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Ciampi: "A rischio il modello economico dell'Occidente"

Discussioni e proposte, prospettive e strategie per il Paese

Ciampi: "A rischio il modello economico dell'Occidente"

Messaggioda ranvit il 10/08/2011, 9:03

http://www3.lastampa.it/politica/sezion ... tp/415221/


Politica
10/08/2011 - INTERVISTA
Ciampi: "A rischio il modello economico dell'Occidente"


L’ex presidente della Repubblica e padre fondatore dell’euro:
"C’è un difetto di capacità governativa. Occorre un ministro europeo dell’Economia"
ANTONELLA RAMPINO

ROMA
Ho visto che ancora oggi il buon Trichet ha fatto un intervento, molto duro, contro i governi che non fanno quel che devono». La voce del presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi è dolce e colloquiale, ma suona nitida la preoccupazione. Che si allenta solo quando, al telefono dalla consueta vacanza nelle Alpi attorno a Siusi, dice «anche Juncker è nelle montagne italiane, lo scrivono adesso le agenzie di stampa». Non sfugge nulla, al Presidente emerito della Repubblica italiana, della tempesta finanziaria senza precedenti che scuote le due sponde dell’Atlantico. E che rischia di mettere a repentaglio l’euro di cui, con Helmut Kohl, Ciampi è il padre.

Presidente, lei è stato il primo a parlare, anni fa, della «zoppia grave e preoccupante» dell’Europa, ad avvertire che era pericolosa quella mancanza di coordinamento nella politica economica e di sviluppo. Adesso quella zoppia è diventata epocale, e zoppicano anche gli Stati Uniti, il motore dell’economia occidentale...
«E’ vero, sono tutte mancanze emerse ormai da anni. Dalla creazione dell’euro, si può ormai dire. Io dissi della zoppìa come di una cosa ovvia, e lo dissi anche in Parlamento. I responsabili politici che decisero l’istituzione dell’euro erano consapevoli che il sistema avrebbe avuto stabilità solo se accompagnato dalla costituzione di un centro di governo di politica economica. Invece, alla creazione di una moneta unica europea impostata come moneta di uno Stato federale si è risposto addirittura con la mancanza di collaborazione sul piano economico da parte degli Stati».

E’ a rischio il modello economico dell’Occidente, il capitalismo?
«E’ un pericolo che esiste».

E’ troppo tardi per rimediare?
«Troppo tardi è solo il titolo di un vecchio romanzo. Ma certo la crisi viene da lontano. All’inizio, nel 2008, sembrava interessare solo gli Stati Uniti. E invece si è progressivamente estesa all’intero sistema finanziario internazionale e alle economie della maggior parte dei Paesi industrializzati. E nonostante i numerosi interventi, né gli Stati Uniti né l’Eurozona riescono a superare quella che è la più grave fase di recessione dalla fine della Seconda guerra mondiale. La più grave per intensità, per durata, per gli effetti sulle politiche economiche e sociali, e per la tenuta dei governi di fronte alla difficoltà di definire strategie operative in grado di invertire l’andamento ciclico negativo».

Eppure, per quel che riguarda l’Italia, la Bce ha indicato all’Italia misure immediate. Ma Roma deve meritarsi quell’intervento di Francoforte a sostegno del debito pubblico?
«Mi pare che prima di ottenere gli aiuti dagli altri occorra anzitutto aiutarsi da sé».

Ma non è inusuale, pur se consona alla gravità della situazione, la lettera di «consigli» che Trichet e Draghi hanno inviato al governo italiano?
«Francamente, non so. Non si parla di ciò che non si conosce, e io la lettera non l’ho letta, ho solo visto lanci d’agenzia di stampa e articoli di giornale. Ma Trichet ha anche invitato gli Stati a creare un fondo di stabilizzazione, l’ha fatto duramente, e ha fatto bene».

E i governi d’Europa recalcitrano...
«Il punto è che davanti a una situazione di crisi epocale, strutturale, mancano provvedimenti strutturali. C’è un evidente scompenso tra diagnosi e terapia. E bisognava muoversi prima, rimediare a quella zoppìa. Ero convinto che una nuova generazione di governanti considerasse l’Europa come riferimento naturale, e che conseguentemente venissero adottate politiche istituzionali, economiche, sociali dirette a rafforzare l’Unione, nella consapevolezza che solo un’Europa più coesa e prospera può salvaguardare se stessa e le nazioni che la compongono. E invece alcuni Paesi hanno creduto che la soluzione di problemi antichi potesse essere realizzata trasferendone, sia pure in parte, il costo sugli altri Paesi. Hanno temuto di dover condividere con altri il benessere ottenuto grazie all’operosità e all’ingegnosità dei propri cittadini».

