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Ce la facciamo (anche da soli)

Discussioni e proposte, prospettive e strategie per il Paese

Re: Ce la facciamo (anche da soli)

Messaggioda trilogy il 13/09/2011, 9:17

Saremo salvati dai comunisti...cinesi. :mrgreen:

Crisi del debito, un aiuto da Pechino? Colloqui Italia-Cina per l'acquisto di titoli governativi

Fonti del Tesoro confermano l'incontro fra il ministro dell'Economia Giulio Tremonti e Lou Jiwei, presidente della China Investment Corp, secondo fondo sovrano cinese e quinto al mondo per capitale potenziale d'investimento.

Ai colloqui - hanno confermato alcune fonti al Sole 24 Ore - hanno partecipato anche i vertici di Cassa Depositi e Prestiti, che gestisce il 90% del neonato Fondo strategico italiano. Sul tappeto ipotesi di partecipazioni in investimenti.
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La notizia, appena in rete (dopo aver fatto il giro di Twitter e di influenti blog finanziari), ha impattato sull'andamento del Dow Jones che intorno alle 20.30 di ieri ha azzerato le perdite di giornata, per poi chiudere in rialzo dell'0,63%.

Il quotidiano britannico ricorda che funzionari italiani del Tesoro, guidati da Vincenzo Grilli, avrebbero incontrato due settimane fa a Pechino responsabili del dondo Cic (fondato nel 2007, gestisce masse per 410 miliardi di dollari) e del China's State Administration of Foreign Exchange (Safe), che gestisce masse per 3.200 miliardi di dollari.

Tremonti ha spesso in passato evidenziato i rischi di una «colonizzazione inversa» operata dalla Cina ma - secondo il Ft - starebbe comunque cercando l'appoggio cinese dopo che la Bce ha chiaramente detto che il programma di acquisto di bond governativi sul mercato secondario (inaugurato lo scorso 11 agosto) non può procedere all'infinito.

La notizia dei colloqui italo-cinesi arriva a poche ore dall'asta di BTp (tra i 5 e i 7 miliardi) in programma martedì 13 settembre. Intanto sul mercato secondario i BTp hanno visto decollare lo spread con il rispettivo Bund a 10 anni oltre 380 punti base.
Ieri il governo italiano ha collocato titoli di Stato a 3 e 12 mesi per un controvalore di 11,5 miliardi di euro pagando tassi tra l'1,9% e il 4,1%, nettamente più alti rispetto a quanto pagato nelle emissioni precedenti.

Gli analisti restano cauti, tuttavia, nel commentare l'entità di un'eventuale intesa italo-cinese sottolinendo che l'esito dei colloqui resta incerto e che probabilmente i fondi cinesi potrebbero intervenire con acquisti limitati.
Negli incontri italo-cinesi si sarebbe parlato di portare la partecipazione della Cina al debito pubblico italiano (1.900 miliardi di euro) dall'attuale 4% al 10%.
link: http://www.ilsole24ore.com/art/finanza- ... d=AauG5r3D
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Re: Ce la facciamo (anche da soli)

Messaggioda lucameni il 13/09/2011, 10:23

Iafran ha scritto:
lucameni ha scritto:Però qualcuno ci dice che vorrebbero affittare o dare in gestione a privati monumenti artistici e storici. O aree ecologiche protette.
Il Club Med però se lo prendono.........
Effettivamente qualcosa mi sfugge............

Dalle tasche dei cittadini italiani s-fuggiranno, sicuramente, tutti i costi delle operazioni: in questo caso dalla compera da privati, in altri casi dalla vendita a privati.
Le "tangenti", naturalmente, saranno salve ... anzi incrementate nella compravendita Stato-privati (meglio ancora fra Stato Privato-privati).



