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Evasione quintuplicata in trent'anni

Discussioni e proposte, prospettive e strategie per il Paese

Evasione quintuplicata in trent'anni

Messaggioda flaviomob il 12/12/2011, 12:39

Due articoli dal Corriere di oggi:

Il fisco alla guerra dei trent'anni
Così l'evasione è quintuplicata

Dai 54 miliardi dell'81 ai 275 di oggi. E in mezzo tre condoni e tre scudi


ROMA - «Non ho mai pagato le tasse e me ne vanto. Le tasse sono come la droga, le paghi una volta e poi entri nel tunnel». Cetto La Qualunque può stare sereno: l'Italia è da almeno tre decenni sulla strada della disintossicazione. Se nell'agosto 1981 l'ex ministro delle Finanze Franco Reviglio, che in quell'incarico aveva al proprio fianco il giovane Giulio Tremonti, rivelò in una intervista al Mondo che l'evasione fiscale si poteva valutare «in circa 28 mila miliardi, pari a sette-otto punti del reddito nazionale», oggi il presidente dell'Istat Enrico Giovannini ci solleva: trent'anni dopo siamo fra il 16,3% e il 17,5% del Prodotto interno lordo. Ossia fra 255 e 275 miliardi di euro. Più del doppio in rapporto al reddito del Paese. E siccome i 28 mila miliardi di lire del 1981 equivalgono a 54 miliardi di euro attuali, significa che trent'anni dopo la denuncia di Reviglio l'infedeltà fiscale si è in valore assoluto moltiplicata per cinque. Un risultato che farebbe esultare lo straordinario personaggio creato dal comico Antonio Albanese per mettere il dito nell'occhio a una certa politica ingorda e affaristica. Conseguito, peraltro, in seguito a ben tre condoni tombali che hanno coperto con la loro efficacia ben 25 di quei trent'anni. Senza parlare dei tre diversi scudi fiscali che hanno consentito di regolarizzare con un pezzo di pane miliardi di euro esportati illegalmente.
Redditometro e cavalli
Non servì la legge sulle «manette agli evasori», arrivata nel 1982, che fece una sola vittima illustre: Sofia Loren. Non servì l'invenzione del redditometro, una specie di questionario spedito dal fisco ai presunti contribuenti facoltosi autori però di dichiarazioni modeste, che in Parlamento subì per anni un bombardamento a tappeto. I diportisti ricorsero al Tar costringendo il governo a fare una parziale marcia indietro, la Lega pretese centri di assistenza comunale per aiutare i cittadini a compilarlo. Poi un bel giorno del 1998 si scoprì che non si trattava, come speravano i suoi ideatori, di uno strumento perfetto. Su 76.025 cartelle spedite ad altrettanti contribuenti sulla base delle incongruenze rilevate con il redditometro, in ben 32.081 casi i destinatari erano riusciti a dare spiegazioni plausibili mentre gli evasori conclamati erano «soltanto» 12.247. Quasi tutti (10.271) salvi grazie al meccanismo dell'«accertamento con adesione», una specie di accordo con il Fisco grazie al quale si paga quel che si può. E il redditometro subì un colpo, se non mortale, comunque letale. Si passò allora al «riccometro», che venne bersagliato ancor più pesantemente. Il presidente della Confcommercio Sergio Billé lo qualificò come uno «strumento da epoca staliniana». Al cattolico Pier Ferdinando Casini faceva invece venire in mente «l'Inquisizione». Mentre per l'aennino Adolfo Urso si trattava semplicemente di una cosa «barbara». Aggettivo che fu riservato anche a un'altra iniziativa: la «delazione» alla Guardia di finanza. Bastava telefonare al 117, il numero del centralino delle Fiamme Gialle. Autore: l'ex ministro Vincenzo Visco, che per questo si attirò critiche di ogni genere. Perfino dalla Chiesa. Il teologo dell' Osservatore Romano Gino Concetti tuonò: «Nessuno Stato democratico può autorizzare i propri cittadini allo spionaggio fiscale». Ma all'inizio fu un successone. Nei primi dieci giorni arrivarono 12 mila telefonate. Poi, lentamente, la «delazione» scemò. Nel 2007 la Cgia di Mestre calcolò che non arrivavano più di 25 chiamate al giorno.
Quell'anno fu la volta dell'Isee, ovvero «Indicatore di situazione economica equivalente»: serviva a verificare se chi accedeva per ragioni di basso reddito ai servizi sociali gratuiti e magari girava con una Mercedes da 100 mila euro ne avesse effettivamente diritto. Risultati, pochini. Tanto che, scoppiata la crisi, non si è deciso di ridare vita a una nuova versione del redditometro. Ovviamente fra i mugugni dei politici. «Non credo che sia opportuno inserire tra le voci per accertare il reddito le spese per le scuole private, anche se costose», ha eccepito il senatore del Pdl Stefano de Lillo. Mentre il suo collega di partito Antonio Tomassini, presidente della commissione Sanità, ha chiesto di escludere anche gli equini: «Il cavallo dev'essere riconosciuto come animale d'affezione e non come bene di lusso». Già, e chi non è affezionato alla sua Ferrari?
Ha raccontato Nunzia Penelope nel suo libro «Soldi rubati», recentemente pubblicato da Ponte alle Grazie: «Nel 2010 la Guardia di finanza ha scoperto un evasore ogni ora, mentre nel 2009 erano solo uno ogni 71 minuti. In cifre, stiamo parlando di 8.850 imprenditori che hanno operato esclusivamente nel sommerso, responsabili di oltre 20 miliardi di ricavi non dichiarati, di 19 mila lavoratori in nero e di un'evasione contributiva per 600 milioni».

