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Amato: La Germania vuole buttarci fuori

Discussioni e proposte, prospettive e strategie per il Paese

La colpa è nostra, non dell’odiato tedesco ...

Messaggioda franz il 07/06/2012, 15:11

La colpa è nostra, non dell’odiato tedesco, e la pagheremo per 23 anni: se va bene

Oscar Giannino

Ok, la vecchia Europa ci è riuscita. Laddove il caos della finanza ad alta leva del mondo anglosassone aveva atterrito il mondo per tre trimestri, dal crac Lehman fino alla potente ripresa della locomotiva asiatica a metà 2009, e sia pur senza aver adottato da allora regole nuove davvero adeguate al guaio, la vecchia e declinante Europa dopo due anni e mezzo di crisi greca è riuscita a prendersi il posto della dea Ati, la signora della discordia, dell’ira e dei pugni levati al cielo. In poche settimane, a giugno, rischiamo il contagio bancario prima, e l’uscita dall’euro degli eurodeboli uno dopo l’altro. Ma attenti: l’eccesso di debito pubblico è nemico peggiore dell’odiato tedesco che oggi accomuna tutti i blabla sull’eurocrisi.

Da due istituti bancari falliti in Grecia – non hanno presentato il bilancio 2011, con la banca centrale d’accordo “per non influenzare le elezioni”, e chi vuole capire capisca – al crac spagnolo di Bankia, già conclamato e senza che il governo Rajoy possa da una parte affrontare da solo gli oltre 400 miliardi di euro di valori immobiliari illiquidi in pancia alle banche iberiche, né dall’altra subire l’onta di sottomettersi alla vigilanza della Trojka d’emergenza a cui la Germania vorrebbe piegare Madrid. In più, se la Grecia va fuori euro con le elezioni del 17, e se ci va in maniera non concordata, i mercati scontano che sarà come con le ciliegie: una tira l’altra. E l’Italia è in fila.

I tassi del bund tedesco sono di poco sopra l’1%, e tutti i decennali dei Paesi avanzati hanno ripiegato: in altre parole, scontano deflazione di massa inevitabile. (Il che, lo dico per i trader inveterati, non significa affaftto che non ci si possa guadagnare e anche bene:

This also is a view heard in investment committees of institutions of all sorts, from pensions to endowments, that Treasuries at low yields offer no potential return given their low yields. It was expressed most vehemently by The Black Swan author Nicholas Nassem Taleb, who declared in a wrong-way call two years ago worthy of Meredith Whitney that “every single human being” should sell Treasuries short.

Those who have followed that advice through the ProShares UltraShort 20+ Year Treasury exchange-traded fund (ticker: TBT) have suffered 53.42% negative total return in the past year and a negative annual return of 33.51% per annum over the past three years through May 30, according to fund tracker Morningstar.

By contrast, a conservative investor in the iShares Barclays 7-10 Year Treasury ETF (IEF) — representing the sensiblmiddle of the Treasury curve — would have reaped a 15.11% total return for the past 12 months and 9.22% per annum forthe past three years. More aggressive types who went for the iShares Barclays 20+ Year Treasury Bond ETF are looking at a 36.47% one-year return and 15.03% per annum for the past three years. And those who swung for the fences with the Vanguard Extended Duration Treasury Index ETF (EDV), among the most aggressive Treasury funds around, scored a 61.13% one-year return and 21.24% annually for the past three years, again per Morningstar data.)

La Cina ha visto scendere la sua inflazione interna a tassi poco più che europei, il che significa che la sua frenata nel secondo trimestre può intaccare quel 7 e qualcosa per cento di crescita annuale a cui aveva dichiarato di voler planare dal 10%. L’India si avvia a un secondo trimestre di probabile stasi o contrazione del Pil, compromettendo il 5,8% annuale a cui si credeva avviata. Negli States, il miserando numero di posti di lavoro creato in maggio, poco più di 60mila, meno della metà delle attese, e la revisione al ribasso del dato di aprile confermano che Mitt Romney può battere Obama, perché malgrado 5 mila miliardi di dollari di debito pubblico aggiuntivo negli anni di presidenza Obama – il 50% più di quello ereditato – l’economia annuncia ogni volta di decollare e poi si pianta.

A riprova del rallentamento mondiale causato dall’euroarea, il petrolio Brent è sceso del 22% dal primo marzo, del 7% il Commodity Research Bureau Spot Market Price Index, che mette insieme gli andamenti di acciaio, rame, zinco, zucchero, cacao, gomma.

Il peggio è che l’Europa scassatutto grazie agli errori della sua politica annebbia anche la mente a molti economisti. Quasi tutte le scuole concordarono, nella prima parte della crisi, che l’eccesso di consumo privato finanziato a debito e ad alta leva era un grave errore: tranne dividersi poi sul fatto se le banche andavano fatte fallire punendo gli azionisti, salvando i clienti e modificandone regimen operandi, oppure no.