Ce l’ha anche lei con Angela Merkel, recalcitrante ad aiutare Grecia e Italia e che, secondo alcune indiscrezioni della stampa tedesca, ha provocato così la delusione di Helmut Kohl?
«C’è un difetto di capacità governativa. Chi più chi meno, magari un po’ meno il governante tedesco e di più l’italiano o lo spagnolo, ma hanno tutti mancato. E continuano a mancare. Lo si vede bene nell’emergenza, ma è un atteggiamento che viene da lontano. Governanti non lungimiranti che hanno assecondato timori, egoismi e populismi, spegnendo la spinta ideale di Adenauer, Monnet, De Gasperi, e poi di Schmidt, Mitterrand, Delors e Kohl. Helmut Kohl aveva le idee chiare, e modi di intervento adeguati e decisi. Fummo noi, insieme, a permettere il decollo della moneta unica e dell’Europa quando si trattò di fare l’euro».

Lo decideste in una storica conversazione del 1993, e senza pensare al consenso immediato, guardando con lungimiranza al futuro dell’Europa. Lo sa che c’è chi sostiene che se in questa crisi l’euro saltasse in fondo l’Italia starebbe meglio?
«Di stupidi ce n’è tanti. Stupidi, intendo, perché non competenti. Torniamo agli Stati nazionali? Benissimo, vediamo se si vive meglio o peggio, vediamo tra le singole nazioni quali ce la fanno e quali no... Ma è la zoppìa dell’Eurozona, la mancata realizzazione di un centro di governo della politica economica di tutta l’area dell’euro ad aver provocato la crisi di Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia. E’ quello il punto da affrontare. E subito».

Serve un ministro dell’Economia europeo?
«Lo si chiami come si vuole, ma occorre un coordinamento della politica economica dell’Eurozona. Dobbiamo ricordarci sempre che se abbiamo un’Europa di pace è perché abbiamo un’Europa unita. L’Europa divisa, l’Europa della mia generazione, è un continente di guerre. Sono nato alla fine della Prima guerra mondiale e avevo vent’anni quando è scoppiata la Seconda. Non lo posso, e non lo voglio dimenticare. Le guerre non si combattono solo con le armi. Abbiamo fatto l’euro perché abbiamo vissuto la tragedia della guerra, ma anche la contrapposizione ideologica e militare che seguì, e che divideva gli Stati e i popoli».

Oggi tuttavia l’euro è a rischio. Quali sono i suoi consigli?
«A 91 anni, vivo ormai da lungo tempo lontano dalle decisioni operative. I governi e l’Europa decideranno. Ma di certo, in Europa come negli Stati Uniti, occorrerà ragionare con mente fredda e operare. Mai pensando al consenso politico immediato».
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Re: Ciampi: "A rischio il modello economico dell'Occidente"