La fonte giornalistica mi piace proprio poco ma, al di là dell'uso delle parole "poteri forti" fin troppo abusata, gli articoli propongono un punto di vista parzialmente alternativo e non del tutto banale:


Le cinque grandi ruberie al tesoretto italiano
C'è un'immensa cassaforte con cui sanare il Paese ma che nessuno vuole aprire. Nella fauci dei poteri forti gettiamo ogni anno il valore di una finanziaria



La manovra economica approvata dal Senato non taglia gli sperperi della spesa pubblica. All'ultimo istante sono state risparmiate anche le prebende della casta parlamentare e nonostante quanto emerge dall'inchiesta sul sistema Sesto San Giovanni - e cioè il gigantesco intreccio tra l'uso della spesa pubblica e dell'urbanistica contrattata per fare cassa a favore delle lobby politico imprenditoriali - né la maggioranza né l'opposizione hanno posto all'ordine del giorno il prosciugamento del fiume di denaro pubblico che sfugge ad ogni controllo democratico. Il "sistema Penati" sta lì a dimostrare che esiste una gigantesca cassaforte piena di risorse che non viene neppure sfiorata dai provvedimenti economici in discussione in Parlamento: lì c'è un grande tesoro che permetterebbe di non tagliare lo stato sociale e risanare il paese.
Il tema del taglio al malgoverno urbano tornerà sicuramente all'ordine del giorno perché tra qualche mese ricomincerà la grancassa del «non ci sono i soldi» e - complici le autorità europee - ripartirà la rincorsa per tagliare i servizi, tagliare le pensioni, vendere le proprietà pubbliche. Vale dunque la pena riprendere il prezioso suggerimento di Piero Bevilacqua su queste pagine (28 agosto), ragionare sulle possibilità di rovesciare i canoni del ragionamento fin qui egemone per interrompere una volta per tutte la grande rapina dei beni comuni, delle città e del territorio.
Il denaro pubblico viene intercettato dalle lobby politico-imprenditoriali attraverso sei grandi modalità. La prima riguarda le opere pubbliche. Il volume degli investimenti pubblici nei grandi appalti è pari a circa 20 miliardi di euro ogni anno. Appena pochi mesi fa un giovane "imprenditore" (Anemone) con il fiume di soldi guadagnato in generosi appalti offerti dalla cricca Bertolaso ha potuto permettersi di contribuire all'acquisto di una casa per l'ignaro ministro Scajola: quasi un milione di euro. Ad essere prudenti una percentuale intorno al 20% ingrassa le tasche della politica corrotta e delle lobby: 4 miliardi ogni anno. Qualche tempo fa ci hanno ubriacato con l'esempio virtuoso dell'unificazione degli acquisti delle siringhe per il sistema sanitario nazionale perché ogni regione spendeva somme differenti. Tanto rigore per pochi spiccioli, mentre non sappiamo controllare quanto costa costruire una scuola o una strada.
Un secondo capitolo strettamente connesso al precedente è che molte opere pubbliche non servono alla collettività, ma vengono decise da sindaci che si sentono abilitati a compiere qualsiasi nefandezza perché «eletti dal popolo». Come a Parma, dove una falange di amministratori ha sperperato miliardi di euro in grandi e inutili opere. Ora il comune è sull'orlo della bancarotta (seicento milioni) e il sindaco è ancora lì, barricato nel palazzo. O come nel caso della faraonica piscina voluta dall'ex sindaco di Roma Veltroni a Tor Vergata: occorrerà spendere un miliardo di euro per farla funzionare. O, come emerge dall'inchiesta di Sesto San Giovanni, appalti inventati appositamente per rimpolpare i bilanci delle aziende pagatrici di tangenti (la milionaria illuminazione della tangenziale, ad esempio), o attraverso l'affidamento a prezzi protetti di servizi pubblici, come il trasporto urbano. Anche in questo caso una stima prudente ci porta a dire che possono essere risparmiati almeno 4 miliardi ogni anno.
