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Accordo FIAT: la solita CGIL

Discussioni e proposte, prospettive e strategie per il Paese

Re: Accordo FIAT: la solita CGIL

Messaggioda Robyn il 08/01/2011, 18:26

Il problema di fondo è la delocalizzazione.Qualcuno pensa di riprendere l'agricoltura.Si può anche sviluppare l'agricoltura biologica ,ma il problema non è quello che si produce,ma chi produce.Se chi produce arance o grano decide di delocalizzare in Cina perche produrre costa meno siamo punto e a capo.La delocalizzazione è comunque negativa perche se delocalizzo e tolgo reddito ai paesi industrializzati,dal momento che nei paesi emergenti posso vendere poco,a questo si aggiunge che posso vendere poco anche in Italia perche ho sottratto reddito con la conseguenza di deprimere il mercato.La delocalizzazione è poi usata per demolire i diritti dei lavoratori e quindi il disastro è senza limiti.L'unica possibilità è cambiare modello di sviluppo andare verso il terzo settore dove non vige la logica del massimo profitto ,dove gli utili vengono reinvestiti,dove i dipendenti sono azionisti dell'azienda e dove scompare la figura del datore di lavoro proprietario dell'azienda e compare quella del manager designato dai lavoratori.Solo con questo modello è impossibile la delocalizzazione,mantenere tassi di crescita discreti,e mantenere i diritti del lavoro.L'industria con la figura del datore di lavoro proprietario e lavoratori non ha futuro ciao robyn
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Messaggioda flaviomob il 09/01/2011, 16:57

Da un opinionista spesso in linea con Marchionne, che scrive nientepopodimeno che sul sito di Magdi (C) Allam...

http://www.ioamolitalia.com/2010/10/le- ... archionne/

Le (quasi) giuste panzane di Marchionne
di Alfonso Di Pasquale
“Senza l’italia la Fiat starebbe meglio”, “nemmeno un Euro del profitto Fiat e’ fatto in Italia”, “nel periodo dal 2008 al 2009 la Fiat non ha ricevuto aiuti di Stato”

Abbiamo sentito tutti le dichiarazioni, o meglio le provocazioni, del filosofo Marchionne che usa delle vere e proprie “panzane” per poter attirare l’attenzione sul suo problema, quello della competitivita’, sperando di poter scardinare questo sistema marcio e putrefatto che regola il tessuto industriale delle “grandi” imprese italiane. In effetti Marchionne mente spudoratamente quando dice che la Fiat senza l’Italia starebbe meglio, perche proprio il suo stabilimento piu’ grande ed importante, Mirafiori di Torino, ospita i 2000 dipendenti dell’ufficio tecnico, quelli che per intenderci progettano le automobili insieme ai processi produttivi per fabbricarle, quindi senza l’Italia la Fiat non solo non starebbe meglio ma addirittura non esisterebbe, sic et simpliciter. Va anche detto che tutte le altre case automobilistiche, quelle che producono in Francia, Germania, Belgio, Svezia e via dicendo, non proprio il Burundi o il Vietnam dove gli operai si accontentano di una tazza di riso e un te caldo al giorno per lavorare 30 ore giornaliere, hanno uffici tecnici che variano dalle 8000 alle 10000 unita’, qualche esempio? Renault, direzione tecnica a Parigi con 8000 tecnici, Daimler, direzione tecnica a Stoccarda con 10000 tecnici, BMW direzione tecnica a Monaco di Baviera con 12000 dipendenti, Opel, Francoforte con 14000 dipendenti, e la lista e’ ancora lunga. In pratica la Fiat fa 2 miliardi di profitto quest’anno perche’ riesce a contenere moltissimo i costi di sviluppo (2000 tecnici a Torino costano molto meno che 14000 tecnici a Francoforte) vende bene in mercati dove il contenuto tecnologico del veicolo e’ meno importante che in Europa (Fiat e’ leader di vendite in Brasile per intenderci) ma fatica in Europa dove anche nel mercato di casa ormai 7 macchine su 10 sono straniere. Quindi la Fiat fa profitti nel mondo unicamente grazie al genio italiano che con un quinto del personale (situati guarda caso nel vitoperato stivale, perche’ altrimenti col cavolo che si riuscirebbe a convincere 2000 ingegneri tedeschi di lavorare cinque volte piu’ del necessario) riesce a fare il miracolo di progettare automobili, certo non a livelli tecnologicamente eccelsi, per ovvi motivi, ma che piacciono molto a Brasiliani e Cinesi. Se poi analizziamo la frase che la Fiat non ha ricevuto aiuti di Stato nel periodo 2008-2009 allora scadiamo nel grottesco/paradossale/ridicolo, perche’ questa non solo e’ una panzana colossale, ma e’ anche molto piu’ facile da smascherare: chiedete a qualsiasi dipendente Fiat (e in italia ce ne sono quasi piu’ di 30mila) quanta cassa integrazione ha fatto in quegli anni, e quanta ancora ne fa attualmente INCLUSA la direzione tecnica. Le percentuali variano dal 90% al 40% e tutt’ora non si scende al di sotto del 30%, non nel 2009, ma adesso nel 2010. Qualcuno mi potrebbe cortesemente spiegare in che maniera la cassa integrazione non e’ considerata un aiuto di Stato?
Marchionne vuole giustamente affrancarsi dal concetto vetusto del contratto collettivo, un’assurdita’ superata dai tempi e dalla globalizzazione, ma deve mettere sul piatto delle contrattazioni un piano che possa far competere le automobili Fiat non solo sui mercati tipo il Brasile o la Cina, dove indubbiamente c’e’ crescita, ma anche in Europa. Non una sola Opel si vende o si produce fuori dall’Europa eppure il marchio va benissimo le automobili sono prodotte in Germania e quast’anno sara’ un anno record per incassi e profitti, molto di piu’ della Fiat (circa il doppio per intenderci). Come mai? Andate a gurdarvi gli ultimi modelli Opel, tipo l’Insignia, l’Antara e la Meriva e mettetene i contenuti a confronto, capirete sia perche’ Opel va alla grande, cosi’ come capirete come mai Marchionne aveva tanta voglia di comprarsela l’anno scorso. Marchionne dice parole sacrosante quando parla della produttivita’ e della governabilita’ degli stabilimenti, ha ragione a denunciare e sanzionare i savonarola del patto sindacale, ma si dimentica di parlare di prodotto, di ingegnerizzazione, di innovazione, di impatto ambientale, tutti concetti che richiedono grossi investimenti in quella parte sana del paese, quello stesso paese che ha dato i natali a Leonardo e Brunelleschi, quello in cui le menti producono cinque volte tanto quello che producono gli omologhi d’oltralpe.