L’irrisolto dilemma della stabilità del sistema bancario dipende in realtà dallo scemare verticale dei collaterali considerati liquidi dal mercato. Mentre negli anni Sessanta e Settanta per una banca commerciale a fronte di un dollaro di asset gli impieghi complessivi erano pari a 3 o al più 4 dollari, nell’anno 2007 eravamo giunti nelle grandi banche transnazionali di modello anglosassone fino a 673 dollari di impieghi diretti e soprattutto derivati per ogni dollaro di asset. Il delevereging verticale occorso da allora – ergo: le classi di asset sempre più vaste considerate illiquide – ha portato a fine 2011 il rapporto a 1 versus 33. E’ questo, a spingere drmmaticamente le banche centrali a creare fiat money, cioè a darci dentro di torchio monetario. Ma è un classico rimedio che non cura il male, checché ne dicano i tanti chiacchieroni che invocano stampa di moneta a gogo come rimedio alla crisi.

Ferve invece uno scontro frontale, intorno agli eccessi di consumo pubblico finanziati a debito. Furoreggia Paul Krugman, che lapida i tedeschi che vogliono imporre rigore quando invece il debito pubblico è perfettamente sostenibile, basta stampare moneta. I governi eurodeboili si accodano, la teutonica Merkel, arcigna e cipigliosa, diventa per tutti simbolo di cinismo ed egoismo. Quando invece è assolutamente og-get-ti-vo, che l’eccesso di debito pubblico europeo è un disastro insostenibile.

Nel nostro caso non è neanche figlio di bolle immobiliari tappate a spese del contribuente né di banche salvate, ma di decennale avanzata di un Moloch ipertrofico, inefficiente e insopportabilmente autoritario nella sua autotutela giuridica contro ogni simmetrico diritto negato al cittadino contribuente e imprenditore. Anche gli statalisti più incalliti dovrebbero leggere un bel paper scritto da Carmen – ex consigliera di Obama – e Vincent Reinhart, suo marito, dal titolo “Debt Overhangs: Past and Present”.

Si studiano in maniera comparata dal 1800 a oggi tutte le maggiori crisi di debito pubblico superiore al 90% del Pil. Se ne stima la durata media in 23 anni, come effetti di crowding out, abbattimento degli investimenti e diminuzione del tasso di crescita del reddito dei loro cittadini. E la media di crescita per ogni anno è dell’1% di pil in meno. Il che, dopo 23 anni, per il tasso composto fa ben più di un terzo di crescita potenziale a cui si è detto addio. Tutto per difendere l’intoccabilità della montagna stregata rappresentata dalla pubblica amministrazione italiana: che pena. E che pena anche i tecnici al governo, che presentano come gran cosa tagliare 4 miliardi su 700 di spesa pubblica corrente cioè lo 0,57%,, quando decine di migliaia di imprese italiane devono affrontare turnaround in cui si taglia anche il 25 o il 30% di costi da un anno all’altro.

http://www.chicago-blog.it/2012/06/06/l ... e-va-bene/
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Re: La colpa è nostra, non dell’odiato tedesco ...

Messaggioda trilogy il 08/06/2012, 9:35

franz ha scritto:La colpa è nostra, non dell’odiato tedesco, e la pagheremo per 23 anni: se va bene

Oscar Giannino

[..]I tassi del bund tedesco sono di poco sopra l’1%, e tutti i decennali dei Paesi avanzati hanno ripiegato: in altre parole, scontano deflazione di massa inevitabile. (Il che, lo dico per i trader inveterati, non significa affaftto che non ci si possa guadagnare e anche bene:

Those who have followed that advice through the ProShares UltraShort 20+ Year Treasury exchange-traded fund (ticker: TBT) have suffered 53.42% negative total return in the past year and a negative annual return of 33.51% per annum over the past three years through May 30, according to fund tracker Morningstar.

E che pena anche i tecnici al governo, che presentano come gran cosa tagliare 4 miliardi su 700 di spesa pubblica corrente cioè lo 0,57%,, quando decine di migliaia di imprese italiane devono affrontare turnaround in cui si taglia anche il 25 o il 30% di costi da un anno all’altro.

http://www.chicago-blog.it/2012/06/06/l ... e-va-bene/



Tutto sommato condivisibile quello che dice Giannino, sul taglio dei costi di funzionamento della macchina pubblica, per ora i risultati sono irrilevanti, anzi forse la situazione è in peggioramento, ma non è una sorpresa.