Ci sono poi le poste maggiori: quelle che intercettano la spesa pubblica corrente. Per la sanità pubblica si spendono oltre duecento miliardi di euro all'anno e ci si è dimenticati troppo in fretta lo scandalo della sanità della Puglia, quelli ricorrenti di Milano e della Lombardia, quello del Lazio di Storace, della Liguria, dell'Abruzzo. Episodi che derivano dall'uso spregiudicato del taglio delle prestazioni pubbliche e il loro affidamento - a prezzi senza controlli - agli amici di turno. Riportando a sistema la spesa sanitaria c'è spazio per risparmiare decine e decine di miliardi di euro.
C'è poi il capitolo della "privatizzazione" della pubblica amministrazione che sta distruggendo lo Stato e - contemporaneamente - ci costa un fiume di soldi. Il fedele collaboratore di Giulio Tremonti, Marco Milanese, arrotondava il suo non modesto stipendio da parlamentare con consulenze milionarie a carico di istituzioni pubbliche. Proprio in questi giorni abbiamo scoperto che una giovane di 33 anni, di indubbie attitudini artistiche, era stata nominata consulente della Finmeccanica a spese nostre. Del resto, anche quel campione di moralità di Valter Lavitola è consulente della Finmeccanica. Si potrebbe poi continuare nel calcolare quanto costa alle casse pubbliche la grande abbuffata operata dalla giunta comunale guidata da Gianni Alemanno nel moltiplicare posti di lavoro (centinaia di persone!) nelle municipalizzate romane.
E proprio nell'erogazione dei pubblici servizi si sperpera un altro fiume di risorse economiche attraverso un impressionante numero di società di scopo. La cultura neoliberista è riuscita a far passare i concetti di "efficienza" e in nome di questo totem ad esempio a Parma sono state create 34 (trentaquattro) società partecipate per gestire l'ordinarietà. Anche nell'area bolognese e in molte altre città i servizi pubblici sono gestiti da un numero imponente di società. Presidenze, consigli di amministrazione, consulenti d'oro che riportano docilmente i soldi ai generosi decisori. E invece di disboscare questa foresta di ruberie hanno provato a tagliare la democrazia sciogliendo i piccoli comuni!
Con queste prime cinque voci si arriva a oltre 40 miliardi di euro: l'ammontare dell'attuale finanziaria. C'è poi l'ultimo capitolo che riguarda la madre di tutti gli imbrogli, l'urbanistica contrattata. Essa è diventata l'unica modalità con cui si trasformano la città. Le regole generali sono state cancellate e di volta in volta si decide sulla base delle convenienze. Sull'area Falk servono più cubature? Nessun problema. Un accordo di programma non si nega a nessuno: il sindaco passerà all'incasso di una parte delle gigantesche plusvalenze speculative prodotte e ci farà campagna elettorale. Sulle aree dell'Idroscalo deve essere costruita una mostruosa città commerciale? Ecco pronto un altro accordo di programma completo del ringraziamento economico spesso veicolato da progettisti compiacenti. Questa patologia vale ormai per tutti i comuni, grandi o piccoli che siano.
Il quadro che abbiamo delineato sembra non presentare apparentemente differenze rispetto al recente passato. Ruberie e scellerati sperperi di denaro pubblico ci sono sempre stati: c'è Tangentopoli a dimostrarcelo. Ma il fatto nuovo è che la legislazione liberista affermatasi nel ventennio ha reso il meccanismo perfetto. Non ci sono infrazioni alle leggi perché sono le stesse norme approvate in questi anni a consentire ogni tipo di arbitrio.
Altro che tagli e vendita del patrimonio di tutti, dunque. Basterebbe ripristinare la legalità e risparmiare quanto gettiamo nelle voraci fauci dei poteri forti. E' venuto il momento di dire basta, altrimenti ci vendono l'intero paese, democrazia compresa. E' questa la sfida che la nuova sinistra ha davanti. Una sfida per delineare un futuro diverso. Per risanare lo Stato, per far vincere le competenze sulla palude di mediocrità che sta soffocando il paese. Per dare una prospettiva ai giovani e al mondo del lavoro.