Alfonso Di Pasquale


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Qualcosa di comunista? Ma sì... tanto per gradire...

Messaggioda flaviomob il 10/01/2011, 22:23

CONTRO IL PARTITO DEL CAPITALE
editoriale di Paolo Ferrero su Liberazione

La settimana che si apre e di quelle cha lasceranno il segno nella storia del
paese. In primo luogo per la vicenda Fiat. Come Liberazione ha chiarito in
queste settimane, il ricatto mafioso di Marchionne mettendo al centro il
rapporto di produzione ha una valenza politica generale. La messa in discussione
della possibilita da parte dei lavoratori di organizzarsi sindacalmente in
fabbrica non e solo un attacco alle conquiste degli anni '70 ma dell'impianto
costituzionale del nostro paese. La riduzione del lavoro a merce costituisce la
negazione della repubblica nata dalla resistenza e fondata sul lavoro. L'offensiva
della Fiat prelude quindi ad un passaggio di regime, in cui la sanzione
simbolica dello stravolgimento della costituzione materiale del paese da
attuarsi attraverso il plebiscito, costituisce il presupposto dello
stravolgimento della Costituzione formale. Si tratta di una vera e propria
rivoluzione conservatrice.
La Fiat non e nuova a forzature di questo genere. Dopo la sconfitta dell'occupazione
delle fabbriche nel 1920, nell'aprile del 1921 la Fiat apri una offensiva con l'obiettivo
di cancellare i regolamenti che prevedevano i Commissari di reparto (i delegati
sindacali) e quindi la presenza del sindacato in fabbrica. Di fronte all'opposizione
della Fiom, attuo una serrata al fine di ricattare gli operai. Dopo alcune
settimane, oramai ridotti alla fame, la maggioranza degli operai accetto di
firmare individualmente il nuovo regolamento di fabbrica che prevedeva l'abolizione
dei commissari di reparto. In seguito la Fiat riapri la fabbrica applicando il
nuovo regolamento che era stato sottoscritto sotto ricatto dalla maggioranza
degli operai e licenzio 1500 operai, in larga parte Commissari di reparto e
Comunisti. Cosa accadde dopo, con l'avvento del fascismo lo sappiamo.
Fu nuovamente l'iniziativa della Fiat a chiudere il decennio di lotte degli anni
'70 e ad aprire la strada alla demolizione del soggetto che di quel decennio
aveva rappresentato la spina dorsale: il sindacato dei consigli. Nel 1979 la
Fiat licenzio 61 operai con motivazioni formali futili ma lasciando trapelare
che si trattava di terroristi. La risposta fu debole e l'offensiva passo. I
lavoratori che i magistrati reintegrarono non vennero mai fatti rientrare in
fabbrica. Dopo questa prima offensiva "di assaggio" parti l'offensiva vera e
propria,, con la richiesta di 14.000 licenziamenti poi trasformati in 23.000
operai messi in cassa integrazione a zero ore. Questo sciagurato accordo non
solo chiuse la stagione del sindacato dei Consigli ma apri la stagione della
restaurazione craxiana.
Oggi e di nuovo la Fiat a guidare le danze, a farsi partito e a dirigere la
borghesia. L'obiettivo della Fiat e quello di indicare organicamente una strada
di destra per affrontare la crisi del capitale. La riduzione del lavoro a pura
variabile dipendente dell'impresa e il presupposto per la riduzione della
politica a pura ancella dell'impresa dentro la competizione globale. La Fiat
vuole realizzare l'utopia capitalistica di de territorializzare l'azienda, di
rendere le condizioni di lavoro indifferenti al territorio ove si lavora per il
capitale globalizzato. Fino ad oggi i padroni de territorializzavano l'azienda
alla ricerca di condizioni a loro piu favorevoli, adesso la Fiat fa il passo
successivo, unificando al ribasso le condizioni dei lavoratori italiani. La Fiat
vuole abolire il Contratto nazionale di lavoro per applicare il contratto della
