Matteo Renzi spaventa i politici perché incarna una rottura: sia rispetto al passato remoto della sinistra italiana, sia rispetto al passato prossimo di un ventennio bloccato tra berlusconismo e antiberlusconismo. Ma Renzi è solo fumo o c’è anche dell’arrosto?
La domanda non è irrilevante e la risposta non è scontata. L’anno scorso, il sindaco di Firenze aveva presentato alla Leopolda un “wiki programma” che, da tanti punti di vista, appariva interessante e condivisibile. Oggi la questione del programma appare fondamentale (il che è curioso in un paese dove sono perlopiù ignote le posizioni dei principali leader politici su pressoché qualunque tema di una certa importanza).
Antonio Polito ha posto a Renzi domande precise, a cui il “rottamatore” ha replicato in modo non evasivo ma neanche esaustivo. Contemporaneamente, Franco Debenedetti ha sottolineato come a Renzi si chieda una chiarezza programmatica che da nessun altro viene pretesa, e lo stesso Luca Ricolfi, nell’esprimere un endorsement per il candidato del cambiamento, si sofferma più sulla forma del messaggio renziano, che sul messaggio stesso.
Eppure, Renzi un programma l’ha pubblicato. Vediamo cosa dice – con la consapevolezza che tale documento non è finalizzato (solo) a esprimere il profilo del Renzi-premier ma (soprattutto) a vincere le primarie del centrosinistra. Come con la Leopolda, mi soffermerò sulle proposte economiche. Intendiamoci: il programma di Renzi non contiene analisi profonde né soluzioni precise. E’ però indicativo dell’approccio culturale che il sindaco sembra voler adottare. In questo senso ha ragione Ricolfi: più ancora delle tecnicalità, contano il modo in cui egli affronta i problemi e il linguaggio che utilizza per farlo. Sicché, il programma di Renzi è un “prodotto” distante anni luce sia dagli slogan del Pdl, sia dalle mitiche 282 pagine di Romano Prodi (sui siti dei partiti non trovo né l’uno né l’altro, ma sicuramente è colpa di Google, non del fatto che se ne vergognano e li hanno sepolti e/o rimossi). Renzi non parla né la lingua del populismo né quella dell’equilibrismo: si esprime in una lingua pragmatica che, se contiene tracce sia di populismo sia di politichese, le unisce a una chiarezza di significato comunque lodevole. Una chiarezza – pur all’interno di contorni spesso labili delle sue proposte – che rende il programma di Renzi concretamente valutabile. Per chi abbia un minimo di consuetudine con le nostre prassi politiche, non è poco.
Il documento di Renzi si divide in dodici parti.
La prima “voce” s’intitola “ritrovare la democrazia” e riguarda temi di architettura istituzionale che, a me, paiono affrontati in modo razionale. Due suggerimenti, in particolare, sembrano interessanti: 1) “Il finanziamento pubblico va abolito o drasticamente ridotto” e va incanalato secondo sentieri diversi dagli attuali, cioè “favorire il finanziamento privato sia con il 5 per mille, sia attraverso donazioni private effettuate in maniera trasparente, tracciabile e pubblica” (idea che ricorda molto da vicino quella presentata da Nicola Rossi); 2) per quel che riguarda il rapporto tra i corpi della Repubblica, seppure in modo un po’ generico Renzi sembra puntare a una più efficace attuazione del federalismo, con una linearizzazione dei processi (la quale presuppone l’eliminazione degli enti “inutili”) e una migliore attribuzione di autonomia e responsabilità ai singoli soggetti istituzionali. Qui sarebbe davvero necessaria maggiore chiarezza: in principio ci siamo, ma poiché all’ombra del federalismo negli ultimi 20 anni si sono fatte le più immone porcherie (spesso con autentico spirito centralista o con l’effetto, se non l’obiettivo, di moltiplicare centri decisionali e costi in modo caotico) sarebbe davvero importante definire, con precisione, “chi fa cosa” (e soprattuto chi spende cosa e chi tassa chi).