Mi sfugge invece il senso dell'avviso ai "trader inveterati". Che si possa guadagnare anche con una deflazione di massa, quelli lo sanno perfettamente. Tra l'altro tirando in ballo come esempio gli ETF con leva. Quel tipo di strumenti, hanno una caratteristica. Tendono ad avere percentuali di rendimento che si discostano dal paniere di riferimento al passare del tempo. Quindi i "trader inveterati" vanno short (vendono allo scoperto) gli ETF ultrashort per andare long, e vanno short sugli ETF ultralong per andare short. Sembra un delirio linguistico :mrgreen:
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L’EUROBUROCRAZIA” di TITO BOERI

Messaggioda franz il 09/06/2012, 15:03

“L’EUROBUROCRAZIA” di TITO BOERI da La Repubblica del 9 giugno 2012
Posted on 9 giugno 2012

Quando la casa brucia, i pompieri non possono impiegare tre anni per elaborare un piano di salvataggio e altri tre per metterlo in pratica. Eppure la Commissione Europea ha presentato solo in questi giorni il suo piano per l’unione bancaria europea, su cui aveva iniziato a lavorare nel 2009. Questo piano richiederà, nella migliore delle ipotesi, altri tre anni per essere attuato. C’è un rischio non piccolo che quando la direttiva diventerà finalmente operativa, l’oggetto delle sue amorevoli attenzioni, la moneta unica, non ci sia più rendendo tutto questo lavoro del tutto inutile.

Su invito della Confederazione Europea dei sindacati, la Commissione Europea sta in questi giorni elaborando anche una sua proposta per il cosiddetto “Social Compact”. L’idea è quella di dare all’Europa condizionalità non solo nell’imporre piani di aggiustamento fiscale (il “Fiscal Compact”), ma anche nell’attuazione di politiche sociali, volte a contenere i costi della crisi. Il proposito è nobile, ma il risultato rischia di essere controproducente. I programmi sociali compatibili con l’aggiustamento fiscale richiederanno cambiamenti non piccoli nella composizione della spesa sociale nei diversi paesi – ad esempio espandendo i programmi di assistenza di base e riducendo la generosità dei sistemi pensionistici – e questi cambiamenti sono politicamente e socialmente difficili. Se i cittadini europei pensassero che i responsabili di questi interventi sono istituzioni europee lontane da loro, che mancano di legittimazione democratica, si darebbe un aiuto insperato al populismo centrifugo, a chi in tutti i paesi dell’Unione spinge per la sua disgregazione scatenando la ribellione contro i tagli alla spesa sociale imposti da Bruxelles.

La Commissione Europea dovrebbe in questo momento essere concentrata sullo spegnimento dell’incendio, dedicare tutte le sue energie a trovare modalità per permettere la conduzione di una politica monetaria comune nell’ambito dei trattati e, se necessario, progettare percorsi accelerati di modifica dei trattati per reagire in modo adeguato alla crisi. Se vuole occuparsi anche di coordinamento delle politiche sociali, bene che fissi delle priorità. Non sono, a nostro giudizio, le politiche attive del lavoro, gli stimoli alla ricerca di un lavoro, che, notoriamente, non funzionano durante le recessioni, quando non c’è domanda di lavoro e ci sono troppo pochi posti vacanti in rapporto a quanti cercano un impiego. Non possono neanche essere politiche che richiedono ulteriori impegni di spesa ai governi, dato che sarebbero incompatibili con il consolidamento fiscale.

Le priorità per un coordinamento delle politiche sociali a livello europeo sono altre. Due in particolare, ci sembra rispondano meglio di tutte alle esigenze attuali.
Si tratta innanzitutto di rimuovere i tantissimi ostacoli che si frappongono alla mobi-lità territoriale dei lavoratori, in termini di riconoscimento dei titoli professionali, di portabilità di diritti assicurativo-previdenziali e di asimmetrie nelle politiche dell’immigrazione (gli immigrati sono la componente più mobile della forza lavoro europea). Poter cambiare paese in cerca di lavoro per molti giovani è l’unica opzione possibile per non subire danni a vita nelle proprie carriere lavorative e questa crisi colpisce in modo molto diverso il Nord e il Sud dell’Europa, offrendo opportunità di impiego a chi si sposta nell’ambito dei confini dell’Unione.

Inoltre i cittadini tedeschi — che continuano a condividere il modo con cui la Merkel sta gestendo la crisi dell’Euro — avrebbero un atteggiamento ben diverso rispetto agli aiuti ai paesi in difficoltà quando vedessero arrivare in Germania grandi flussi migratori dalla Grecia e dalla Spagna. Dopotutto la paura di grandi flussi migratori è stato ciò che ha creato sostegno all’Ovest per i massicci trasferimenti concessi all’Est della Germania dopo l’unificazione. L’unificazione del mercato del lavoro nell’Unione è importante economicamente ed ha una funzione persuasiva molto superiore alle migliaia di parole sprecate in questi mesi denunciando gli egoismi della Merkel. Invece di fare tutto questo, la Commissione sta assistendo senza reagire ai tentativi di smantellare quel poco di libera circolazione dei lavoratori che c’è già, a partire dalle restrizioni imposte agli accordi di Schengen.

La seconda priorità per l’Europa sociale è legata ai minimi di sussistenza che dovrebbero essere garantiti ad ogni cittadino dell’Unione. Nel momento in cui l’Europa chiede tagli alla spesa pubblica, compresa quella sociale, come condizione per finanziare il debito dei paesi in difficoltà, la Commissione dovrebbe preoccuparsi di evitare che i singoli paesi smantellino la rete di assistenza sociale di base. Dovrebbe anche spingere quei paesi che non hanno ancora questa rete (guarda caso Grecia e Italia che sono particolarmente investiti dalla crisi) a metterla rapidamente in piedi, permettendo che i fondi comunitari vengano destinati prioritariamente al contenimento della povertà estrema e fornendo assistenza tecnica ai paesi nel migliorare le tecniche con cui accertano le condizioni di bisogno per selezionare i beneficiari dell’assistenza.