globalizzazione, quello individuale, quello in cui ogni lavoratore e in
concorrenza con l'altro su scala planetaria. La Fiat in concorso pieno e
solidale con Berlusconi vuole costruire in Italia un vero laboratorio negativo
della ristrutturazione europea. Se il primo passo riguarda le relazioni di
lavoro, il secondo dovra riguardare il quadro costituzionale e legislativo in
cui i rapporti di lavoro si determinano. Banalmente la democrazia e la forma in
occidente con cui il capitalismo ha gestito la sua fase di crescita e sviluppo
ma non e la forma con cui il capitalismo puo gestire l'impoverimento di un
paese. Parlo di impoverimento a ragion veduta. La scelta di demolire i contratti
nazionali e di precarizzare integralmente il lavoro e una scelta di bassi salari
e di distruzione del welfare, cioe una scelta di impoverimento di larghi strati
della popolazione - a partire dai giovani - e di costruire una societa piu
gerarchica e diseguale.
Questa rivoluzione conservatrice di cui Marchionne e Berlusconi si fanno
portatori non sara indolore e non ha un esito scontato. Il problema principale
che sconta, e la rottura dell'orizzonte di progresso, che rappresenta il vero
senso comune di massa del paese. Non e semplicissimo convincere milioni di
genitori che i loro figli dovranno stare peggio di come sono stati loro. Non e
semplicissimo convincere quei ragazzi e quelle ragazze che gli hanno rubato la
vita, che sono finiti in guerra senza saperlo, che ne devono pagare le
conseguenze mentre i ricchi guardano dall'alto. Non e semplicissimo convincere
intere generazioni che "gli e andata male", che sono sfortunati e pazienza.
L'attacco e quindi forte ma non privo di contraddizioni e punti deboli. Decisivo
per noi agire con tempestivita e chiarezza sapendo che i prossimi giorni saranno
decisivi per il prosieguo della battaglia. Tre sono le priorita su cui agire nei
prossimi giorni:
In primo luogo occorre operare in Fiat affinche il plebiscito vada di traverso a
Marchionne. In secondo luogo occorre costruire una consapevolezza di massa tra i
giovani e i lavoratori di cosa sta accadendo in Fiat, delle sue implicazioni per
tutti e della necessita di una risposta unitaria, dello sciopero generale. In
terzo luogo occorre costruire una campagna di massa contro il federalismo - che
andra in votazione nelle prossime settimane - e che rappresenta a livello
territoriale l'applicazione della linea di Marchionne sull'impresa.
Il rilancio del Partito della Rifondazione Comunista e della Federazione della
Sinistra, il rilancio della proposta unitaria a cui le altre forze della
sinistra continuano a fare orecchie da mercante, non puo avvenire che nel vivo
dello scontro che si e aperto.


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Re: Accordo FIAT: la solita CGIL

Messaggioda Robyn il 10/01/2011, 22:28

L'80% degli italiani non è favorevole alle intese fatte in Fiat,vuole delle intese più favoreli ai lavoratori.Questo significa che nella ridefinizione di un nuovo modello contrattuale vanno salvaguardati malattia,sciopero và cambiata la flessibilità nell'orario di lavoro e non và fatto nessun cenno ai ritmi.Inoltre bisogna inserire a chiare lettere nel nuovo modello contrattuale la valorizzazione del capitale umano che non stà solo nel premiare il merito ma anche a fare in modo che il lavoro sia più umano e più sicuro e che quindi gli investimenti siano finalizzati anche a questo.In questa ridefinizione del modello contrattuale il parere di Fiat non conta nulla e Fiat dovrà adeguarsi al nuovo modello contrattuale.Inoltre gli straordinari ,se si tratta di piccole aziende devono essere un pò meno per esempio 80 ore ciao robyn
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E' qui la FESTA?