Messaggioda flaviomob il 10/08/2011, 9:10

Uno sguardo dal picco economico

di Terenzio Longobardi

Nel precedente articolo “M’indebito d’immenso” posi in evidenza il collegamento esistente tra la crisi dei debiti sovrani e la crisi economico – finanziaria del 2008 di cui osserviamo ancora oggi gli effetti: un’economia in crescente espansione aveva finora consentito di compensare e rendere apparentemente sostenibile il meccanismo perverso di accumulazione del debito da parte degli Stati sovrani. Ma il crollo del 2008 e il persistere della stasi produttiva nei paesi industrializzati ha gettato sull’orlo del fallimento alcuni dei paesi più esposti finanziariamente, con conseguenze a catena su un’economia mondiale sempre più interconnessa.
Per questo motivo, le ricette degli economisti contro la crisi hanno come principale ingrediente un rinnovato sviluppo del Prodotto Interno Lordo, denominatore indiscusso e incontrastato dei parametri di valutazione dei debiti pubblici. Anche in Italia, aggredita nelle ultime settimane dalla speculazione finanziaria in accanimento su un debito colossale, continuiamo a sentire pronunciare come un mantra da economisti, politici e forze sociali la richiesta di maggiore crescita economica.
Ma il problema è proprio questo: è ancora possibile per le economie occidentali riprendere il percorso della crescita economica esponenziale o è stato raggiunto un picco insormontabile? Contro il pensiero dominante la risposta non convenzionale di questo blog è la seconda, per tre essenziali motivi:
1) Un limite intrinseco in tutti i sistemi compreso quello economico. Lo sviluppo industriale nei paesi occidentali ha modificato i comportamenti riproduttivi innescando un invecchiamento della popolazione e un progressivo calo demografico, solo parzialmente ritardato dalle politiche dell’immigrazione. In una popolazione stabile o in calo, che ha raggiunto elevati livelli di benessere e di consumo, dove le propensioni e i comportamenti economici sono di tipo statistico, i vincoli a ulteriori espansioni superano gli incentivi alla crescita.
2) Le economie in espansione dei paesi emergenti asiatici, con costi e regole del lavoro estremamente competitive sottraggono quote di mercato sempre più elevate ai paesi industriali avanzati, senza costituire una massa critica di crescita globale. Come in un sistema di vasi comunicanti, essi crescono a scapito degli Stati già sviluppati, spostando l’equilibrio a un livello più basso.
Gli Stati occidentali, in particolare gli Stati Uniti, motore economico mondiale, hanno cercato di rispondere a questa sfida forzando i limiti della crescita attraverso la finanziarizzazione dell’economia e l’aumento fittizio della domanda interna incentivando il debito privato e ampliando l’intervento pubblico nell’economia. Ma, come abbiamo visto , dopo lo scoppio della bolla immobiliare americana, il mondo è sprofondato in una crisi economica di cui le attuali turbolenze sui debiti sovrani sono solo una delle inevitabili conseguenze.
3) Il picco del petrolio costituisce un ulteriore e insuperabile limite alla crescita. Le sempre più crescenti difficoltà nell’offerta mondiale di petrolio determinano forti tensioni sui prezzi del barile con effetti marcatamente recessivi. L’aumento dei prezzi si è arrestato solo in seguito al crollo della domanda mondiale conseguente alla crisi finanziaria del 2008, per riprendere appena il sistema globale ha mostrato segni di ripresa economica. E, in questi giorni, con l’accentuarsi delle crisi dei debiti pubblici, in particolare quello americano, che stanno frenando i deboli segnali di crescita economica, i prezzi del petrolio stanno di nuovo calando.
La lezione che gli Stati e le popolazioni occidentali dovrebbe trarre dagli ultimi terribili anni è che i tentativi artificiali di ridare fiato al meccanismo della crescita economica illimitata sono controproducenti e possono provocare danni ancora più gravi. Gli Stati e le popolazioni occidentali devono capire che società stazionarie non in crescita possono essere più stabili e che a una minore ricchezza complessiva non necessariamente debba conseguire un minore benessere.
Ciò si può ottenere redistribuendo la ricchezza tra le fasce sociali, incentivando le produzioni con un minore uso delle risorse e un maggiore contenuto sociale, costruendo un modello economico che valorizzi le produzioni locali e i rapporti commerciali tra paesi limitrofi.

http://aspoitalia.blogspot.com/2011/08/ ... omico.html


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Re: Ciampi: "A rischio il modello economico dell'Occidente"

Messaggioda ranvit il 10/08/2011, 11:53

Condivido abbastanza questa analisi....si, è stato raggiunto un (non il) picco. Voglio dire che è stato raggiunto il picco attuale: sulla base cioè delle attuali conoscenze economiche, tecnologiche e comportamenti sociali.