La Commissione ha il potere di stabilire l’agenda europea, può dettare le priorità. È un potere, in questo momento, non trascurabile. Ma se disperde la sua iniziativa su troppi fronti e non sa scegliere le priorità, rinuncia a questo potere, rischia di diventare ancora più irrilevante di quanto non sia già. E rischia di farsi odiare dai cittadini europei più di quanto non lo siano quei leader europei sulle cui spalle grava la responsabilità di questa nuova recessione. Bene allora concentrarsi su ciò che è davvero importante per la sopravvivenza dell’Unione. Tutto il resto, in questo momento, è retorica, noia, maledetta
noia.

“L’EUROBUROCRAZIA” di TITO BOERI da La Repubblica del 9 giugno 2012
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Re: Amato: La Germania vuole buttarci fuori

Messaggioda flaviomob il 13/06/2012, 13:42

Berlino-Parigi, la commedia degli errori
di BARBARA SPINELLI

DA QUALCHE giorno si parla, non senza speranza, della proposta avanzata il 7 giugno da Angela Merkel alla televisione tedesca. Un'unione economica e politica dell'Europa, grazie alla quale la moneta unica potrà sormontare i propri squilibri, l'indebitamento degli Stati diverrà comune debito europeo, l'Unione potrà emettere eurobond garantiti solidalmente, sorvegliare le banche unificandole. L'obiettivo sarebbe una Federazione, ottenibile attraverso nuove graduali cessioni di sovranità nazionali: ancora in mano agli Stati, esse sono impotenti di fronte ai mercati. La terra promessa è bella, ma è tutt'altro che chiaro se il Cancelliere voglia, e presto, quel che annuncia. Se non stia guadagnando tempo, dunque perdendolo. Comunque, l'idea è di sfidare il suo principale interlocutore: il nuovo Presidente francese. Ricordi, la Francia, che se l'Europa non si fa la colpa è sua, non dei tedeschi. È da decenni che Parigi avversa cessioni di sovranità, e ora è messa davanti alle sue responsabilità. Né pare recedere: due ministri, degli Esteri e dell'Europa, votarono contro la Costituzione nel 2005.

La rigidità francese è certo corresponsabile del presente marasma - Hollande potrebbe prendere sul serio la Merkel, costringendola a fare quel che dice di volere - ma se ascoltiamo le parole del Cancelliere e soprattutto quelle di Schäuble, ministro del Tesoro, il piano somiglia molto a un villaggio Potemkin: un prodigio, ma di cartapesta. Di poteri rafforzati delle istituzioni
europee la Merkel parlò il 14 novembre 2011 (al congresso democristiano), e poi in una conferenza a Berlino il 7 febbraio, ma mai l'idea divenne formale proposta. Il più esplicito è stato Jens Weidmann, governatore della Bundesbank. Subito dopo l'elezione di Hollande, ha scelto la tribuna di Le Monde, il 25 maggio, per stuzzicare i francesi: mettere in comune i debiti, ha detto, è impossibile senza Federazione. "Perfino nei paesi che reclamano gli eurobond, come in Francia, non constato su questo tema né dibattito pubblico, né sostegno popolare a trasferimenti di sovranità".

Il fatto è che nella posizione tedesca c'è qualcosa di profondamente specioso, e insensatamente lento. Intervistato dall'Handelsblatt, il 5 giugno, Schäuble afferma che l'unione politica è un progetto di lungo termine. Prima bisogna vincere la crisi: ogni Stato con le sue forze, e con piani di austerità che pure hanno mostrato la loro inanità. Fanno male, i piani? Sfiniscono i popoli, e aumentano perversamente i debiti nazionali? Il ministro lo nega: quasi sembra considerare la sofferenza un prelibato ingrediente della rinascita europea. La domanda frana nei paesi indebitati? Niente affatto: "I programmi non diminuiscono il potere d'acquisto, siamo solo di fronte a crisi di adattamento". L'Unione crollerà? Anche questo viene negato: "I grandi scenari apocalittici non si sono mai inverati".

La negazione dei fatti, unita a un impressionante oblio storico (come si fa, in Europa, a dire che gli scenari apocalittici non si sono mai inverati?): sono gli elementi che impregnano oggi la posizione tedesca. Se questa appare così immobile, è perché un dogma la paralizza. È il dogma della "casa in ordine", in voga tra gli economisti tedeschi dagli anni '20: se ogni Stato fa ordine come si deve, la cooperazione internazionale funzionerà e a quel punto si penserà all'unione politica, all'unione bancaria per far fronte alla crisi spagnola, alle misure per l'Italia pericolante. Come spesso accade ai dogmi, essi contengono incongruenze logiche e un'abissale indifferenza al divenire storico.