Paolo Berdini


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Guido Viale
Nel pozzo del nostro debito



Ora si comincia a parlare di default (fallimento) come esito - o come soluzione - del debito pubblico italiano. La discussione assume aspetti tecnici, ma il problema è politico e merita approfondimenti sui due versanti. Dichiarare fallimento imboscando dei fondi, è truffa. Ma è truffa anche se una condizione insostenibile viene protratta oltre ogni possibilità di recupero; in particolare, per spremere quelli che si riesce a spennare con la scusa di rimettersi in sesto, prima di dichiarare che «non c'è più niente da fare». CONTINUA|PAGINA15 Proprio quello che l'Unione Europea e i suoi governi (e non solo la Bce) stanno chiedendo a Grecia, Portogallo e Irlanda, ma forse anche all'Italia. C'è chi, senza escludere il default, vede una soluzione alla crisi del debito nell'uscita dall'euro. Il problema, vien detto, non è tanto il debito pubblico quanto il debito estero; in cui si riflette la perdita di competitività del paese, costretto dalla propria inflazione e dalla minore "produttività" a finanziarsi all'estero per importare più di quanto esporta. L'uscita dall'euro consentirebbe un recupero di competitività attraverso la svalutazione - oggi resa impossibile dalla moneta unica - riequilibrando così, con maggiori esportazioni, i conti con i paesi che, come la Germania, possono evitare di rivalutare la loro moneta e perdere competitività proprio grazie all'appartenenza all'eurozona. L'aumento delle esportazioni produrrebbe, sostiene per esempio Alberto Bagnai, «risorse sufficienti a ripagare i debiti, come nel 1992. Se non lo fossero - aggiunge - rimarrebbe la possibilità del default ... come hanno già fatto tanti paesi che non sono stati cancellati dalla geografia economica per questo». Ma una svalutazione - posto che l'uscita dall'euro sia praticabile - basterebbe a riequilibrare la bilancia dei pagamenti dell'Italia, o quella di altri paesi dell'eurozona in difficoltà? In altre parole, costando il 15 o il 20 per cento in meno le auto della Fiat prodotte con il metodo Marchionne - a cui forse Bagnai attribuisce eccessiva credibilità - potrebbero ancora sottrarre consistenti quote di mercato alla Volkswagen? O costando il 15 o il 20 per cento in più l'Italia cesserebbe di importare turbine eoliche dalla Danimarca e pannelli fotovoltaici o impianti di cogenerazione dalla Germania, mettendosi finalmente a produrli in proprio? O ancora, con la lira l'Italia potrebbe tornare a esportare arance - raccolte con manodopera schiava - nei paesi dove l'organizzazione commerciale degli agricoltori spagnoli le ha portato via il mercato? Eccetera.
Non siamo più nel '92; da allora non è cambiato solo il secolo, ma tutto il contesto. Forse ora, e in futuro, il problema non è esportare (o tornare a esportare) di più, ma importare - per quanto è possibile - di meno: produrre di più in loco (o il più vicino possibile) quello che si consuma; e consumare o utilizzare di più quello che ogni comunità è in grado di produrre. Non con il protezionismo, predicato a fasi alterne dalla Lega (e un tempo anche da Tremonti), ma inattuabile nel contesto odierno; bensì con una progressiva riterritorializzazione dei processi economici con cui accompagnare l'inevitabile e non più rimandabile conversione ecologica di produzioni e consumi.
Ma in Italia ogni possibilità di recupero risulta inibita dalla scomparsa del concetto stesso di politica industriale, che altri paesi hanno invece in qualche misura mantenuto, nonostante che sulle scelte di fondo la delega ai "mercati", cioè all'alta finanza, sia per tutti totale. Quello che ora manca è una politica industriale adeguata ai tempi, cioè a una crisi ambientale planetaria che rende inutile e dannoso rincorrere chi ci ha da tempo superato in settori - come quello dell'auto - destinati a immani crisi di sovrapproduzione. E che impone invece di attrezzarsi per svolte improcrastinabili con progetti e produzioni ecologiche dal sicuro avvenire (anche di mercato, se per "mercato" si intende non lo strapotere del capitale finanziario, ma uno dei modi per mettere in rapporto produzione e consumo).
In gioco ci sono questioni come efficienza e conversione energetiche; agricoltura e alimentazione a chilometri zero; mobilità sostenibile (proprio mentre Fiat chiude l'unica fabbrica di autobus urbani del paese); manutenzione del territorio e del patrimonio edilizio e storico esistente; gestione accurata di risorse e rifiuti; accoglienza ed educazione per tutti; e una ricerca mirata a tutti questi obiettivi. Se iniziative del genere venissero finanziate invece di dissanguare i lavoratori per pagare gli interessi sul debito, ben venga il default; costringerebbe i responsabili dell'eurozona a correre ai ripari.