Da tempo osservo con fastidio lo spreco di qualsiasi cosa (anche da parte di tantissime persone che proprio non se lo potrebbero permettere): telefonini rinnovati di continuo dopo pochi mesi di vita (io ho un cell da 30 euro da ormai 4 anni), l'acquisto con finanziamenti di auto costose o Suv, abbonamenti a Sky salvo lamentarsi del canone Rai infinitamente meno costoso, la partecipazione ad eventi sportivi o musicali con costi esorbitanti, etc. Per non parlare dello spreco di acqua (io chiudo il rubinetto anche mentre mi spazzolo i denti o mentre passo il rasoio), corrente elettrica (io sono uno di quelli che spegne la luce passando da una camera all'altra, nonostante abbia tutte lampadine a basso consumo), carta igienica :D (l'abitudine di arrotolare sulla mano all'incirca un metro...io ne uso 20 cm), etc etc

Questo metodo diffusissimo, di cui ho fatto solo qualche esempio, ma esteso ad una infinità di comportamenti e cose, è una vera offesa alla miseria per non parlare della natura. La pubblicità ovviamente fa la parte del leone, ma anche l'educazione e un po' di buon senso dovrebbero consigliare di non lasciarsi trascinare in eccessi di consumi. E invece, no!

Se trasferiamo questo sistema individuale di sprechi a tutto l'agire ed il muoversi della collettività non puo' che venirne "il raggiungimento del picco".

Per quanto mi preoccupa questa crisi (soprattutto per la mancanza di lavoro dei miei figli) debbo confessare che la considero un po' come....la nemesi, per i sopraccitati comportamenti.


Insomma penso che sia sempre valida la biblica "sette anni di vacche grasse e sette di magre"...


Vittorio
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Re: Ciampi: "A rischio il modello economico dell'Occidente"

Messaggioda pianogrande il 10/08/2011, 14:47

Sono d'accordo con Ranvit.
Purtroppo è un fatto di educazione, di costume.
Non fa tanto "figo" risparmiare, non sporcare, non inquinare etc.
I modelli proposti, sopratutto ai giovani, sono ben altri.
SUV che richiedono la patente delle portaerei, tutto firmato e superlusso etc.
Tutto parte da genitori che non vogliono far mancare niente ai loro figli.
Gli fanno mancare la sensibilità, il piacere della sobrietà e la misura del proprio valore fondata su ben altri parametri.
Tutti protesi a prendere.
A dare chi ci deve pensare?
Fotti il sistema. Studia.
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Re: Ciampi: "A rischio il modello economico dell'Occidente"

Messaggioda flaviomob il 19/08/2011, 10:03

Qualcosina non funziona... Toh, spunta il conflitto d'interessi anche negli States (e le indagini...)

http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/08 ... 9D/152228/

Rating, Standard & Poor’s sotto inchiesta
NY Times: “Diede fiducia ai titoli tossici”

Secondo il quotidiano statunitense, il Dipartimento di Giustizia Usa avrebbe aperto un’inchiesta sui giudizi eccessivamente positivi attribuiti dall’agenzia di rating Standard & Poor’s ai titoli tossici della crisi dei mutui subprime. Un’indagine che riporta d’attualità il tema dei conflitti d’interesse vissuti dalle società di valutazione nel momento di loro massima impopolarità internazionale A prima vista sembrerebbe una vendetta ben congeniata anche se l’origine delle indagini, che si collocherebbe ben prima del mal digerito downgrade sovrano, sembrerebbe fugare ogni dubbio in merito. A qualche settimana di distanza dal suo giudizio di declassamento del rating sui titoli di Stato degli Usa, scesi per la prima volta nella storia al di sotto della rassicurante soglia massima della tripla A, l’agenzia di rating Standard & Poor’s viene messa sotto inchiesta dal Dipartimento di Giustizia di Washington con l’accusa di aver espresso consapevolmente un giudizio troppo ottimistico sui quei titoli tossici del mercato immobiliare all’origine della più grande crisi del dopoguerra. A lanciare l’indiscrezione è il New York Times citando fonti anonime ma bene informate sulla vicenda.

La storia, di fatto, sembrerebbe di una semplicità abissale. Nell’epoca delle vacche grasse, quando il settore real estate sembrava promettere profitti per tutti, S&P, la principale agenzia di rating d’America e del mondo, scelse deliberatamente di sopravvalutare alcuni titoli problematici del settore. Alcuni analisti, incaricati di emettere un giudizio, avrebbero espresso inizialmente valutazioni poco lusinghiere salvo essere successivamente indotti dai loro superiori a modificare il proprio rating. E così, le future obbligazioni “tossiche”, che avevano come collaterale proprio i famigerati mutui subprime, sarebbero state successivamente promosse al massimo grado di investimento. Convincendo di fatto gli investitori a puntare i propri risparmi su una scommessa apparentemente sicura ma in realtà del tutto fallimentare.

