto più competitivi di quelli del gruppo che sono a Tolosa. Airbus ha investito tantissimo in questi anni per la formazione e la qualificazione professionale per cui temiamo che il problema occupazionale possa emergere in quelle imprese del comparto più esposte finanziariamente , dove i lavoratori sono meno qualificati e con contratti a tempo determinato.[..]
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 21/02/2013, 12:04

http://blogs.reuters.com/edward-hadas/2 ... l-markets/


The menace of financial markets
By Edward Hadas
February 20, 2013


Financial markets are unstable, unhelpful and often immoral. They should be kept under better control.

My disdain will be dismissed by free-market enthusiasts. For them, lively markets where equities, bonds and currencies are sold at publicly disclosed prices are clearly a good thing; they may even be capitalism at its best. Such open markets, they say, both improve economic efficiency and make society more free.

Not so; these markets are economically and morally harmful. Let me be clear. I am not discussing what non-economists usually mean by markets, the generally useful supermarkets and farmers’ markets. Nor am I debating the merits of what economists refer to as the “market” – the real or virtual place where buyers and sellers make transactions. Nor is this a screed against all of finance. Banks and insurers do not need financial markets to gather savings and make loans and investments.

My issue is with those open financial markets – particularly in shares, bonds and currencies. In each of these markets, cash is traded for something entirely intangible and uncertain: a promise of fixed cashflow for bonds, potential cashflow for shares, and potential purchasing power and interest income for currencies. The problem is simple. Because the valuation of the financial asset is necessarily unknown, there is no hard reality to restrain irrational optimism and rampant cupidity. Both flourish.

In financial markets, prices wander all over the place like escaped cattle. That judgment is supported by solid analysis. In the 1980s, economist Robert Shiller demonstrated that actual changes in the economy and in companies’ fortunes together cannot possibly explain the magnitude of share-price moves. He concluded that psychological factors – mood swings – play a major role.

Moods have not stabilised since Shiller did his studies. Why is the U.S. S&P 500 Index almost twice as high now as in March 2009, adjusted for inflation, while U.S. GDP is only 8 percent higher? Why is it 23 percent lower, adjusted for inflation, than in August 2000, while GDP is 23 percent higher? Why do exchange rates change far more than GDP growth rates, interest rates or trade flows? Shiller’s answer to these questions is still persuasive; dramatic shifts between doubt and credulity lead to huge market swings.

Excessive market volatility distorts the rest of economy. Exchange rates always move too fast for companies to respond sensibly. Share price frenzies lead to unhelpful excesses and shortages of new capital. Bond prices are generally less flighty, but the rapid emotional gyrations in the euro zone government bond market – overconfidence followed by panic – brought the region into crisis. When a decade of blind investor optimism suddenly exploded into the financial panic of 2008, developed economies entered a recession which has not yet ended.

Financial markets do have a good side. Prices are disclosed, new capital is raised, and unwanted assets can be sold. But these benefits add much less to the economy than feverish trading and unjustified volatility subtract.

What about the moral claim for financial markets? They are correctly associated with freedom – most notably the freedom to set prices – and surely freedom is basically a good thing? Yes, but freedom is not good when it is habitually misused. Then it becomes harmful licence.

That is what happens in financial markets. Participants look for gains which are totally out of proportion to the effort expended. That’s unjust. Their desire for unjustified gain is inevitably stained by greed, and the vice spreads through the entire financial system. Greedy investors are willing to pay ridiculously high fees to investment banks and brokers, and the employees at these firms often end up unjustly rich, and frequently especially greedy.

Financial markets should be tamed.

First, kill the myths. Economists currently flatter investors with silly fantasies about “efficient markets”, “the wisdom of crowds”, and the economic importance of financial market signals. Central bankers have a magical belief that rising asset prices strengthen the economy. Such stories have no place in an efficient economy, nor in a just one. Change attitudes, and policies will follow. Central bankers and politicians will find ways to make wild fluctuations in asset prices less likely, and will feel obliged to protect the real economy from investors’ mood swings.

Foreign-exchange markets are especially harmful, since their dramas frequently wreak havoc on business plans. There is no virtue in allowing the free movement of money across borders for no good reason. Governments and regulators from different countries should constrain excessive flows and price moves.

Contrary to the enthusiasts’ claims, financial markets make the capitalist system less stable and less attractive. They provide a dreadful example of free markets in action. Capitalism would look more appealing if these markets were taken less seriously. Restraints would not limit true freedom; rather, they would free people from undignified slavery to emotion and greed.


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda trilogy il 21/02/2013, 13:48

flaviomob ha scritto:http://blogs.reuters.com/edward-hadas/2013/02/20/ethical-economy-the-menace-of-financial-markets/


The menace of financial markets
By Edward Hadas
February 20, 2013
[..]Financial markets are unstable, unhelpful and often immoral. They should be kept under better control.[..]


I mercati sono instabili per loro natura intrinseca. Nel momento in cui raggiungono il massimo della stabilità e i prezzi sono completamente sotto controllo è il momento in cui sono potenzialmente più pericolosi....Negli ultimi giorni gl'indici di volatilità avevano toccato dei minimi importanti e così molti operatori hanno inziato ad alleggerire i portafogli azionari.

Lo conferma anche implicitamente l'articolo più avanti. La volatilità era scesa ai minimi storici 2007 (massimo controllo) e nel 2008 è puntualmente e riesplosa
[..]When a decade of blind investor optimism suddenly exploded into the financial panic of 2008, developed economies entered a recession which has not yet ended.[..]

Sono cicli di mercato, se ne possono limitare gli effetti catastrofici ma penso siano ineliminabili.
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