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I parte
Il discorso di Montezemolo all'Assemblea di Confindustria Parma
di Luca di Montezemolo , pubblicato il 16 giugno 2011
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Stiamo vivendo la fase traumatica della fine della seconda repubblica. Un lungo periodo infelice per il paese che ci ha visto retrocedere in tutti gli indicatori fondamentali, non solo quelli economici, ma anche quelli sociali, culturali e civili.
Abbiamo detto, tante e tante volte, che il paese si è fermato e che i tantissimi italiani ignoti che ogni giorno, a dispetto di tutto e di tutti, continuano a fare il proprio lavoro non riescono più a sopperire alle tantissime anomalie del sistema. Lo abbiamo detto e siamo stati puntualmente ignorati da una politica sempre più arroccata e autoreferenziale.
Nelle ultime settimane abbiamo assistito a forti segnali di reazione da parte dei cittadini. Un desiderio di riappropriarsi dello spazio che ci appartiene. Per anni infatti ci siamo sentiti dire che la politica è dominio esclusivo dei politici. Abbiamo persino subito, e ancora subiamo, una legge elettorale vergognosa che ha l’obiettivo di sottrarci qualunque possibilità di scelta.
A tutto questo i cittadini hanno voluto dire, in maniera inequivocabile, basta!
Voglio dire con chiarezza che l’enorme partecipazione al voto deve essere salutata come un fatto positivo, che segnala la voglia di tanti italiani di tornare a farsi ascoltare. Ma se il desiderio di partecipare non troverà un approdo costruttivo esiste il rischio concreto che da un fatto positivo si ricada nel vizio italiano della protesta fine a se stessa.
Perché non è con i NO che si manda avanti un paese.
Possiamo dire no al nucleare e tornare all’acqua pubblica ma il problema di definire un piano energetico e di trovare decine di miliardi di euro per rifare la rete idrica rimangono. E se le ragioni del voto dei cittadini possono ben comprendersi, il compito dei tanti leader che sono corsi a mettere il cappello su questo voto, è di spiegarci come faremo a non pagare l’energia il 30% in più dei nostri concorrenti. Perché in questo sta la differenza tra un leader politico e un capo popolo.
Si è deciso di mantenere pubblica la gestione delle reti idriche. Bene. Ma allora che si costituisca almeno una società unica della rete idrica per tutto il territorio nazionale, a maggioranza pubblica ma mandata avanti secondo criteri di mercato e aperta agli investimenti dei privati. Perché altrimenti, già lo sappiamo, assisteremo al proliferare di mille piccoli feudi politici regionali tanto costosi quanto inefficienti, quelle discariche per politici trombati di cui è già pieno il nostro paese.
Ed è proprio a livello locale che stanno moltiplicandosi le manifestazioni di quel neostatalismo municipale che vede tornare la mano pubblica in forme mascherate, annullando gli spazi per la libera concorrenza e aumentando i costi per i cittadini.
Stiamo imboccando una strada pericolosa. Quando sento parlare, in un paese soffocato dalla burocrazia e dai costi della politica, di Ministeri spostati al Nord, con tutte le conseguenze in termini di maggiori spese e inefficienza, da parte di forze politiche nate per combattere i poltronifici, beh allora vuol dire che questa politica sta perdendo veramente la bussola. Si vorrebbero duplicare i Ministeri, mantenere le provincie e poi fare le riforme fiscali in deficit? Vi sembrano queste proposte serie?
E si comprende lo spaesamento di una larga parte dei cittadini moderati che speravano e credevano nelle promesse di rivoluzioni liberali e che oggi invece devono sorbirsi i proclami contro i magistrati, i siparietti alle conferenze internazionali, le rassicurazioni sul “va tutto bene”, i propositi di riforme fiscali in deficit, la protezione dei monopoli grandi e piccoli e tutte le altre amenità che quotidianamente ci capita di sentire.