La logica, insomma, è nota. E per molti non sarebbe altro che la classica scoperta dell’acqua calda. Le agenzie di rating, sospettano gli inquirenti, non si sarebbero dimostrate sufficientemente imparziali. Ricorrendo al momento del giudizio a scelte dettate forse dalla malafede. Comunque vada a finire, l’inchiesta ha già sollevato quella che dagli albori della crisi è considerata come la vera questione di fondo relativa al clamoroso potere assunto dalle agenzie come S&P. Ovvero il palese conflitto di interessi che le caratterizza. Veri e propri enti for profit, infatti, le agenzie vengono retribuite (tipicamente con compensi a cinque zeri) dagli stessi emittenti di prodotti finanziari che esse stesse sono chiamate a valutare. Inevitabile che una propensione all’ottimismo, diciamo così, finisca quindi per costituire un vantaggio competitivo sul mercato. Tanto più di fronte all’impossibilità di introdurre sulla piazza un prodotto non valutato.

Come se non bastasse, è la stessa composizione azionaria delle principali agenzie a destare più di un sospetto sulla loro inclinazione al ruolo di arbitri super partes. Prendete proprio Standard & Poor’s: la società è totalmente esposta sul mercato, il che significa che tutte le sue quote azionarie sono disponibili alla negoziazione. Ad oggi, il suo azionista di maggioranza risulta essere il mega gestore di fondi statunitensi Capital World Investors, che ne detiene una quota proprietaria pari al 12,45%. Accanto ad esso altri colleghi del mercato della gestione finanziaria come State Street (4,39%), Vanguard (4,22%), BlackRock (3,89%), Oppenheimer Funds (3,84%), T. Rowe (3,36%), Jana Partners (2,95%) e il fondo pensione degli insegnanti dell’Ontario (2,27%). Tra i componenti del Cda, il presidente della società Harold Mc Graw III (proprietario al 3,96%) ma anche Sir Winfried Bischoff (Lloyds Banking Group) e altri illustri ex esponenti di colossi come Coca Cola o British Telecom. Un’occhiata alla composizione proprietaria delle altre due grandi agenzie Moody’s e Fitch (leggi l’articolo di Mauro Meggiolaro) è sufficiente per chiamare in causa le medesime perplessità.

L’eventuale coinvolgimento nell’inchiesta di queste ultime due non è noto anche se una fonte interpellata dal quotidiano Usa non ha escluso questa possibilità. Di certo, tuttavia, è inevitabile osservare come l’indagine del Dipartimento di Giustizia si collochi in un momento chiave per il rapporto tra le istituzioni, i mercati e le agenzie stesse. Da tempo sotto accusa in Europa per la loro propensione al ribasso sui debiti sovrani delle nazioni di Eurolandia (passino i downgrade dei Piigs, ma la minaccia di declassamento della Francia ha fatto letteralmente sobbalzare sulla sedia più di un regolatore a Parigi e Bruxelles), le società sono ormai nell’occhio del ciclone anche negli Usa. A Washington, dove gli errori di valutazione che hanno contribuito al tracollo del mercato subprime sono noti da sempre, non hanno per nulla digerito la scelta di S&P di declassare il debito americano dopo il raggiungimento del tormentato accordo sull’innalzamento dei limiti dello stesso al termine di un’estenuante trattativa tra l’amministrazione e i repubblicani. Una decisione che è suonata quasi come un delirio di onnipotenza da parte di chi, dopo mesi di volatilità speculativa, si era convinto ormai di avere a disposizione quel potere smisurato che garantisce la possibilità di aver ragione anche quando si ha torto (visto che i mercati, notoriamente, seguono a ruota i giudizi concretizzandoli di fatto nelle piazze finanziarie). Anche se ora, forse, negli uffici di S&P a qualcuno sarà pure venuto il dubbio di aver tirato troppo la corda.


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Re: Ciampi: "A rischio il modello economico dell'Occidente"

Messaggioda trilogy il 19/08/2011, 14:01

Il capitalismo è destinato a fallire?
Nouriel Roubini
15-08-2011

NEW YORK – La massiccia volatilità e l’intensa correzione dei prezzi azionari, che stanno colpendo in questi giorni i mercati finanziari globali, indicano che la maggior parte delle economie avanzate è sull’orlo di una doppia recessione. La crisi economica e finanziaria causata dall’eccessivo indebitamento del settore privato e dalla leva finanziaria ha portato a un nuovo pesante indebitamento del settore pubblico volto a evitare una Grande Depressione. Ma la relativa ripresa è stata anemica e al di sotto della media nelle più importanti economie mondiali, a causa dei dolorosi interventi di deleveraging.