Messaggioda flaviomob il 10/01/2011, 22:38

da Flavio Mobiglia:

Caro Marchionne, non posso scrivere qui tutto ciò che penso di lei, perché sarei immediatamente radiato. Arroganza, delirio di onnipotenza, spocchia e presunzione non sono segni di grandezza ma di grettezza e mediocrità. Bene hanno fatto i tedeschi a cacciarla, anzi a non farla nemmeno entrare in Opel!!! Impariamo da loro.

* * *

Anagramma:

Ed arde fin mezz'ampio

* * *

da Repubblica:

Caro Marchionne, non sarà mai una festa
Caro Marchionne, non sarà mai una festa

Sergio Marchionne a Los Angeles

Il "Marchionne show" a Detroit resterà negli annali dell’imprenditoria italiana. Alla vigilia del referendum su Mirafiori, l’amministratore delegato della Fiat ha ripetuto molte cose che aveva già detto. A partire dal fatto che, se l’accordo passerà con almeno il 51 per cento, il Lingotto andrà avanti con i suoi investimenti, mentre se vinceranno i no allora "si chiude", il gruppo se ne va a produrre altrove. La logica è sempre la stessa: tecnicamente ricattatoria. Con tutto il rispetto, non saprei trovare altre definizioni.

Ma stavolta c’è di più. Il "ceo" italo-svizzero-canadese ha condito questo avvertimento con una chiosa che mi ha colpito. Nel confermare che se il referendum non passa la Fiat chiuderà Mirafiori e procederà alla delocalizzazione dell’impianto in Serbia o chissà dove, Marchionne ha aggiunto: "E ce ne torneremo a festeggiare a Detroit". Questo è davvero incomprensibile. Intanto, non si capisce l’opportunità "politica" di infiammare gli animi fino a questo punto, a poche ore dal voto degli operai che dovrà decidere del loro destino di lavoratori, di individui, in molti casi di padri e di madri di famiglia.

Ma poi, davvero, non si capisce cosa ci sarebbe da "festeggiare". È una "festa",
se una grande azienda di automobili italiana decide di chiudere un impianto che esiste da un secolo, e che rappresenta un pezzo di storia non solo industriale, ma anche sociale di questo Paese? È una "festa", se scompare dal nostro tessuto produttivo un luogo fisico, e anche simbolico, attraverso il quale sono passate centinaia di migliaia di donne e di uomini che, migrando molto spesso da un Sud povero e disperato, hanno trovato proprio a Mirafiori non solo il sacrificio, ma anche il riscatto? È una "festa", se si getta al macero un "bene collettivo" come quello stabilimento, dove tra gli Anni Cinquanta e Sessanta si sono formate e forgiate generazioni di italiani che hanno conosciuto l’affrancamento dal bisogno, la sapienza e la dignità del lavoro, e hanno accumulato quel patrimonio di diritti che sempre il lavoro porta con sé, e che trasforma un operaio alla catena di montaggio in un "cittadino" della polis

Comunque si giudichi l’accordo voluto dal Lingotto e il piano "Fabbrica Italia", l’operato di Marchionne e la resistenza della Fiom, questa non è, non può essere e non sarà mai una "festa". Se diventasse realtà, la chiusura di Mirafiori sarebbe un dramma per tutti. Non solo per i sindacati e per i lavoratori, ma anche per il governo, per l’opposizione, per l’Italia. Evidentemente dev’essere difficile capirlo al di là dell’Atlantico, nella lontana Auburn Hill: ma sarebbe una tragica sconfitta soprattutto per la Fiat.
(10 gennaio 2011)


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Re: Accordo FIAT: la solita CGIL

Messaggioda flaviomob il 11/01/2011, 8:42

http://sbilanciamoci.info/Sezioni/itali ... razia-7206

Lettera degli economisti sulla Fiat

Produrre e lavorare meglio, con democrazia

07/01/2011

I fatti dietro l'accordo sullo stabilimento di Mirafiori, il ridimensionamento produttivo della Fiat in Italia e il crescente orientamento finanziario, le alternative alla strategia dell'azienda. Lettera di 46 economisti sul conflitto Fiat-Fiom

Il conflitto Fiat-Fiom scoppiato a fine 2010 sul progetto per lo stabilimento di Mirafiori a Torino – che segue l’analoga vicenda per lo stabilimento di Pomigliano d’Arco - è importante per il futuro economico e sociale del paese. Giornali e tv presentano la versione Fiat, sostenuta anche dal governo, per cui con la crescente competizione internazionale nel mercato dell’auto i lavoratori devono accettare condizioni di lavoro peggiori, la perdita di alcuni diritti, fino all’impossibilità di scegliere in modo democratico i propri rappresentanti sindacali.