Il difetto logico, spesso sconfinante nell'ottusità, è palese nel ragionare dei vertici tedeschi. Si riconosce che l'euro senza Stato è zoppo, si rievoca quel che Kohl disse a proposito dell'unione politica, necessario complemento della moneta unica. Per la Merkel come per Schäuble, tuttavia, l'unione ha senso dopo che gli Stati avranno aggiustato le finanze: non diventa lievito della ripresa, ma si aggiunge ex post, quasi un premio. Che significa, allora, dire che l'euro senza Stato è il vizio d'origine dell'unione monetaria? Se i rimedi ai vizi sono rinviati, vuol dire che non sono ritenuti farmaci cruciali. Cruciale è il giudizio dei mercati, non arginabili con un cambio di paradigma nella costruzione europea. Cruciale è il culto del dogma, impacchettato con carta europeista in modo da imbarazzare i francesi. È quel che Walter Benjamin, in un frammento del 1921, chiama religione del capitalismo: quest'ultimo diventa "puro culto", che non redime ma colpevolizza soltanto. Non a caso, dice Benjamin, Schuld ha in tedesco due significati: debito e colpa.

La smemoratezza storica non è meno funesta. Berlino dimentica non solo gli anni '20, quando le furono imposte riparazioni non sostenibili e il paese precipitò nel nazismo. Dimentica anche quel che fu il piano Marshall, nel dopoguerra. Charles Maier, storico a Harvard, spiega che il piano funzionò perché non era condizionato: le riforme sarebbero venute col tempo, grazie alla ripresa europea. Oggi toccherebbe alla Germania avere quell'atteggiamento, che legò riduzione dei debiti e rimborsi dei prestiti alla crescita ritrovata. Scrive Maier: "Gli europei dovrebbero ricordare il monito di George Marshall, nel '47: "Il paziente sprofonda, mentre i dottori deliberano"" (New York Times, 9-6-12).

Anche Obama, quando invita i tedeschi a crescere di più e fa capire che è in pericolo la sua rielezione, è privo di visione lunga. Il vissuto del dopoguerra, la leadership americana che incitò all'unificazione europea, è scordata. Solo ieri la Casa Bianca ha menzionato, auspicandola, l'unione del nostro continente. Gli uomini degli anni '50 che Jean Monnet cita nelle Memorie, (John McCloy, consigliere di molti Presidenti; Dean Acheson, segretario di Stato; David Bruce, ambasciatore Usa in Francia) è come fossero ignoti. Nè sembra dir qualcosa, a Obama e agli europei, la storia stessa dell'America: il passaggio dalla Confederazione di Stati sovrani alla Federazione che Hamilton (allora segretario al Tesoro) accelerò nel 1790 cominciando col mettere in comune i debiti accumulati durante la guerra d'indipendenza.

Il discorso che Thomas Sargent ha tenuto in occasione del premio Nobel per l'economia, nel dicembre 2011, evoca quell'esperienza a uso europeo. Fu la messa in comune dei debiti a tramutare la costituzione confederale in Federazione. Fu per rassicurare i creditori che venne conferito alla Federazione il potere di riscuotere tasse, dandole un bilancio comune non più fatiscente. Solo dopo, forti di una garanzia federale, gli Stati si prefissero nei propri ambiti il pareggio di bilancio, e nacque la moneta unica, e si fece strada l'idea di una Banca centrale.
Invece di preoccuparsi dei poteri forti, Monti ha una grande opportunità: preparare per il prossimo vertice Ue una controproposta europea, basata sul rilancio, la comunità delle banche, la parziale comunitarizzazione dei debiti, da presentare insieme ai governi che lo desiderano, Grecia in primis. I veri poteri forti non sono in Italia. Vale la pena prospettare - non in conferenze ma ai partner - un'unione politica vera.

Non un'unione di cartapesta, ma un piano che dia all'Unione le risorse necessarie, il diritto di tassare più in Europa e meno nelle nazioni (a cominciare dalla tassa sulle transazioni finanziarie e le emissioni di biossido di carbonio), e metta il bilancio federale sotto il controllo del Parlamento europeo, come suggerisce lo storico Maier. Oggi l'Unione dispone di risorse irrisorie (meno del 2 per cento del prodotto europeo), come l'America prima di Hamilton. Se la Merkel non ci sta, gli Stati favorevoli si contino, nel Consiglio europeo. Non succede il finimondo se Berlino è messa in minoranza. Accadde ai tempi dell'euro con la Thatcher. Il primo che in Europa farà votare su proposte serie passerà alla storia.

(Repubblica)


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La Grande Fuga dei Capitali in Europa

Messaggioda franz il 14/06/2012, 8:06

La grande ritirata ha avuto inizio circa quattro anni fa, ogni tanto accelera e solo di rado rallenta. Ma non si ferma mai. Non accenna in nessun momento, almeno per ora, a invertire il senso di marcia. È la ritirata del denaro: silenziosa e poco visibile per i cittadini, è la grande forza che sta mettendo alla prova centinaia di milioni di lavoratori e imprese nel continente.