Yacht per nullatenenti
Ma se nello sport dell'evasione fiscale l'Italia è seconda soltanto alla Grecia e se da trent'anni a questa parte il fenomeno non ha fatto che crescere, nonostante ogni governo, di destra e di sinistra, si sia impegnato a combatterla, ci devono essere ragioni profonde. Forse le stesse che hanno spinto l'ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a diramare, un giorno di febbraio del 2005 a Radio Anch'Io, questa specie di tanaliberatutti: «L'evasione di chi paga il 50% dei tributi non l'ho inventata io. È una verità che esiste. Un diritto naturale che è nel cuore degli uomini». E che si traduce, purtroppo per i nostri conti pubblici, in cifre raccapriccianti. I contribuenti italiani che dichiarano al Fisco oltre 200 mila euro sono 77.273, pari allo 0,18%. Come questo dato si possa conciliare con quello delle 206 mila auto di lusso (costo medio, 103 mila euro) vendute ogni anno nel nostro Paese, è francamente incredibile. Il bello è che il Fisco lo sa da decenni. Come sa, ha scritto nell'agosto del 2010 l' Ansa , che «il 64% degli yacht che circolano in Italia sono intestati a nullatenenti o ad arzilli prestanomi ultraottantenni o a società di comodo italiane o estere per evadere le tasse». Oppure che lungo gli 8 mila chilometri delle nostre coste sono disseminate 42 mila imbarcazioni di un certo valore i cui proprietari dichiarano, se va bene, 20 mila euro l'anno. Ecco perché i risultati ottenuti recentemente dall'Agenzia delle entrate di Attilio Befera, con un recupero di 10 miliardi di imposte evase nel 2010, per quanto importanti, non sono che una goccia nel mare. Tanto più perché è il sistema a essere profondamente marcio. Esclusivamente, va detto, per tornaconti elettorali e responsabilità di una classe politica miope e incapace.