Ora il rincaro dei prezzi relativi al petrolio e alle materie prime, le rivolte nel Medio Oriente, il terremoto e lo tsunami del Giappone, le crisi di debito nell’Eurozona, i problemi fiscali in America (e adesso il declassamento del rating) hanno provocato una massiccia avversione al rischio. A livello economico, gli Stati Uniti, l’Eurozona, il Regno Unito e il Giappone stanno sprecando denaro. Anche i mercati emergenti in rapida crescita (Cina, Asia emergente e America Latina) e le economie orientate all’export che si affidano a questi mercati (Germania e Australia ricca di risorse) stanno registrando intense fasi di contrazione.

Fino allo scorso anno i policymaker sapevano come scendere in campo per innescare una reflazione e far ripartire l’economia. Stimoli fiscali, tassi di interesse quasi inchiodati a zero, due cicli di “quantitative easing”, titoli di debito tossici, migliaia di miliardi di dollari spesi in pacchetti di salvataggio e liquidità fornita a banche e istituti finanziari: le hanno provate tutte. Ora sono a corto di munizioni.
La politica fiscale rappresenta attualmente un freno per la crescita economica sia nell’area euro che nel Regno Unito. Anche negli Usa, i Governi statali e locali, e ora il governo federale, stanno tagliando la spesa e riducendo i sussidi relativi al welfare. E presto aumenteranno le tasse.

Un altro ciclo di salvataggi bancari è inaccettabile dal punto di vista politico e irrealizzabile a livello economico: gran parte dei Governi, soprattutto in Europa, sono talmente in crisi da non potersi permettere pacchetti di salvataggio; il rischio sovrano sta infatti alimentando i timori sullo stato di salute delle banche europee, che detengono gran parte dei titoli di stato ormai in bilico.

Anche la politica monetaria non può essere d’aiuto. L’allentamento monetario è vincolato all’inflazione sopra target registrata nell’Eurozona e nel Regno Unito. Probabilmente la Federal Reserve americana avvierà il terzo ciclo di quantitative easing (QE3), ma siamo ormai fuori tempo massimo. Il QE2 da 600 miliardi di dollari e i tagli previsti per le tasse e le spese sociali nell’ordine di mille miliardi di dollari hanno portato in un trimestre a una crescita che sfiora appena il 3%. Poi la crescita è crollata al di sotto dell’1% nella prima metà del 2011. Il QE3 sarà più ridotto e non riuscirà ad innescare la reflazione e a rilanciare la crescita.

Il deprezzamento valutario non è in opzione per le economie avanzate: necessitano tutte di una moneta più debole e di una migliore bilancia commerciale per rilanciare la crescita, ma entrambe le soluzioni non si possono realizzare simultaneamente. Fare affidamento sui tassi di cambio per influenzare le bilance commerciali è un gioco a somma zero. Le guerre valutarie si stagliano all’orizzonte, con il Giappone e la Svizzera in prima linea per indebolire i propri tassi di cambio. Gli altri seguiranno a ruota.

Nel contempo rileviamo come nell’Eurozona nell’Eurozona, Italia e Spagna siano sul punto di perdere l’accesso al mercato, mentre le pressioni finanziarie cominciano a farsi sentire anche in Francia. Ma Italia e Spagna sono entrambe troppo grandi per fallire e troppo grandi per essere salvate. Per il momento, la Banca centrale europea acquisterà alcuni dei loro bond prima di sfruttare il nuovo fondo Efsf (European Financial Stabilization Facility) dell’Eurozona. Ma, se l’Italia e/o la Spagna perdessero l’accesso al mercato, il fondo Efsf da 440 miliardi di euro (627 miliardi di dollari) potrebbe esaurirsi entro la fine dell’anno o l’inizio del 2012.