Gli addetti ai lavori lo chiamano «sudden stop», arresto improvviso. Si trattasse di un corpo umano, sarebbe un infarto che impedisce al sangue di raggiungere le membra e alcuni degli organi vitali. Con l'euro questo fenomeno prende la forma di una fuga degli investitori esteri da qualunque parte dell'area e non solo dalla cosiddetta «periferia» composta da Italia, Spagna, Irlanda, Portogallo e Grecia. In realtà un po' ovunque banche e imprese stanno rimpatriando i fondi e i conti bancari dagli altri Paesi d'Europa verso il proprio Paese d'origine: il fenomeno della rinazionalizzazione dei capitali colpisce la Germania quanto l'Italia, la Francia come la Spagna; se Spagna e Italia ne soffrono più di Germania o Francia, è semplicemente perché le economie dell'Europa del Sud hanno molto più bisogno di capitali esteri per finanziare i propri debiti e così continuare a funzionare. È come se l'invisibile ragnatela del denaro che tiene unita l'area monetaria, l'infrastruttura dell'euro, si stesse sfaldando e ritraendo mese dopo mese. Chi ha bisogno del denaro altrui per vivere, perché ha troppi debiti, avverte questo fenomeno come una carenza di liquidità che rallenta i pagamenti, soffoca le imprese, distrugge i posti di lavoro.

Ma più questa infrastruttura dell'euro si ritrae, più si estende un secondo processo patologico: in certi Paesi deboli dell'area, i risparmiatori temono che le banche o lo Stato non reggano il colpo, non si fidano più e decidono di mettere in sicurezza i propri soldi. Decidono di portarli altrove. Nasce così l'altro fenomeno, parallelo al grande rimpatrio dei fondi: in Grecia o in Spagna, a Cipro o in Irlanda i cittadini e le imprese chiudono i loro conti in banca e portano i soldi in Germania, in Lussemburgo, in Olanda o anche in Francia. In Italia i deflussi di depositi di qualche mese fa si sono fermati, poi c'è stato un netto recupero da febbraio a aprile, anche se ora si aspettano dati affidabili su maggio e giugno.

Le due correnti, rimpatrio dei fondi e fuga dei capitali, viaggiano allo stesso tempo e sono alimentati da un timore comune: che l'euro un giorno potrebbe non esserci più; ma sono proprio queste due correnti che ne mettono in pericolo la sopravvivenza, ed è l'incertezza che ne deriva a sua volta alimenta i flussi perversi di capitale.

La spirale si può spezzare, occorre un accordo al massimo livello politico come lo fu Maastricht nel '91. Ma i dati della Banca centrale europea e quelli della Banca dei regolamenti internazionali mostrano che l'avvitamento è in corso ed è partito quando in Occidente l'accumulo di debito è arrivato a livelli insopportabili. Tutto è iniziato nella prima metà del 2008, alla vigilia del collasso di Bear Stearns e Lehman Brothers negli Stati Uniti. Dal marzo al giugno di quell'anno ha raggiunto il record di sempre l'esposizione delle banche francesi e tedesche sull'Italia (rispettivamente 531 e 269 miliardi di dollari), ma anche di quelle tedesche sulla Spagna (211 miliardi) o di quelle italiane su Francia e Germania (rispettivamente 88 e 427 miliardi di dollari). Da allora la crisi e poi i timori per il futuro dell'euro hanno suonato la grande ritirata per tutti. Alla fine del 2011 le banche francesi avevano ridotto i loro investimenti sull'Italia del 37%, cioè di duecento miliardi di dollari (84 miliardi solo negli ultimi sei mesi del 2011). Nel frattempo le banche tedesche hanno tagliato la loro esposizione sull'Italia del 50% e sulla Spagna del 53%. Solo da Germania e Francia su Italia e Spagna, si è consumato un rimpatrio di capitali sulla scala colossale di 600 miliardi di dollari in tre anni. Gli spread sui titoli di Stato sono esplosi così.

Di certo francesi e tedeschi erano preoccupati per la tenuta del debito dell'Italia o della Spagna, ma non è il solo motivo. A ben vedere, le banche italiane si sono comportate esattamente allo stesso modo: dal 2008 al 2011 hanno tagliato i loro investimenti in Germania del 46% (cioè di ben 200 miliardi di dollari) e in Francia del 54%. Ognuno è tornato con i propri soldi in casa propria, come se non si fidasse più di restare altrove nell'area-euro. Perché? Due ragioni: le autorità nazionali di controllo, dalla Bafin tedesca alla Banca d'Italia, hanno spinto in questo senso; ma soprattutto le banche (e le imprese) hanno deciso che forse in un giorno molto vicino l'euro non esisterà più, quindi è più sicuro tenere le proprie attività e le proprie passività tutte dentro la stessa giurisdizione nazionale, in modo da evitare rischi futuri con un tasso di cambio fluttuante fra l'Italia e la Germania, o la Spagna e la Francia: meglio non avere debiti in una moneta che si rivaluta e introiti in una moneta debole.