Vediamo i fatti. Nel 2009 la Fiat ha prodotto 650 mila auto in Italia, appena un terzo di quelle realizzate nel 1990, mentre le quantità prodotte nei maggiori paesi europei sono cresciute o rimaste stabili. La Fiat spende per investimenti produttivi e per ricerca e sviluppo quote di fatturato significativamente inferiori a quelle dei suoi principali concorrenti europei, ed è poco attiva nel campo delle fonti di propulsione a basso impatto ambientale. A differenza di quanto avvenuto tra il 2004 e il 2008 - quando l’azienda si è ripresa da una crisi che sembrava fatale – negli ultimi anni la Fiat non ha introdotto nuovi modelli. Il risultato è stata una quota di mercato che in Europa è scesa al 6,7%, la caduta più alta registrata nel continente nel corso del 2010.

Al tempo stesso, tuttavia, nel terzo trimestre del 2010 la Fiat guida la classifica di redditività per gli azionisti, con un ritorno sul capitale del 33%. La recente divisione tra Fiat Auto e Fiat Industrial e l’interesse ad acquisire una quota di maggioranza nella Chrysler segnalano che le priorità della Fiat sono sempre più orientate verso la dimensione finanziaria, a cui potrebbe essere sacrificata in futuro la produzione di auto in Italia e la stessa proprietà degli stabilimenti.

A dispetto della retorica dell’impresa capace di “stare sul mercato sulle proprie gambe”, va ricordato che la Fiat ha perseguito questa strategia ottenendo a vario titolo, tra la fine degli anni ottanta e i primi anni duemila, contributi pubblici dal governo italiano stimati nell’ordine di 500 milioni di euro l’anno.

A fare le spese di questa gestione aziendale sono stati soprattutto i lavoratori. Negli ultimi dieci anni l’occupazione Fiat nel settore auto a livello mondiale è scesa da 74 mila a 54 mila addetti, e di questi appena 22 mila lavorano nelle fabbriche italiane. Le qualifiche dei lavoratori Fiat sono in genere inferiori a quelle dei concorrenti, i salari medi sono tra i più bassi d’Europa e la distanza dalle remunerazioni degli alti dirigenti non è mai stata così alta: Sergio Marchionne guadagna oltre 250 volte il salario di un operaio.

Questi dati devono essere al centro della discussione sul futuro della Fiat. L’accordo concluso dalla Fiat con Fim, Uilm e Fimsic per Mirafiori – che la Fiom ha rifiutato di firmare - prevede un vago piano industriale, poco credibile sui livelli produttivi, tanto da rendere improbabile ora ogni valutazione sulla produttività. L’accordo appare inadeguato a rilanciare e qualificare la produzione, e scarica i costi sul peggioramento delle condizioni dei lavoratori. Sul piano delle relazioni industriali i contenuti dell’accordo sono particolarmente gravi: l’accordo si presenta come sostitutivo del contratto nazionale di lavoro, e cancellerebbe la Fiom dalla presenza nell’azienda e dal suo ruolo di rappresentanza dei lavoratori che vi hanno liberamente aderito.
Il referendum del 13-14 gennaio tra i dipendenti sull’accordo, con la minaccia Fiat di cancellare l’investimento nel caso sia respinto, pone i lavoratori di fronte a una scelta impossibile tra diritti e lavoro. In questa prospettiva, la strategia Fiat appare come la gestione di un ridimensionamento produttivo in Italia, scaricando costi e rischi sui lavoratori e imponendo un modello di relazioni industriali ispirato agli aspetti peggiori di quello americano.

Esistono alternative a una strategia di questo tipo.

In Europa la crisi è stata affrontata da imprese come la Volkswagen con accordi sindacali che hanno ridotto l’orario, limitato la perdita di reddito e tutelato capacità produttive e occupazione; in questo modo la produzione sta ora riprendendo insieme alla domanda. Produrre auto in Europa è possibile se c’è un forte impegno di ricerca e sviluppo, innovazione e investimenti attenti alla sostenibilità ambientale; per questo sono necessari lavoratori con più competenze, meno precarietà e salari adeguati; un’organizzazione del lavoro contrattata con i sindacati che assicuri alta qualità, flessibilità delle produzioni e integrazione delle funzioni. E’ necessaria una politica industriale da parte del governo che non si limiti agli incentivi per la rottamazione delle auto, ma definisca la direzione dell’innovazione e degli investimenti verso produzioni sostenibili e di qualità; le condizioni per mercati più efficienti; l’integrazione con le politiche della ricerca, del lavoro, della domanda. Considerando l’eccesso di capacità produttiva nell’auto in Europa, è auspicabile che queste politiche vengano definite in un contesto europeo, evitando competizioni al ribasso su costi e condizioni di lavoro. Su tutti questi temi è necessario un confronto, un negoziato e un accordo con i sindacati che rappresentano i lavoratori dell’azienda.

In nessun paese europeo l’industria dell’auto ha tentato di eliminare un sindacato critico della strategia aziendale dalla possibilità di negoziare le condizioni di lavoro e di rappresentare i lavoratori. L’accordo Fiat di Mirafiori riduce le libertà e gli spazi di democrazia, aprendo uno scontro che riporterebbe indietro l'economia e il paese.