A meno che l’Efsf non venga triplicato – una mossa cui la Germania si oppone con decisione – l’unica opzione a disposizione sarebbe la ristrutturazione ordinata ma coercitiva del debito italiano e spagnolo, come è successo per la Grecia. La ristrutturazione coercitiva dei titoli di debito non garantiti, detenuti dalle banche insolventi, sarebbe il passo successivo. Sebbene il processo di deleveraging sia appena iniziato, le riduzioni del debito diverranno necessarie se i paesi non riusciranno a crescere, a risparmiare o a tirarsi fuori dai problemi debitori.

Sembra quindi che Karl Marx avesse ragione nel sostenere che la globalizzazione, l’intermediazione finanziaria fuori controllo e la ridistribuzione del reddito e della ricchezza dal lavoro al capitale potrebbero portare il capitalismo all’autodistruzione (la sua idea che il socialismo sarebbe stato migliore si è invece rivelata errata). Le aziende stanno tagliando posti di lavoro a causa di un’insufficiente domanda finale. Ma tagliare posti di lavoro riduce il reddito dei lavoratori, aumenta la diseguaglianza e diminuisce la domanda finale.

Le recenti manifestazioni di massa, dal Medio Oriente a Israele fino al Regno Unito, e la crescente paura in Cina – e ben presto in altre economie avanzate e nei mercati emergenti – sono tutte spinte dalle stesse problematiche e tensioni: diseguaglianza, povertà, disoccupazione e disperazione. Anche i ceti medi del mondo stanno provando le ristrettezze economiche legate alla riduzione di reddito e opportunità.
Per consentire alle economie orientate al mercato di funzionare nel modo corretto, dobbiamo ritornare al giusto equilibrio tra mercati e fornitura di beni pubblici. Ciò significa abbandonare il modello anglosassone del laissez-faire e dell’economia-vodoo e il modello dell’Europa continentale di welfare state (o stato del benessere) spinto dal deficit. Entrambi i modelli sono risultati fallimentari.

Il giusto equilibrio richiede oggi la creazione di posti di lavoro, in parte mediante nuovi stimoli fiscali volti a incentivare le infrastrutture. Serve altresì una maggiore tassazione progressiva, maggiori stimoli fiscali nel breve periodo attraverso una disciplina fiscale nel medio e nel lungo periodo, l’appoggio di un prestatore di ultima istanza da parte delle autorità monetarie per prevenire rovinose corse agli sportelli, una riduzione del peso debitorio per le famiglie insolventi e altri agenti economici in difficoltà, nonché supervisione e regolamentazione più severe per combattere un sistema finanziario fuori controllo, mettendo fine a banche troppo grandi per fallire e a imprese oligopolistiche.

Nel tempo le economie avanzate dovranno investire in capitale umano, competenze e reti di sicurezza sociale per aumentare la produttività e consentire ai lavoratori di competere, essere flessibili e vivere bene in un’economia globalizzata. Come negli anni 30, le alternative sono stagnazione, depressione, guerre valutarie e commerciali, controlli sui capitali, crisi finanziarie, insolvenze sovrane, instabilità sociale e politica.

Nouriel Roubini è presidente del Roubini Global Economic, professore di economia presso la Stern School of Business della NYU e co-autore del libro Crisis Economics.

Copyright: Project Syndicate, 2011.
http://www.project-syndicate.org
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Re: Ciampi: "A rischio il modello economico dell'Occidente"

Messaggioda franz il 19/08/2011, 21:31

trilogy ha scritto:Il capitalismo è destinato a fallire?

Domanda interessante.
Lo prevedono in tanti, da 150 anni, cannando ogni decennio.
Ne (ri)parleremo tra 10, 20 o 30 anni.
Ai primi due appuntamenti penso (spero) di poter partecipare. Al terzo non sono sicuro.
In realtà il capitalismo fallisce e resuscita ad ogni crisi, rinato e diverso.
Questo è snervante per i suoi detrattori ma pare che si debbano rassegnare.
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Re: Ciampi: "A rischio il modello economico dell'Occidente"

Messaggioda flaviomob il 20/08/2011, 2:02

Può darsi che Marx abbia sbagliato (e il passaggio del marxismo che prevede una fase di "dittatura del proletariato" non mi garba: di solito una dittatura non è una fase che si supera pacificamente ma con guerre di liberazione e conflitti civili), ma se ci si attiene alle sue parole, il modello di governo socialista non può esistere in un paese solo: o è globale o non è socialismo marxista, per cui non è corretto dire che il socialismo è fallito, semplicemente non è ancora nato.
Altrimenti è legittimo pensarla diversamente e sostenere che il socialismo c'è stato, è coinciso con l'URSS e ha prodotto disastri, ma in questo caso non si può chiamare Marx in causa direttamente.