Diversi economisti pensano invece che il default degli Stati membri si possa evitare, e non solo procrastinare, se un organo dell'eurozona rilevasse - magari "sterilizzandoli" con un rinvio a lungo termine del loro rinnovo - i debiti degli Stati membri in difficoltà; o una loro quota consistente. È la proposta degli eurobond; per alcuni sono "la soluzione"; per altri - come l'agenzia di rating S&P - non farebbero che trasferire lo stato comatoso dai paesi beneficiati a tutta l'eurozona. Default per tutti.
Ma gli eurobond difficilmente potrebbero risolvere il problema; nemmeno nella versione proposta da Prodi e Quadrio Curzio, che ai bond emessi a copertura dei debiti di alcuni Stati ne affianca altri per finanziare un programma europeo di Grandi opere. Con l'intento di promuovere quello che l'Italia e altri paesi non riescono a fare da soli: "rilanciare la crescita" - da tutti considerata la strada maestra per azzerare il deficit e ridurre il debito - avendo però messo "al sicuro" i conti pubblici. Ma quella crescita non è così facile "rilanciarla": in Italia non c'è più da tempo e sta non a caso svanendo anche in paesi fino a ieri considerati "locomotive" economiche.
Inoltre, la principale iniziativa europea per produrre crescita si chiama Ten (Rete transeuropea di trasporto). Anche se con gli organi di governo che l'Unione si è data non sembra che per ora ci siano molte altre modalità di intervento praticabili, proposte del genere sono comunque inaccettabili.
È con quella iniziativa, infatti, che oggi si cerca di giustificare lo scempio del Tav in Valsusa, che persino l'Economist considera uno spreco. Ma non è di Grandi Opere che c'è bisogno, bensì di tante "piccole opere" di manutenzione del patrimonio esistente e di conversione ambientale nei settori portanti della vita economica e sociale. Interventi concepiti, progettati, realizzati e gestiti a livello quanto più decentrato; e sottoposti a un controllo dal basso - analogo a quello richiesto per la gestione dei "beni comuni" - imponendo a tutti regole di trasparenza integrale. Esattamente l'opposto di quel che succede sia in Valsusa che altrove. Il Tav infatti non è un caso isolato; rappresenta in modo paradigamatico il modus operandi di un'economia governata dalla grande finanza.
Dove, proprio come in Valsusa, progettazione ed esecuzione di opere gigantesche - costose, inutili, altamente dannose e completamente dissociate dalle esigenze del territorio - vengono realizzate a spese delle finanze pubbliche mediante una catena senza fine di appalti e subappalti sottratti a qualsiasi controllo; e devono essere imposte con la forza - o, in altri casi, fatte svanire con una improvvisa delocalizzazione - tanto che in Valsusa si è arrivati a schierare i carri armati (sì, i carri armati) e 2000 militari per aprire un cantiere.
Il problema allora non è "costituzionalizzare" il pareggio di bilancio per soddisfare il capitale finanziario che tiene in pugno le politiche, non solo economiche, degli Stati con il controllo dei debiti pubblici; né promuovere, con interventi senza senso e prospettiva - e senza ricadute per lavoro e occupazione - una crescita del Pil evanescente, nel vano tentativo di azzerare il deficit con le imposte ricavate da un ancor più evanescente aumento dei redditi.
Il problema è invece quello di imporre con lotte e mobilitazioni le misure necessarie per recuperare risorse da chi le ha e non ha mai pagato. Ma non per buttare il ricavato nel pozzo senza fondo degli interessi sul debito. Quello che occorre è mobilitare le risorse sia finanziare che umane - le conoscenze e i saperi diffusi; la fiducia reciproca che si crea nella lotta - necessarie alla riconversione ecologica del tessuto produttivo. Non saranno né questo governo né il prossimo a promuovere o consentire una svolta del genere. Ma se non si mette in chiaro che quel debito non va saldato e che è inevitabile affrontare il rischio di un default, ancorché selettivo, si lascia la palla in mano a chi sostiene, e sempre sosterrà, che ai diktat della finanza "non c'è alternativa"; azzerando così qualsiasi prospettiva di riscatto sociale e politico. Per questo è bene capire a che cosa si va incontro e come far fronte a un default; e qui un maggiore impegno degli economisti che condividono queste prospettive sarebbe benvenuto.
"D' Alema rischia di passare alla storia come il piu' accreditato rivale di Guglielmo il Taciturno" (I. Montanelli, 1994)
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Re: Ce la facciamo (anche da soli)