Ispezioni (e scorte)
Prendete gli studi di settore. Sono un'invenzione di metà anni Novanta per evitare la minimum tax che voleva Giuliano Amato. Di fatto, è un patto scellerato fra l'amministrazione fiscale e i lavoratori autonomi, elettori considerati evidentemente molto preziosi. Ai quali il Fisco dice: puoi evadere fino a quel punto. Se lo superi, ti veniamo a controllare. Una scelta in qualche modo obbligata, visto anche la scarsità di mezzi per eseguire i controlli. Basta dire che la Guardia di finanza, forte di 65 mila effettivi, deve assicurare anche una quota dell'ordine pubblico (avete visto i finanzieri con i blindati alle manifestazioni) e delle scorte ai politici e agli alti burocrati statali. Carabinieri e poliziotti da soli non ce la fanno: nella sola città di Roma, ha raccontato il Messaggero , ci sono 2 mila persone sotto tutela. E per ognuna delle cinquanta volanti addette alla sicurezza dei cittadini, circolano nella capitale 400 (quattrocento) auto blu di scorta.
Va da sé che in un sistema del genere si annidano anche illegalità di ogni genere. Come quelle dei 100 mila lavoratori autonomi, ha rivelato Roberto Ippolito nel suo libro «Evasori» pubblicato tre anni fa da Bompiani, che scontano l'acquisto di beni strumentali senza però averli fisicamente. Si parla di 3.329 ristoranti senza cucina o tavoli, 480 farmacie senza scaffali, 555 lavanderie senza lavatrici e perfino 137 tassisti senza il taxi. Insomma, in un mondo perfetto gli studi di settore non dovrebbero esistere. Anche perché in qualche caso riescono a essere perfino vessatori. Il fatto è che il nostro è un mondo altamente imperfetto: diversamente non ci troveremmo in questa situazione.
Nel regno dell'ingiustizia fiscale ha poi un posto di rilievo una burocrazia assurda, che alimenta anche la corruzione. Basta pensare ai 68 adempimenti e 19 uffici in media da contattare per aprire un'attività in Italia: dove, dice la Confartigianato, sono appena 112 su 8.101 i Comuni in grado di consentire a un imprenditore lo svolgimento di tutte le pratiche online, senza doversi fisicamente recare allo sportello.
Per non dire dell'impunità. Nel Paese europeo a più elevato tasso di evasione non c'è neanche un detenuto in carcere con quell'accusa. Invece negli Stati Uniti, dove non pagare le tasse è considerato un reato molto serio, fra il 2000 e il 2007 hanno varcato la soglia di una galera federale 11.691 persone. Detenzione media: 30 mesi.

L'oro del Canton Ticino
Come stupirsi allora che oltre al record dell'evasione l'Italia detenga pure quello, altrettanto poco invidiabile, dell'esportazione illecita dei capitali? Ma se è vero, come sempre ripete la Corte dei conti, che i condoni sono il più grande incentivo per l'evasione, gli scudi fiscali non sono forse il miglior viatico per la fuga dei capitali? Dopo il primo «scudo» del 2001-2003 l'ex ministro dell'Economia Giulio Tremonti annunciò su questo giornale tolleranza zero verso gli spalloni. Prefigurando perfino l'installazione di telecamere alla frontiera con la Svizzera. Sei anni dopo, ecco invece un nuovo scudo fiscale, che ha consentito di regolarizzare una somma addirittura superiore a quella del 2001-2003, cioè 104 miliardi di euro contro una settantina. Denari di proprietà per il 66% di cittadini residenti in Lombardia e per il 58% depositati nei caveau delle banche svizzere. Delle due l'una: o quei soldi non erano rientrati con il primo «scudo», oppure le minacce non hanno affatto dissuaso gli esportatori. Né tanti quattrini, ripuliti quasi gratis, hanno alleviato le difficoltà dell'Italia. A dispetto di quello che aveva dichiarato Tremonti il 16 dicembre 2009: «È una colossale manovra di potenziamento della nostra economia, mai verificatosi per un Paese, dato dal fatto che capitali che erano fuori tornano in Italia e servono per tenere aperte le imprese, non licenziare, gestire i rapporti fra creditori e debitori». Per giunta, con la crisi la fuga dei capitali è ripresa alla grande. Se è vero, come dicono voci attendibili, che le cassette di sicurezza delle banche elvetiche hanno fatto il pieno di beni e valori provenienti dal Bel Paese. Nel solo mese di settembre hanno preso la strada del Ticino 13 tonnellate d'oro provenienti dall'Italia. Paolo Stefanato ha scritto sul Fatto Quotidiano che l'Associazione banche ticinesi «stima in 130 miliardi di euro i fondi neri depositati da soggetti italiani in Svizzera». Ma c'è pure chi parla di somme molto superiori: 300 miliardi, forse più. Che sono fuori dalle nostre frontiere e lì resteranno, a meno di qualche miracolo. Per esempio, un nuovo elenco di depositi made in Italy sul modello di quei 5.439 contenuti nella lista sottratta alla filiale ginevrina della Hsbc dall'ex dipendente Hervé Falciani. La Guardia di finanza ha accertato un'evasione di 180 milioni soltanto per 774 di quei patriottici correntisti: oltre metà lombardi. E poi dicono che gli italiani sono sempre più poveri...