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Re: Ciampi: "A rischio il modello economico dell'Occidente"

Messaggioda franz il 20/08/2011, 7:48

flaviomob ha scritto:Può darsi che Marx abbia sbagliato (e il passaggio del marxismo che prevede una fase di "dittatura del proletariato" non mi garba: di solito una dittatura non è una fase che si supera pacificamente ma con guerre di liberazione e conflitti civili), ma se ci si attiene alle sue parole, il modello di governo socialista non può esistere in un paese solo: o è globale o non è socialismo marxista, per cui non è corretto dire che il socialismo è fallito, semplicemente non è ancora nato.
Altrimenti è legittimo pensarla diversamente e sostenere che il socialismo c'è stato, è coinciso con l'URSS e ha prodotto disastri, ma in questo caso non si può chiamare Marx in causa direttamente.

Un attimo, non stiamo parlando del fallimento del socialismo. Una cosa per volta. Qui si parlava del possibile futuro fallimento del capitalismo. Poi l'articolista usa un classico trucco dialettico per sostenere la sua opinione. Tira in ballo qualche pensatore del passato e dice che forse aveva ragione. Non facciamoci distrarre.

Dice (questo è il punto) che: "Le aziende stanno tagliando posti di lavoro a causa di un’insufficiente domanda finale. Ma tagliare posti di lavoro riduce il reddito dei lavoratori, aumenta la diseguaglianza e diminuisce la domanda finale. "
Dimostra tutto sommato di essere un adepto del cosiddetto "modello superfisso" (vedere http://www.noisefromamerika.org/index.php/articoli/747 ) e di non capire che le crisi sono momenti di riallocazione dinamica delle risorse. Scopri che hai allocato risorse in un settore che sta diventando infruttifero e devi abbandonarlo per posizionarti in nuovi settori. (vedere ad esempio l'annuncio di HP sull'abbandono della produzione di PC).

Quanto poi al problema del socalismo che non sarebbe stato possibile in un solo paese, è proprio questo uno dei tanti punti di debolezza della teoria. Il capitalismo puo' affermarsi (anzi, si è affermato storicamente) in modo graduale, partendo da uno o pochissimi paesi. Un sistema graduale, è vincente. Un sistema che invece fuziona "solo se tutti lo adottano" è di per se già di una fragililità concettuale enorme. Il vero difetto teorico tuttavia è quello che fonda il concetto di economia pianificata dallo stato (piani quinquennali e compagnia). Il sistema sovietico è crollato proprio perché le pianificazioni sono impossibili, in quanto scompaginate costantemente dall'innovazione tecnologica.
Questo scompagina anche il sistema capitalistico (le centinaiaa di migliaia di aziende) ma mentre le aziende possono fallire, fondersi, suddividersi, licenziare, rilanciarsi, riallocarsi, il mega-compound-economico-statal-socialista non riesce a farlo (anche volendo, è troppo lento) e quindi è lui a fallire per primo. I cinesi lo hanno capito in tempo.
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Re: Ciampi: "A rischio il modello economico dell'Occidente"

Messaggioda ranvit il 20/08/2011, 8:48

Condivido quanto dice Franz e chiedo: ma.... cosa s'intende per "capitalismo"?

Perchè, semplicisticamente parlando, mi sembra di poter affermare che il "capitalismo" non è altro che il sistema economico-sociale piu' "naturale" ed antico che esiste: il piu' forte vince e detiene il potere (in natura se avesse vinto il piu' debole....non ci sarebbe piu' nessuno....).
Il "socialismo" è una delle tante "sfumature" possibili del "capitalismo".

Il "comunismo"....almeno quello reale conosciuto è solo un'aberrazione del "socialismo".

Allo stato non è possibile alcuna fine del "capitalismo"....forse in futuro ci saranno altre "sfumature" :roll: :roll: :roll:

Vittorio
Il 60% degli italiani si è fatta infinocchiare votando contro il Referendum che pur tra errori vari proponeva un deciso rinnovamento del Paese...continueremo nella palude delle non decisioni, degli intrallazzi, etc etc.
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