Ci auguriamo che la Fiat rinunci a una strada che non porterebbe risultati economici, ma un inasprimento dei conflitti sociali. Ci auguriamo che governo e forze politiche e sindacali contribuiscano a una soluzione di questo conflitto che ristabilisca i diritti dei lavoratori a essere rappresentati in modo democratico e tuteli le condizioni di lavoro. Esprimiamo la nostra solidarietà ai lavoratori coinvolti e alla Fiom, sosteniamo lo sciopero nazionale del 28 gennaio 2011 e ci impegniamo ad aprire una discussione sul futuro dell'industria, del lavoro e della democrazia, sui luoghi di lavoro e nella società italiana.

Primi firmatari

Margherita Balconi, Università di Pavia

Paolo Bosi, Università di Modena e Reggio Emilia

Gian Paolo Caselli, Università di Modena e Reggio Emilia

Daniele Checchi, Università Statale di Milano

Tommaso Ciarli, Max Planck Institute of Economics

Vincenzo Comito, Università di Urbino

Marcella Corsi, Università di Roma “La Sapienza”

Pasquale De Muro, Università di Roma Tre

Giovanni Dosi, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa

Marco Faillo, Università degli Studi di Trento

Paolo Figini, Università di Bologna

Massimo Florio, Università Statale di Milano

Maurizio Franzini, Università di Roma “La Sapienza”

Lia Fubini, Università di Torino

Andrea Fumagalli, Università di Pavia

Mauro Gallegati, Università Politecnica delle Marche

Adriano Giannola, Università di Napoli Federico II

Anna Giunta, Università di Roma Tre

Andrea Ginzburg, Università di Modena e Reggio Emilia

Claudio Gnesutta, Università di Roma “La Sapienza”

Elena Granaglia, Università di Roma Tre

Simona Iammarino, London School of Economics

Peter Kammerer, Università di Urbino

Paolo Leon, Università di Roma Tre

Stefano Lucarelli, Università di Bergamo

Luigi Marengo, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa

Pietro Masina, Università di Napoli "L'Orientale"

Massimiliano Mazzanti, Università di Ferrara

Marco Mazzoli, Università Cattolica di Piacenza

Domenico Mario Nuti, Università di Roma “La Sapienza”

Paolo Palazzi, Università di Roma “La Sapienza”

Cosimo Perrotta, Università del Salento

Mario Pianta, Università di Urbino

Paolo Pini, Università di Ferrara

Felice Roberto Pizzuti, Università di Roma “La Sapienza”

Andrea Ricci, Università di Urbino

Andrea Roventini, Università di Verona

Maria Savona, University of Sussex

Francesco Scacciati, Università di Torino

Alessandro Sterlacchini, Università Politecnica delle Marche

Stefano Sylos Labini, Enea

Giuseppe Tattara, Università di Venezia

Andrea Vaona, Università di Verona

Marco Vivarelli, Università Cattolica di Piacenza

Antonello Zanfei, Università di Urbino

Adelino Zanini, Università Politecnica delle Marche

(Seguono altre adesioni) ---


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Re: Accordo FIAT: la solita CGIL

Messaggioda flaviomob il 11/01/2011, 11:00

http://www.sinistrainrete.info/ecologia ... marchionne

dal Manifesto:

L'irrealizzabile modello Marchionne
di Guido Viale

Ci sarà pur una ragione per cui la totalità dell'establishment italiano, dal Foglio della ex coppia Berlusconi-Veronica a Pietro Ichino - quel che resta della componente pensante di un partito ormai decerebrato) - converge nel chiamare «modernizzazione» il diktat di Marchionne («o così, o si chiude»). Che per gli operai di Mirafiori (età media, 48 anni; ridotte capacità lavorative - provocate dal lavoro alle linee - 1500 su 5200; molte donne) vuol dire: 18 turni; tre pause di dieci minuti per soddisfare - in coda - i bisogni fisiologici (a quell'età la prostata comincia a pesare; e nessuno lo sa meglio dell'establishment italiano, ormai alla grande sopra i 60); mensa anche a fine turno (otto ore di lavoro senza mangiare); 120 ore di straordinario obbligatorio, divieto di ammalarsi in prossimità delle feste, più - è un altro discorso, ma non meno importante - divieto di sciopero per chi non accetta e «rappresentanti» degli operai scelti tra, e da, chi è d'accordo con il padrone. Mentre «converge», l'establishment nel chiamare invece «conservazione» - o anche «reazione»; così Giovanni Sartori sul Corriere dell'8 gennaio - la scelta di opporsi a questo massacro. Nessuno di quei sostenitori della modernità si è però chiesto se il progetto «Fabbrica Italia» della Fiat, nel cui nome viene imposto questa nuova disciplina del lavoro, ha qualche probabilità di essere realizzato.
Vediamo. Nessuno - tranne Massimo Mucchetti - ha rilevato che i 20 miliardi dell'investimento investimento non sono in bilancio e non si sa da dove verranno. Nessuno può né deve sapere a chi e che cosa saranno destinati. Per ora le promesse sono 1.700 milioni di «investimenti» per due fabbriche, 10.700 lavoratori e tre nuovi «modelli» di auto, per una produzione complessiva di circa mezzo milione di vetture all'anno. Fanno, poco più di 150mila euro per addetto e, supponendo che un modello resti in produzione circa tre anni, poco più di mille euro per vettura (calcolando una media, tra Suv, Alfa e Panda, di 20mila euro a vettura, il 5 per cento del loro prezzo). Se una parte dei nuovi impianti, come è ovvio, servirà anche per i modelli successivi, l'investimento per vettura è ancor meno. Non gran che.