Il secondo capitolo è dedicato all’Europa, ed è un po’ deludente. La frase “Per risolvere la crisi ci vuole più Europa non meno Europa”, oltre a essere vuota, è anche frusta (su Google trovo 222 risultati per la citazione letterale, 53 milioni per la ricerca libera). In concreto, Renzi sposa la tesi dell’integrazione bancaria europea, col conferimento alla Bce di maggiori poteri in tema di vigilanza, e una “maggiore integrazione” dei bilanci pubblici, in particolare attraverso l’emissione di titoli di debito comuni. Sul primo punto nulla da dire, ma quest’ultimo invece va guardato con grande sospetto: non solo la concorrenza fa bene anche al fisco, ma gli eurobond sono, puramente e semplicemente, la soluzione sbagliata (non ultimo in quanto sarebbero una macchina infernale per la produzione di moral hazard). L’altra grande voce di questo capitolo s’intitola “fare gli europei” e contiene proposte che tendenzialmente non mi piacciono, con l’eccezione della spinta all’internazionalizzazione delle università (Dio sa quanto ne avrebbe bisogno l’Italia). Infatti la logica di fondo è quella di spingere il Vecchio Continente verso una crescente integrazione politica, ignorando i costi e le difficoltà di un simile processo all’interno di una realtà così eterogenea, persino nella lingua, come è l’Europa. Può essere una questione di uovo e gallina, ma nutro grande diffidenza verso qualunque tentativo di costruzione statale in generale, e in particolare di edificazione di un welfare e di un fisco comune in presenza di un mercato del lavoro sostanzialmente privo di mobilità territoriale.
Il terzo paragrafo, “Le premesse del rilancio”, è uno dei più densi, dal mio punto di vista. Al primo posto mette la riduzione del debito pubblico attraverso privatizzazioni, sia di beni mobili che immobili. Poi chiede di vincolare il gettito della lotta all’evasione alla riduzione delle imposte per i contribuenti onesti (in realtà questo è facile, perché, almeno in teoria, è già previsto dalla legge). Quindi suggerisce di “istituzionalizzare” la spending review trasformandola non solo in uno strumento di “efficientamento” della spesa pubblica, ma anche in un’occasione di suo ripensamento radicale, inclusi un taglio radicale dei sussidi alle imprese (essenzialmente quanto chiede il Piano Giavazzi) e “la riduzione dell’area del pubblico impiego” (ok, vengono esclusi esplicitamente i licenziamenti, ma almeno si fa un accenno all’esigenza di contenere il moloch). Matteo, I’m with you: questo programma è il mio programma.
La quarta area d’intervento, “Investire sugli italiani”, esordisce con la promessa un po’ prima repubblica di garantire una massiccia espansione degli asili nido (ok, bene, ma qualifichiamo meglio…), ma per il resto è del tutto condivisibile, in quanto si basa sul presupposto che la performance degli educatori – nei rispettivi settori della scuola dell’obbligo, della formazione professionale e dell’università – vada valutata e che a tale valutazione debba essere collegato un meccanismo efficace di premi e sanzioni. Debolucce le proposte per favorire l’accesso al mercato del lavoro di giovani e anziani: bene l’intenzione, poco convincente lo svolgimento.
Il quinto capitolo ha un titolo ambizioso a dire poco: “un nuovo paradigma per la crescita: partire dal basso, smantellando le rendite”. In realtà contiene proposte per lo più di buonsenso: un sostegno al reddito per le fasce sociali medio-basse (ok se alternativo al sostegno in natura che deriva dall’erogazione gratis o quasi di servizi pubblici), liberalizzazioni a gogo. Trovo molto meno condivisibile il punto sulla garanzia finanziaria parapubblica per le aziende, che è l’ennesimo modo di girare attorno al primo grande problema, cioè i ritardi nei pagamenti della Pubblica Amministrazione. Molto buona l’idea di assegnare priorità agli investimenti pubblici nella manutenzione di piccole opere, piuttosto che realizzazione di grandi opere. A proposito di quest’ultime Renzi ha un’intuizione ma finisce fuori strada: istituire una commissione di esperti per valutare quali infrastrutture “servono davvero”. In realtà basterebbe prosciugare i sussidi e lasciar scegliere al mercato. Infine, molto correttamente i renziani individuano l’inefficienza della PA come maggiore ostacolo all’attrazione di investimenti stranieri. Quindi, per rendere il paese più attrattivo, non servono soldi ma riforme.