È questo comportamento che sta sfaldando l'infrastruttura dell'unione monetaria, in un panico che si autoalimenta. Il risultato è che l'Italia, la Spagna, il Portogallo, l'Irlanda o la Grecia hanno perso gli investitori privati esteri nel loro debito e faticano a finanziarsi. La tabella al centro, elaborata da Jean Pisani-Ferry e Silvia Merler del centro-studi Bruegel, mostra che i fondi privati dall'estero verso l'Italia sono crollati nell'ultimo anno di 200 miliardi: circa il 14% del Pil. Fuori dall'Italia, non ci sono più compratori privati di Bot o Btp. Li ha dovuti sostituire la Bce, comprando direttamente titoli di Stato oppure prestando alle banche italiane perché lo facessero. Il risultato è che nel sistema dei pagamenti interno alle banche centrali europee federate nella Bce, chiamato «Target 2», l'Italia o la Spagna sono sempre più in debito e la Germania sempre più in credito (tabella sopra).

E i conti in banca delle famiglie e delle imprese? Lì la grande fuga ha preso una forma diversa. Dalla Grecia sono defluiti il 16% dei depositi bancari fra marzo 2011 e marzo 2012, in tutto il 30% dal 2009: è già più di quanto accadde in Argentina con il default. In Spagna l'emorragia dei depositi è stata del 4-5% fino a marzo scorso e da allora è certamente proseguita. E in Italia? Secondo le stime della Bce, i depositi nel marzo di quest'anno erano del 2% superiori rispetto a un anno prima. Ma esistono delle fragilità: un principio di ritiri dai conti correnti alla fine dell'anno scorso fa sì anche ancora a primavera scorsa i depositi bancari italiani fossero dello 0,7% al di sotto dei livelli massimi raggiunti nel dicembre del 2010.

Molti in Italia, in Germania, in Francia o in Spagna si stanno comportando come se temessero la fine dell'euro. Cercano di prepararsi alla fine dell'unione monetaria. Ed è così che la stanno rendendo possibile.

Federico Fubini14 giugno 2012 | 7:52 http://www.corriere.it
Il grafico: http://www.corriere.it/Primo_Piano/Econ ... ndia.shtml
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Re: La Grande Fuga dei Capitali in Europa

Messaggioda trilogy il 14/06/2012, 10:40

franz ha scritto:[..]Gli addetti ai lavori lo chiamano «sudden stop», arresto improvviso. Si trattasse di un corpo umano, sarebbe un infarto che impedisce al sangue di raggiungere le membra e alcuni degli organi vitali. Con l'euro questo fenomeno prende la forma di una fuga degli investitori esteri da qualunque parte dell'area e non solo dalla cosiddetta «periferia» composta da Italia, Spagna, Irlanda, Portogallo e Grecia. In realtà un po' ovunque banche e imprese stanno rimpatriando i fondi e i conti bancari dagli altri Paesi d'Europa verso il proprio Paese d'origine: il fenomeno della rinazionalizzazione dei capitali colpisce la Germania quanto l'Italia, la Francia come la Spagna; se Spagna e Italia ne soffrono più di Germania o Francia, è semplicemente perché le economie dell'Europa del Sud hanno molto più bisogno di capitali esteri per finanziare i propri debiti e così continuare a funzionare. È come se l'invisibile ragnatela del denaro che tiene unita l'area monetaria, l'infrastruttura dell'euro, si stesse sfaldando e ritraendo mese dopo mese....


Il fenomeno è conosciuto, ma la differenza rispetto a crisi precedenti è nelle dimensioni del fenomeno che sono impressionati e nell'estensione che è globale. Senza le periodiche immissioni di liquidità da parte di tutte le banche centrali l'economia mondiale si sarebbe fermata, la deflazione non avrebbe risparmiato nulla e nessuno. Questo avrebbe innescato un ulteriore peggioramento del rapporto attività/passività di tutti i soggetti (famiglie, imprese, Stati) accentuando gli effetti di instabilità finanziaria e recessivi.

Quello che l'Eurozona nel suo insieme fatica a capire è che si stanno ridisegnando per questa strada i pesi dei vari continenti nello scenario internazionale. In pratica è in corso una guerra. Invece dei classici soldati in tuta mimetica la stanno combattendo i traders in camicia e cravatta sui mercati finanziari. l''eurozona culturalmente non è preparata per uno scontro del genere e l'esito più probabile è che il suo peso verrà ridimensionato nello scenario globale, in parte sta già succedendo. In Italia la situazione è potenzialmente più fragile che altrove, perchè al durissimo confronto internazionale, si somma lo scontro tra potentati interni che cercano di allargare il loro spazio di influenza. Una battaglia tra nanetti al margine di uno scontro tra giganti globali.
Ultima modifica di trilogy il 14/06/2012, 10:43, modificato 1 volta in totale.
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Merkel avvisa Usa, Cina, G20 "Germania forte ma non all'infi

Messaggioda franz il 14/06/2012, 10:42

Merkel avvisa Usa, Cina e G20
"Germania forte ma non all'infinito"