Nessuno - o quasi - si è chiesto quante possibilità ha Marchionne di vendere in Europa un milione all'anno in più delle vetture che promette di produrre in Italia. Di fronte a un mercato di sostituzione, nella migliore delle ipotesi, stagnante, vuol dire sottrarre almeno un milione di vendite alla Volkswagen o alle imprese francesi ben sostenute dal loro governo. Difficile crederci proprio ora che Fiat perde colpi e quote di mercato sia in Italia che in Europa. Per riuscire a piazzare mezzo milione all'anno di Alfa (vetture, non marchio), è già stato detto che dovrà venderle sulla Luna. Che le quotazioni della Fiat crescano è solo il segno che la Borsa è ormai una bisca fatta per pelare il «risparmiatore».

Nessuno - nemmeno Giovanni Sartori, che pure «aveva previsto tutto» ed è molto in ansia per le sorti del pianeta - si è veramente chiesto che futuro abbia, tra picco del petrolio, contenimento delle emissioni e misure anticongestione e inquinamento, l'industria dell'automobile in Europa e nel mondo. Eppure il tema meriterebbe qualche riflessione. In Europa c'è già un eccesso di capacità produttiva del 30-40 per cento; negli Stati Uniti anche: Il sole24ore del 6 gennaio ci informa che "nei prossimi cinque anni" anche in Cina - la nuova frontiera del mercato automobilistico mondiale - ci sarà una sovracapacità produttiva del 20 per cento.

Per il momento - la Repubblica, 7 gennaio - apprendiamo che «Pechino soffoca tra i gas» (e per ingorghi e congestione); tanto che sono stati contingentati e sottoposti a un sorteggio i permessi di circolazione. E qualche tempo fa una coda di cento chilometri alle porte di Pechino si è sciolta dopo un mese. Non sono buone notizie per l'industria automobilistica. Ma anche il governo della «locomotiva del mondo» comincia a pensare ai suoi guai «La desertificazione è il problema ecologico più grave del paese» ha affermato Liu Tuo, capo dell'ufficio cinese per il controllo della desertificazione (il manifesto, 6 gennaio). Niente a che fare con la produzione e la messa in circolazione di 17 milioni di auto, aggiuntive, non sostitutive, in un anno?

La conclusione è chiara: la «modernizzazione» al sostegno della quale è sceso in campo, con spirito militante, tutto l'establishment italiano, è questa: una corsa verso il basso delle condizioni di chi lavora, facendo delle maestranze di ogni fabbrica una truppa in guerra contro le maestranze della concorrenza (sono peggiorate molto anche quelle degli operai tedeschi e francesi, nonostante i salari più alti: basta considerare l'aumento delle malattie professionali) e, come premio per tanti sacrifici, la desertificazione del pianeta Terra.

Se questa è la «modernizzazione» - e che altro, se no? - diventa anche chiaro che cosa significa opporsi alla sua sostanza e alle sue conseguenze.

Non la «conservazione» dell'esistente - sarebbe troppo comodo - come sostengono i fautori delle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione, ma la progettazione, la rivendicazione e la realizzazione di un mondo totalmente altro, dove la condivisione sostituisce la competizione e la cura dei beni comuni sostituisce la corsa all'appropriazione privata di tutto e di tutti: il che ovviamente non è questione di un giorno o di un anno - e in parte nemmeno di uno o due decenni - né di una semplice dichiarazione di intenti, per quanto articolata e documentata possa essere.

Quel mondo va costruito pezzo per pezzo. A partire quasi da zero. Ma sapendo che nel mondo una «moltitudine inarrestabile» composta da migliaia di comunità e da milioni e forse miliardi di esseri umani), ciascuno a modo suo, cioè secondo le condizioni specifiche in cui si trova a operare e a cooperare con il suo prossimo, aspira e già lavora in questa stessa direzione. Nello stesso numero citato de il sole24ore, un articolo dal titolo "Tra gli operai, un sì per il futuro" (ma il testo dice esattamente l'opposto) registra una condanna unanime del nuovo accordo (nessuno lo considera, come fa invece l'establishment, un passo avanti); ma tutti piegano la testa dicendo che non c'è alternativa. «Però - sostiene un quadro della Fiom - la posta in palio è il lavoro, e chi si fa blandire dalle sirene degli estremismi e dalle ideologie sbaglia strada». «O sa - aggiunge - di avere qualche alternativa pronta».