La sesta parte del programma è dedicata al welfare. L’approccio generale è assai sensato: il modo migliore per scongiurare forme di dipendenza cronica dallo Stato sociale e, contemporaneamente, garantire sufficiente flessibilità d’intervento, la sicurezza sociale deve trovare il suo alveo fondamentale al livello locale, e non deve avere dimensione puramente pubblicistica ma deve saper mobilitare associazioni, terzo settore, eccetera. Insomma: quella che, se la parola non fosse stata ampiamente sputtanata da chi ne ha fatto uso troppo disinvolto, si usava chiamare sussidiarietà. Per quel che riguarda la regolamentazione generale del mercato del lavoro, il modello è quello “alla Ichino” della flexsecurity. Sulla sanità, l’approccio è di una sostanziale razionalizzazione, legando il finanziamento del servizio alla definizione di “costi standard” e demandando la raccolta delle risorse necessarie principalmente alla fiscalità locale. Purtroppo non si parla – almeno non esplicitamente – di concorrenza tra strutture, anche se ciò non sembra essere in contraddizione con quanto viene esposto. Sulle pensioni, appoggio dichiarato e “non negoziabile” alla riforma Fornero.
Il settimo punto parla di tasse e l’esordio è una dichiarazione precisa: “La pressione fiscale ha raggiunto un livello insostenibile: uccide le imprese oneste e deprime i redditi dei lavoratori; soffoca l’economia e riduce la crescita. Al tempo stesso abbiamo un fisco che ‘fa la faccia feroce’ con gli onesti e con coloro che commettono uno sbaglio, sommerge gli italiani di norme complicate, ma ancora troppo spesso lascia i furbi indisturbati”. In che modo viene tradotta, in provvedimenti di policy, questa interpretazione (corretta)? La ricetta di Renzi inizia con la semplificazione sia per i singoli (“ciascun cittadino ha diritto di ricevere una dichiarazione dei redditi pre-compilata”) sia per le imprese, e prosegue ribadendo l’impegno di utilizzare i proventi della lotta all’evasione per l’abbattimento della pressione fiscale.
La semplificazione è anche al centro dell’ottavo capitolo del programma, che impone la trasparenza di tutti gli atti pubblici (presumibilmente inclusi i bilanci di enti e società partecipate) e l’informatizzazione della PA sia al suo interno, sia nel rapporto coi cittadini. La semplificazione viene immaginata come una prassi più che come un intervento spot, e si applica a tutti i livelli: dall’attività di produzione di norme e regolamenti all’organizzazione della giustizia.
La nona sezione è dedicata al “modello italiano: cultura, turismo, sostenibilità” e a mio avviso è la più debole. Sulla cultura la richiesta iniziale è “più risorse pubbliche”, anche se poi si riconosce l’importanza del ruolo dei privati (i cui investimenti si propone di defiscalizzare). Inoltre le varie proposte sulla promozione dell’Italia nel mondo attraverso un’agenzia unica per i musei mi sembrano naif a dire poco. Idem sul turismo: la risposta alla crisi del settore non può essere “una politica del turismo” (che vuol dire, poi?) ma affrontare i problemi che gli operatori turistici devono scontare, e che in buona parte sono coperti dagli otto punti precedenti. Anche sulla sostenibilità ambientale il programma è piuttosto generico e procede per slogan, quindi è difficile valutarlo.
Il decimo punto riguarda la sicurezza. L’undicesimo i “diritti” e al primo posto viene messo quello alla cittadinanza: “Chi nasce e cresce in Italia è italiano” (sottoscrivo). Il dodicesimo e ultimo capitolo è un invito alla partecipazione nella redazione del programma (in qualche modo questo articolo vuole essere una risposta a quell’invito).
Nel complesso, credo si possa ribadire quanto già avevo detto all’epoca della Leopolda: con tutte le sue contraddizioni, vaghezze e scelte retoriche, il programma di Renzi è, tra quelli dei candidati alle primarie del Pd e quelli degli altri partiti tradizionali, senza alcun dubbio quello più esaustivo. In questo senso è davvero bizzarro che il sindaco di Firenze venga continuamente tirato per la giacchetta per le sue reticenze programmatiche: piacciano oppure no, qui i contenuti ci sono. Possono piacere oppure no e meritano di essere valutati nel merito, non liquidati come se fossero assenti. Si poteva fare di più e meglio – che è sempre vero. Ma non v’è dubbio che, tra i papabili candidati dei partiti tradizionali, di destra e di sinistra, tutti gli altri abbiano fatto di meno e peggio.
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