Messaggioda Iafran il 13/09/2011, 11:45

lucameni ha scritto:La fonte giornalistica mi piace proprio poco ma, al di là dell'uso delle parole "poteri forti" fin troppo abusata, gli articoli propongono un punto di vista parzialmente alternativo e non del tutto banale:


Le cinque grandi ruberie al tesoretto italiano
C'è un'immensa cassaforte con cui sanare il Paese ma che nessuno vuole aprire. Nella fauci dei poteri forti gettiamo ogni anno il valore di una finanziaria
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I "poteri forti" sono quelli che stanno agendo indisturbati contro qualsiasi regola all'interno dello Stato italiano, per i benefici del sistema democratico e della volontà delle "mezze calzette", che ... aspirano a farne parte.

Senz'altro, quelli del "Fatto Quotidiano" avranno le stesse percezioni di Paolo Verdini e di Guido Viale, forse qualcuno dovrebbe informare i Battista, i Panebianco, gli EGDL (e tutti gli altri giornalisti sedotti dal potere) di queste loro "vedute".
Nessuna informazione, invece, per i Minzolini, i Feltri, i Belpietro, i Sallusti etc etc della stampa di regime, perché sanno benissimo quel che succede e fanno di tutto per alterare o nascondere la realtà.
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Re: Ce la facciamo (anche da soli)

Messaggioda lucameni il 13/09/2011, 12:12

Non c'è dubbio che ci sono parole sulle quali bisogna intendersi, ma anche concetti come "liberismo" o "mercato" sono usati spesso a sproposito in Italia, sia dai suoi presunti difensori che da parte dei cosiddetti antagonisti.
Qui abbiamo una versione paradossale di "mercato" e di "libera iniziativa privata".
In situazione di monopolio e con leggi che incentivano speculazione e in qualche modo depenalizzano comportamenti corruttivi, ha senso parlare di liberismo?
Quello che hanno combinato alcuni nostri presunti difensori del libero mercato in paesi come gli USA più che un posto in Parlamento si sarebbero meritati qualche decennio di galera.
In Italia certi concetti andrebbero maneggiati con cautela, visto l'uso che se ne fa.
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Re: Ce la facciamo (anche da soli)

Messaggioda pianogrande il 13/09/2011, 15:14

I magistrati concedono a Berlusconi di scegliere un giorno qualsiasi tra giovedì e domenica.
Ecco un'idea brillante che gli verrà sicuramente in testa.
Una bella visita in Cina con campionario di titoli vari.
Cosa non si fa per salvare il paese?!
Fotti il sistema. Studia.
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Re: Ce la facciamo (anche da soli)

Messaggioda flaviomob il 13/09/2011, 15:40

Concordo con lodes (e bisogna dire che persino sul blog di Beppe Grillo questa crisi era prevista da molti anni): con questa classe dirigente andremo sicuramente a fondo.


"Dovremmo aver paura del capitalismo, non delle macchine".
(Stephen Hawking)
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Re: Ce la facciamo (anche da soli)

Messaggioda Robyn il 13/09/2011, 17:22

L'Europa non è ancora uscita dall'idea monetarista.Il debito si ripaga con la crescita dell'economia.Inoltre se per ripianare il debito taglio solo le spese aumentando le tasse l'effetto non può essere che recessivo.Gli inglesi avevano ragione.Von Rumpy è una rappresentazione debole dell'Europa.L'Europa non crea lavoro.Inoltre mi sembra piuttosto strana l'inerzia che ha la commissione europea sul governo di centrodestra.Quando c'eravamo noi e volevamo detassare l'Irpef per i lavoratori si era scatenata la commissione europea.No l'inflazione no non servono.Inoltre bisogna decidere chi è che comanda in Europa,se comandano i popoli oppure i burocrati.Mi sembra che al parlamento europeo la maggioranza non è dei popolari ma di Pse/liberali democratici.Infine bisogna venire allo scoperto e dire se questi burocrati hanno in mente un progetto razzista e xenofobo e nichilista per l'europa.Almunia non si è visto più ed è stata una fortuna ciao robyn
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