Sergio Rizzo

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Conti a Lugano, segreto in bilico
Strategia per mantenere l'anonimato. L'Italia non firma intese

MILANO - Se i Maya avevano collocato la fine del mondo nel 2012, per la Svizzera tale limite potrebbe essere spostato cinque anni più avanti, nel 2017. I discendenti di Guglielmo Tell toccano ferro, ma da quella data potrebbe dissolversi quel mondo di neutralità e riservatezza che la Confederazione Elvetica si è costruita in oltre cinque secoli: la scadenza coinciderà infatti con l'entrata in vigore della direttiva europea in base alla quale Bruxelles pretenderà un prelievo del 35% su tutti i capitali svizzeri depositati da cittadini comunitari e lo scambio automatico dei dati fiscali. Sarebbe la fine del segreto bancario e delle attività off shore così come le conosciamo oggi. Per questo Berna negli ultimi mesi si è data da fare per raggiungere accordi con i singoli stati europei sulla tassazione dei capitali in fuga in modo da scongiurare la stangata del 2017. La tattica per il momento ha premiato, come è noto, riuscendo a dividere il fronte europeo.

L'Euroritenuta
Per i governi dell'Eurozona (e non solo loro) in asfissia finanziaria, poter mettere le mani sui tesoretti elvetici sarebbe come vincere alla lotteria. Oggi infatti la pressione fiscale sui soldi fuggiti all'estero è risibile. Le convenzioni in vigore prevedono solo la cosiddetta «euroritenuta» pari al 35% degli interessi sui conti correnti; il prelievo, si badi bene, riguarda le persone fisiche e non le società, sicché chiunque può aprirne una a Lugano o a Zurigo e farvi confluire lì i capitali. Risultato? Nel 2010 l'Italia ha incassato appena 100 milioni in euroritenute a fronte di un gettito potenziale, se dovesse scattare la trappola del 2017 di qualche miliardo l'anno. «Il meccanismo attuale - spiega Giancarlo Cervino, direttore del Centro di studi fiscali di Lugano - rende ancora conveniente l'export di capitali in Svizzera. Il bollettino di Bankitalia segnala che nell'ultimo anno in Italia sono stati prelevati da conti correnti 340 miliardi che sono spariti dalla circolazione. Ora, poiché i consumi sono stagnanti è facile prevedere che parte di quel denaro abbia preso la strada di approdi sicuri, come la Svizzera».

Le intese bilaterali
Per invertire la rotta, ecco il varo della nuova direttiva europea che prevede non solo la tassazione al 35% di ogni rendita da investimento, non solo l'estensione della base imponibile anche alle società ma soprattutto lo scambio automatico dei dati. Significa in pratica che se il signor Rossi parte da Milano con la valigetta di contanti e li deposita in una banca a Lugano, quest'ultima è obbligata ad avvertire immediatamente le autorità italiane. La piazza finanziaria elvetica è terrorizzata da tale prospettiva ed ecco che a partire dal 2010 ha cercato di giocare d'anticipo chiudendo accordi al ribasso con i singoli Stati. È andata bene con Regno Unito e Germania, che già dal 2012 incasseranno circa 2 miliardi l'anno rinunciando però a chiedere nomi e cognomi dei loro contribuenti con il conto in Svizzera. Berna paga, in altre parole, ma salva il segreto bancario.