Bce: Mercato del lavoro vira al peggio

"Non solo l’Europa responsabile nel contrasto alla crisi: tutti gli Stati facciano la loro parte"
E aggiunge: "Non possiamo scegliere soluzioni facili"

«Sì la Germania è forte, ma non è senza limiti, la sua forza non è infinita». Lo ha detto Angela Merkel oggi al Bundestag tedesco in vista del G20. Merkel ha sottolineato che non solo l’Europa è responsabile nel contrasto alla crisi, anche il G20 «deve prendersi le sue responsabilità». Tutti gli Stati devono «essere pronti» a fare la loro parte: «gli Usa per ridurre il loro deficit - ha detto ad esempio - la Cina per modificare il suo corso di cambio».

Nel bollettino di giugno della Bce del resto si leggono gli ennesimi dati negativi. La crescita economica dell’Eurozona «resta debole» e soggetta a «maggiori rischi al ribasso», in particolare un «ulteriore acuirsi delle tensioni in diversi mercati finanziari». Secondo la Bce il mercato del lavoro e le sue previsioni sono «ulteriormente» peggiorati. «L'occupazione sta diminuendo costantemente e il tasso di disoccupazione ha raggiunto livelli storicamente elevati. E per i mesi a venire si prevedono ulteriori aggravamenti, avverte l'istituzione nel suo ultimo bollettino mensile, data la debolezza dell'economia e dell'attività delle imprese».

Si aggravano ancora intanto le pressioni sui titoli di Stato della Spagna, che ieri a mercati chiusi si è vista declassare il rating da un'altra agenzia: Moody's ha tagliato il suo voto al paese a 'Baa3', a un passo dal livello "spazzatura". Una manovra analoga a quella operata nei giorni scorsi da Fitch. Stamattina i rendimenti dei titoli di Stato spagnoli a 10 anni, che sono in un rapporto inversamente proporzionale con il prezzo e per questo rappresentano una cartina di tornasole delle tensioni dei mercati, balzano al 6,89 per cento. In questo modo il differenziale dei tassi tra Bonos e Bund della Germania, detto anche "spread" si allarga a sua volta a 5,42 punti percentuali, o 542 punti base dai 526 di ieri in chiusura. Di riflesso le tensioni si scaricano nuovamente anche sulle emissioni dell'Italia: i rendimenti dei Btp decennali salgono al 6,29 per cento e lo spread sui bund a 482 punti base.

Avvio di seduta debole per le principali borse europee dopo la decisione di Moody’s di tagliare il
rating su Spagna e Cipro. I listini cedono circa mezzo punto percentuale: Londra perde lo 0,50%, Parigi lo 0,51% e Francoforte lo 0,57%. C’è attesa sui listini per l’esito dell’asta dei titoli di Stato italiani, la prima dopo il piano di salvataggio da 100 miliardi varato dall’Unione Europea a favore della Spagna mentre gli spread tra Btp e bund tedeschi si mantengono attorno ai 470 punti base.
Crolla alla borsa di Helsinki, Nokia (-4,77%), toccando i minimi dal 1996, dopo l’annuncio di un nuovo piano di tagli e la revisione delle previsioni sul secondo trimestre.

Secondo Merkel, la strada per uscire dalla crisi è difficile e comporta misure pensanti e dolorose, ma non si possono scegliere «soluzioni facili». «L’Europa non deve optare per le soluzioni più veloci e più facili della crisi». Al prossimo G20 in Messico del 18-19 giugno i temi dominanti saranno la crisi europea e il ruolo giocato dalla Germania. «La crisi del debito - dice la Merkel in Parlamento - sarà il tema principale del vertice». «Il nostro paese - aggiunge la cancelliera - sarà al centro dell’attenzione. È un fatto, tutti gli occhi saranno puntati sulla Germania perchè siamo la prima economia europea e il principale paese esportatore» . Quanto alla Spagna, «Madrid fa da tempo le giuste riforme con grande coraggio. Ma siede sugli effetti di una bolla immobiliare» ed è bene che abbia deciso di «far ricorso agli aiuti europei». Aiuti che saranno ovviamente «condizionati», ha ribadito.

http://www3.lastampa.it/economia/sezion ... tp/458346/
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Re: Amato: La Germania vuole buttarci fuori

Messaggioda trilogy il 14/06/2012, 13:57

E' interessante che mentre giornalisti e politici sono intenti in lunghissime riflessioni, sui mercati si stanno preparando in modo molto sintetico ad una apertura dei mercati la prossima settimana con la volatilità alle stelle. Probabilmente anche le Autorità di controllo dietro le quinte si sono preparate a tutte le evenienze. La borsa di Atene sta salendo con estrema forza, sugli altri mercati sono molto prudenti. Simpatico il commento di un trader americano che ha riassunto il clima che si respira con un video: http://www.youtube.com/watch?v=tr8bZ25uo1U (lui è schierato dalla parte della fanteria: hold hold hold = tenere tenere tenere ) e per forza di cose anche noi :mrgreen:
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