Il miraggio di una politica normale con una destra e una sinistra moderne ed europee sta diventando l’incubo di un sistema politico e istituzionale che non trova corrispondenti in nessun paese avanzato.
Parliamoci chiaro l’Italia non può sostenere una nuova stagione politica fatta di no, di proclami ideologici, di proteste, per quanto legittime e comprensibili, e tanto meno possiamo permetterci un altro periodo di guerra civile a bassa intensità tra vecchi e nuovi populismi, di destra e di sinistra.
Abbiamo bisogno di soluzioni razionali e di proposte concrete per rimettere in moto il paese.
Abbiamo bisogno che l’elettorato riformista, moderato e liberale, che è maggioranza nel paese, ritrovi un progetto nel quale riconoscersi, e a cui devono contribuire tutte le forze migliori, fuori e dentro la politica.
Abbiamo bisogno di ritrovare una visione di lungo periodo, una sfida fatta di azioni concrete per il bene del paese che non sono né di destra né di sinistra ma solo di buon senso.
Mai come negli ultimi 17 anni la parola riforme è stata abusata e tradita. E anche da questo tradimento hanno tratto forza i ribellismi, i richiami ideologici, la propaganda spicciola.
E a proposito di riforme questo panorama, non certo incoraggiante, si è tornato a parlare di riforma fiscale. Un tema su cui abbiamo particolarmente sperimentato abbondanza di promesse e scarsità di risultati.
Negli ultimi quindici anni di riforme fiscali gli italiani ne hanno viste almeno un paio, nel 2001 e nel 2007, sempre che non si vogliano considerare come vere e proprie riforme gli interventi del 1997-98. Negli stessi quindici anni la pressione fiscale è passata dal 41% circa della legislatura iniziata nel 1994 al 43,5% circa di questi ultimi anni.
Insomma per gli italiani si scrive “riforma fiscale” ma si legge “aumento delle tasse".
E visto che pare che siamo alla vigilia di una discussione sulla materia, alcuni “avvisi ai naviganti” sono forse più che mai necessari.
Primo. Il fisco dovrebbe essere il regno della stabilità, della semplicità, della trasparenza. Sarebbe opportuno che la riforma fiscale che si sta disegnando sia pensata per durare (decenni e non anni) e sia costruita per essere compresa dai cittadini. Sotto questo profilo, lo sfoltimento delle centinaia (!) di detrazioni e deduzioni e di regimi fiscali derogatori oggi presenti è opera meritoria.
Sotto questo aspetto anche la riduzione del numero delle aliquote è un passo avanti a patto che non si trasformi in una penalizzazione dei redditi più bassi.
Secondo. Una riforma fiscale in deficit semplicemente non è proponibile.
Precipitare il paese nell’instabilità finanziaria per rimediare, in termini di consenso, ai risultati deludenti di questa legislatura, sarebbe folle e non raggiungerebbe i risultati sperati. Gli elettori, quelli di centro destra in testa, hanno dimostrato di non avere l’anello al naso.
Attenzione, la stabilità dei conti è il nostro vaso di pandora. L’unico argine che, grazie anche al vincolo esterno dell’Europa, ha tenuto in questi ultimi venti anni.
Terzo. Una riforma fatta a parità di pressione fiscale che sposti il carico fiscale “dalle persone alle cose” e cioè dall’imposta personale all’Iva ha alcune significative controindicazioni. Il rischio è che il riflesso sull’inflazione che si determinerebbe potrebbe facilmente vanificare l’intera operazione.
Del resto un punto di aliquota vale, per i contribuenti presenti nello scaglione iniziale, una decina di euro al mese. Non ci vuol molto ad immaginare che – in presenza di comportamenti opportunistici da parte del comparto del commercio – in termini reali quei contribuenti potrebbero ritrovarsi con un pugno di mosche in mano.