Il problema è proprio questo. Non ci sono «alternative pronte». Quindi bisogna approntarle e non è un lavoro da poco. Ma ormai, che l'alternativa è la conversione ecologica del sistema industriale e innanzitutto, per il suo peso, il suo ruolo e le sue devastazioni, dell'industria automobilistica - che non vuol dire automobili ecologiche, che è un ossimoro, ma mobilità sostenibile - lo ha capito anche la Fiom. La «modernizzazione» di Marchionne sta cambiando a passi forzati il ruolo dei sindacati. Quelli firmatari hanno scelto per sé la funzione di guardiani del regime di fabbrica: che era quella dei sindacati «sovietici» ed è quella dei sindacati della Cina «comunista».

Cambia anche il ruolo dei sindacati che non rinunciano alla difesa dei lavoratori e al conflitto. Che per mantenere la sua indipendenza deve cercare sostegno e offrire una prospettiva anche a chi si batte fuori delle fabbriche Così il raggruppamento Uniti contro la crisi, a cui aderiscono anche molti membri della Fiom, ha convocato per il 22 e il 23 a Marghera un primo seminario per discuterne e affrontare il problema della riconversione. È un progetto che intende coinvolgere la totalità dei movimenti ambientalisti, gran parte dei comitati e dei collettivi che si sono battuti in questi anni per «un altro mondo possibile». E, soprattutto, un movimento degli studenti, dei ricercatori e dei docenti schierati contro la distruzione della scuola, dell'università, della ricerca e della cultura imposta dal governo, che su questi temi può trovare il terreno più fertile per dare continuità e respiro strategico al proprio impegno.


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Re: Accordo FIAT: la solita CGIL

Messaggioda Robyn il 11/01/2011, 12:12

Sono d'accordo cisl e uil hanno preso il posto dei sindacati sovietici.Infatti i lavoratori dell'ex urss erano sfruttati e lavoravano male ciao robyn
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Re: Accordo FIAT: la solita CGIL

Messaggioda Iafran il 11/01/2011, 12:50

Robyn ha scritto:Sono d'accordo cisl e uil hanno preso il posto dei sindacati sovietici.Infatti i lavoratori dell'ex urss erano sfruttati e lavoravano male

Allora, si potrebbe cambiare il titolo "Accordo FIAT: la solita CGIL" con un altro senza pregiudizi "Accordo FIAT: CISL e UIL hanno preso il posto dei sindacati sovietici"!
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Re: Accordo FIAT: la solita CGIL

Messaggioda cardif il 11/01/2011, 13:23

L'art.1 della Costituzione, così com'è, pone il lavoro al fondamento della Repubblica. Dal che discende che il lavoro ha dignità di valore e dà dignità all'uomo. Io penso a qualcosa di diverso, ma, dal momento che è così, lo Stato deve garantire per Costituzione tale dignità.
E' degno e dà dignità un lavoro che comporta sfruttamento e misera retribuzione? No, secondo me. E quindi è lo Stato che deve fissare un massimo d'impegno lavorativo ed un minimo di retribuzione, al di sopra o al di sotto del quale si ha sfruttamento o miseria. Così come è lo Stato che, con sue leggi, ha fissato le norme minime di sicurezza da rispettare, a tutela del lavoratore. Norme inderogabili e che devono valere per tutti i contratti di lavoro, come valgono quelle sulla sicurezza.
Il referendum di Mirafiori nei termini posti, o è sì oppure niente investimenti e quindi tra poco si chiude, è inaccettabile; la risposta è condizionata dallo stato di necessità di conservare il posto di lavoro. Se tutti avessero offerte di lavoro migliori, saluterebbero con gioia il buon Marchionne mentre se ne va. Oggi, invece, lui potrebbe pure dire: o vi accontentate di metà stipendio o porto la Fiat all'estero; anche così ci sarà chi non può fare a meno di accettare. Ma non lo potrebbe fare se lo Stato imponesse quel minimo di retribuzione detto prima. E non lo potrebbe fare nessun altro datore di lavoro, anche con un solo dipendente.
La contrattazione, anche decentrata, tra datore di lavoro, che fissa autonomamente le linee di sviluppo dell'azienda, e le rappresentanze dei lavoratori, scelte in piena autonomia, non può prevedere deroghe alle norme di sicurezza, e non deve prevedere deroghe alla dignità del lavoro e del lavoratore.
Viene da pensare: così non vengono investimenti dall'estero, così si bloccano le assunzioni, ecc. Ma questo dipende da tanti altri fattori (snellezze amministrative, sgravi fiscali ecc)
A me pare sensato.
Ma mo' mi so' capito bene?
cardif
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