La scomunica Ue
Su questi accordi è però piovuta la «scomunica» del commissario europeo alle politiche fiscali Algirdas Semetas che ritenendole in contrasto con l'ormai nota scadenza del 2017 minaccia procedure d'infrazione contro Angela Merkel e David Cameron. E l'Italia? Il Paese che più paga dazio alle attrattive fiscali svizzere ha deciso di sposare la linea comunitaria, preferendo la gallina domani all'uovo garantito subito.
L'ex ministro Giulio Tremonti non ha mai risparmiato salaci commenti alla politica svizzera: «Ci sono più società delle Isole Cayman a Lugano che nelle Isole Cayman» aveva dichiarato tagliente il 17 maggio scorso. Dalla Confederazione gli avevano restituito la pariglia con toni che vanno da quello diplomatico della presidente Micheline Calmy-Rey a quello sguaiato di Giuliano Bignasca, leader della Lega dei Ticinesi, che definisce abitualmente Tremonti «il fascetto Giulio», mentre l'Udc, partito della destra elvetica, lo ritrae come una pantegana. Nonostante ciò, a settembre un dialogo si era aperto tra i due Paesi, testimoniato da una dichiarazione di Lamberto Dini, presidente della commissione esteri del Senato: «Anche l'Italia deve sottoscrivere un accordo come Germania e Gran Bretagna». Un fuoco di paglia perché le parole a Montecitorio del ministro Giarda hanno chiarito che Roma si adegua in pieno alla linea di Bruxelles. Niente affatto una sorpresa, visto che Mario Monti, europeista a 24 carati, collaborò alla stesura del single market act che disegna l'armonizzazione fiscale tra tutti gli Stati Ue.

Muove Obama
Ma la Svizzera rischia di dover fare fronte a un nuovo attacco al suo segreto bancario, questa volta proveniente da Oltreoceano. Gli Usa il 31 agosto scorso, per mano del viceministro alla giustizia di Obama James Cole, hanno scritto a Berna: le autorità americane vogliono conoscere i nomi di tutti i loro cittadini che hanno conti in Svizzera superiori ai 50 mila dollari. Washington già nel recente passato non era andata per il sottile: nel 2010 aveva fatto la voce grossa con l'Ubs, ottenendo la lista dei clienti a stelle e strisce della banca elvetica. Stavolta viene addirittura minacciata la chiusura delle filiali rossocrociate sul territorio americano.
Claudio Del Frate
12 dicembre 2011 | 10:41


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(Stephen Hawking)
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Re: Evasione quintuplicata in trent'anni

Messaggioda franz il 12/12/2011, 13:37

In effetti questo è un'altro aspetto collegato alla fuga dei cervelli, delle industrie.
Scappano persone, aziende e capitali.
Non è una novità. Negli anni di piombo (anni 70 fino ai primi anni 80) ci fu già una enorme fuga di persone facoltose e imprenditori, spaventati da terrorismo e dalla stagione dei rapimenti. Si trasferirono all'estero, con famiglie, aprendo attività economiche ancora fiorenti oggi. Scappavano anche i capitali, spaventati da un'inflazione che arrivava al 20% annuo e che duro' per 11 anni sopra il 10%. E chi porto' i soldi all'estero salvo' i risparmi di una vita.
Non c'è stata quindi solo l'occultamento di capitali neri e grigi ma in gran parte la messa al sicuro dall'erosione dell'inflazione (380%) di capitali onestamente guadagnati. Scappavano (e scappano anche oggi) gli italiani in cerca di lavoro e naturalmente aprivano e aprono anche oggi conti all'estero.
Nel frattempo le spese dello stato (e le imposte) sono aumentate del 650% (il doppio dell'inflazione) e quindi non sorprende che l'evasione sia aumentata di 5 volte e che tutti gli strumenti messi in atto per contrastatrla, come ci racconta Sergio Rizzo, non abbiano funzionato.
Forse bisognerebbe dar retta a Schneider, economista esperto nella shadow economy, quando ci spiega la relazione diretta tra evasione, pressione fiscale e contributiva, burocrazia e sistema normativo, complessità del sistema tributario. E mostra che i paesi con una pressione fiscale moderata, con pochissima burocrazia e con un fisco snello ed efficente sono quelli con meno sommerso al mondo. Ma va vallo a spiegare ai politici che devono diminuire leggi, spese dello stato e burocrazia. Piu' facile agitare manette
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