La strada maestra per una riforma fiscale che abbassi significativamente la pressione fiscale è quella che passa per una riduzione della spesa pubblica e dal recupero dell’evasione. Lo sappiamo tutti da anni ed è addirittura diventato noioso ripeterlo.
Dobbiamo vincolare alla riduzione delle aliquote le risorse provenienti dall’attività di contrasto all’evasione. L’abbiamo detto e lo ripetiamo: ogni euro di evasione recuperata deve andare obbligatoriamente a ridurre la pressione fiscale.
Si chieda al Ragioniere generale dello Stato di certificare ex post il recupero da evasione e si stabilisca fin d’ora che lo stesso sarà dedicato anno dopo anno alla riduzione della pressione fiscale.
Se per qualche anno si mantenesse il ritmo del 2010, circa 10 miliardi di euro evasi recuperati dall’Amministrazione, basterebbe una legislatura per ridurre significativamente e visibilmente la pressione fiscale sui contribuenti onesti.
L’altra scelta ineludibile è quella di tagliare la spesa. E non possiamo più permetterci un modo di procedere che colpisce indiscriminatamente tutti i capitoli (tranne ovviamente quelli riferiti ai costi della politica).
L'esigenza di tagliare e la necessità di crescere impongono un ripensamento complessivo del ruolo (e del peso) dello Stato in Italia nel prossimo futuro, cominciando con il distinguere all'interno della spesa pubblica due grandi categorie di spese.
Da una parte le voci di spesa corrispondenti alle funzioni per le quali è indispensabile che lo Stato esista: la difesa e l'ordine pubblico, la giustizia, l'istruzione e la ricerca, la sanità, il welfare, la tutela del patrimonio culturale. Insomma le voci per le quali cittadini onesti pagano le tasse. Per queste voci di spesa, ogni sforzo dovrà essere fatto per impedire gli sprechi e per rendere la spesa efficiente ed efficace.
Dall’altra parte stanno tutte le altre voci di spesa.
Dal funzionamento del sistema politico in senso lato ai trasferimenti alle imprese, alle tante voci non corrispondenti a funzioni fondamentali per i cittadini. Euro più euro meno, un quinto circa dell’intero volume della spesa pubblica.
Per queste voci di spesa il principio non può che essere uno solo: la messa in discussione delle voci di spesa stesse e non già solo delle loro variazioni.
Ci sentiamo spesso ripetere che i tagli delle provincie o l’abolizione di enti inutili come il Cnel comporterebbero risparmi marginali nell’ordine di qualche centinaio di milioni di euro.
Dobbiamo dire chiaramente che non esistono risparmi marginali quando si tratta di denaro dei cittadini. E non è solo una questione di far quadrare i conti ma è soprattutto un punto d’onore per una classe dirigente politica degna di questo nome.
Come può essere concepibile chiedere sacrifici a chi lavora e produce senza avere la decenza di ridurre drasticamente i propri privilegi? Penso prima di tutto ai lavoratori delle nostre aziende che si vedono prelevare ogni mese una parte spropositata del loro stipendio per avere sempre meno servizi e sempre più oneri. Quale livello di arroganza e certezza di impunità giustifica questo atteggiamento della nostra classe politica?
Abbiamo oggi uno Stato debole ma pervasivo. Dobbiamo porci il traguardo di uno Stato forte, anzi fortissimo, nel suo core business ma che si ritiri da tutti i settori dove ha dimostrato di non saper svolgere in maniera efficiente la sua azione.
Non è una questione ideologica ma di puro e semplice buon senso.
Bisogna ridurre al minimo tutti i processi discrezionali e di intermediazione che vengono oggi gestiti in maniera inefficiente da una burocrazia pletorica in cerca di auto-legittimazione.
Sono convinto, ad esempio, che gli imprenditori scambierebbero volentieri un euro di incentivi con un euro di Irap in meno.
Se guardiamo il bilancio dello Stato da questa prospettiva troveremo le risorse per diminuire la pressione fiscale e far ripartire il paese.